Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.461 del 14/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE SECONDA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27239 – 2018 R.G. proposto da:

T.M. – c.f. ***** – L.R. – c.f. ***** –

rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine del ricorso dall’avvocato Antonia D’Alessandro e dall’avvocato Orlando Mario Candiano ed elettivamente domiciliati in Roma, alla piazza Mancini, n. 4, presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Picone.

– ricorrenti –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA – c.f. ***** – in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, domicilia per legge.

– controricorrente –

avverso il decreto n. 863/2018 della corte d’appello di Bari, udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15 maggio 2019 dal consigliere Dott. Luigi Abete.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO Con ricorso ex lege n. 89/2001 alla corte d’appello di Bari depositato il 9.3.2017 T.M. e L.R. si dolevano per l’eccessiva durata del giudizio d’appello proposto nei loro confronti da C.D. l’1.6.2010.

Chiedevano che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrisponder loro un equo indennizzo.

Il consigliere designato accoglieva il ricorso per quanto di ragione.

T.M. e L.R. proponevano opposizione.

Il Ministero della Giustizia non si costituiva.

Con decreto n. 863/2018 la corte d’appello di Bari accoglieva l’opposizione limitatamente alle spese della fase monitoria (aggiungeva l’importo di Euro 27,00); compensava integralmente le spese della fase di opposizione.

Evidenziava la corte che, così come correttamente aveva ritenuto il consigliere designato, la durata del giudizio “presupposto” doveva valutarsi nel complesso e non già con riferimento al solo grado d’appello; che in tal guisa la durata complessiva del giudizio (otto anni, un mese e ventuno giorni) era pari (per arrotondamento) ad otto anni e la durata irragionevole a tre anni; che dunque congruamente il consigliere designato aveva liquidato per ognuno degli opponenti la somma di Euro 1.200,00, ovvero l’importo di Euro 400,00 per ciascun anno di ritardo.

Avverso tale decreto hanno proposto ricorso T.M. e L.R.; ne hanno chiesto sulla scorta di quattro motivi – di cui il secondo in forma binaria articolato – la cassazione con ogni conseguente provvedimento.

Il Ministero della Giustizia ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 112 c.p.c..

Deducono che hanno domandato la liquidazione dell’indennizzo limitatamente al giudizio d’appello, protrattosi per cinque anni ed otto mesi e quindi protrattosi irragionevolmente per tre anni ed otto mesi; che la corte di merito, allorchè ha determinato in tre anni anzichè in quattro la durata irragionevole, ha violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Il primo motivo va rigettato.

Non sussistono gli asseriti errores in iudicando ed in procedendo.

Questa Corte spiega che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, benchè l’art. 2, comma 2 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, abbia individuato “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo sia stato articolato in vari gradi e fasi occorre avere riguardo a tutto il suo svolgimento, effettuandosene una valutazione sintetica e complessiva, altrimenti rivelandosi inutile la previsione di un termine massimo di durata ragionevole dell’intero giudizio sancita dalla cit. L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 ter (cfr. Cass. 5.10.2016, n. 19938).

Correttamente quindi la corte distrettuale ha considerato la durata complessiva del giudizio “presupposto”, siccome sviluppatosi in due gradi.

Non può pertanto condividersi l’assunto dei ricorrenti, che pretendono di “isolare” il giudizio di secondo grado e su tale scorta di ravvisare una durata “irragionevole” – circoscritta al solo giudizio di appello – maggiore (tre anni ed otto mesi, da arrotondare a quattro anni).

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 1; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il difetto assoluto di motivazione.

Deducono che la corte territoriale non ha provveduto ad esplicitare, alla stregua dei parametri legislativi, le ragioni per le quali ha ritenuto di determinare in Euro 400,00, ovvero nell’importo minimo previsto dalla legge, la misura dell’indennizzo spettante per ciascun anno di ritardo.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano altresì ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 1.

Deducono che la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 1, è in contrasto con l’art. 6 C.E.D.U. (nell’interpretazione di cui alle sentenze della Corte E.D.U. del 10.11.2004) – e dunque con l’art. 117 Cost. – alla cui stregua la misura dell’indennizzo per ogni anno di ritardo deve commisurarsi nel minimo ad Euro 1.000,00 e nel massimo ad Euro 1.500,00.

Il secondo motivo, con riferimento ad ambedue i profili in cui si articola, non merita alcun seguito.

Evidentemente la corte di Bari ha determinato il quantum dell’indennizzo nella misura minima prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 1.

Cosicchè non si configura la denunciata violazione dell’art. 2 bis cit..

D’altra parte, nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, novello n. 5, non riveste valenza tout court l’omessa motivazione, riveste valenza, propriamente e se del caso, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (cfr. Cass. sez. un. 7.4.2014, n. 8053).

Cosicchè non è appropriata, nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la denuncia di difetto assoluto di motivazione.

Vero è, al contempo, che, in tema di equa riparazione, la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis (anche nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, derivante dalle modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015), relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo per l’irragionevole durata del processo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo “presupposto”, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nell’art. 2 bis cit., comma 2, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico (cfr. Cass. (ord.) 1.2.2019, n. 3157).

Tuttavia non può non darsi atto, da un canto, che il Ministero controricorrente ha riferito dell'”esito totalmente sfavorevole del giudizio di appello (…) per entrambe le parti appellanti” (così controricorso, pag. 5; vedasi ricorso, pag. 2, ove è specificato che “il Tribunale di Bari (…) rigettava sia l’appello principale della Ceci che quello incidentale dei ricorrenti”), così ponendo in risalto un aspetto appieno riconducibile alla prefigurazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 2, lett. a), (“l’indennizzo è determinato (…), tenendo conto: a) dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui all’art. 2, comma 1”) ed atto a giustificare la quantificazione nella misura minima del moltiplicatore annuo. E, d’altro canto, che nulla a tal riguardo i ricorrenti hanno, in memoria (cfr. pag. 2), replicato.

La quaestio legitimitatis che la seconda articolazione del secondo mezzo veicola, non ha ragion d’essere (è manifestamente infondata).

Invero questo Giudice spiega che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, è legittima la liquidazione di un indennizzo inferiore alla soglia minima (pari ad C 500,00 per anno) ove tale riduzione si giustifichi alla luce della specifica natura e rilevanza dell’oggetto del giudizio nonchè (è il caso di specie) del comportamento processuale delle parti (cfr. Cass. 3.2.2017, n. 2995). E spiega ancora che l’indennizzo per durata irragionevole del processo non deve sovracompensare il danno, neppure se il giudizio presupposto aveva carattere non bagatellare, sicchè è legittima l’applicazione di un moltiplicatore annuo congruo alla posta in gioco, seppur inferiore allo standard giurisprudenziale (cfr. Cass. 2.11.2015, n. 22385).

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 92 c.p.c.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il difetto assoluto di motivazione.

Deducono che la corte barese ha immotivatamente compensato le spese del giudizio di opposizione; che non vi è stata soccombenza reciproca, atteso che il Ministero della Giustizia è rimasto contumace.

Il terzo motivo va respinto.

La corte pugliese ha accolto solo in parte (“per quanto di ragione”) l’opposizione ai sensi della L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter.

Sicchè vi è stata soccombenza reciproca (cfr. Cass. 22.2.2016, n. 3438, secondo cui reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorchè quest’ultima sia stata articolata in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento).

Sicchè per nulla pertinenti sono i riferimenti alla insussistenza della novità della questione trattata (cfr. ricorso, pag. 5) ed al principio di causalità (cfr. memoria pag. 2 – 3).

Si badi in pari tempo che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (cfr. Cass. 31.1.2014, n. 2149).

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 4; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il difetto di motivazione.

Deducono che i ricorrenti erano due e per ogni assistito in più spettava con riferimento alla fase innanzi al consigliere designato un aumento del 20% del compenso; che al riguardo la corte nulla ha motivato.

Deducono che la riduzione del 50% delle competenze (Euro 450,00) relative alla fase innanzi al consigliere designato andava motivata.

Il quarto motivo è meritevole di accoglimento nei limiti seguenti.

Ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 2, prima parte, “quando in una causa l’avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale (è il caso di specie), il compenso unico può di regola essere aumentato per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 20 per cento, fino a un massimo di dieci soggetti”. Evidentemente la voce verbale “può” accorda al giudice la facultas di far luogo all’aumento del compenso e nondimeno, al contempo, gli prefigura l’onere di motivare sia nell’evenienza in cui ritenga di riconoscere l’aumento sia nell’evenienza contraria.

Ebbene è innegabile che la corte d’appello non ha accordato l’aumento ex art. 4, comma 2, prima parte, cit. e tuttavia nulla ha esplicitato al riguardo.

In parte qua quindi il quarto motivo va accolto.

Alla stregua della tabella 8 – “procedimenti monitori” – allegata al D.M. n. 55 del 2014, applicabile alla fase innanzi al consigliere designato ai sensi della L. n. 89 del 2001, ex art. 3, il compenso medio, in rapporto allo scaglione (Euro 0,00/Euro 5.200,00) di riferimento nel caso di specie (il consigliere designato aveva liquidato per ognuno degli opponenti la somma di Euro 1.200,00), è pari ad Euro 450,00.

Tale compenso ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1, può essere, di regola, diminuito fino al 50% (il decreto impugnato è stato depositato il 26.2.2018, non si applica ratione temporis il D.M. 8 marzo 2018, n. 37).

Indiscutibilmente dunque l’importo di Euro 225,00 (liquidato dal consigliere designato e ribadito dal collegio all’esito dell’opposizione) è pari al compenso minimo, recte al compenso medio (Euro 450,00) ridotto del 50%.

Sovviene quindi l’insegnamento per cui, in tema di liquidazione delle spese processuali che la parte soccombente deve rimborsare a quella vittoriosa, la determinazione degli onorari di avvocato e degli onorari e diritti di procuratore costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (cfr. Cass. 9.10.2015, n. 20289; Cass. 4.7.2011, n. 14542, secondo cui la liquidazione delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo, in tal caso, di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini).

In accoglimento, nei limiti anzidetti, del (solo) quarto motivo di ricorso il decreto n. 863/2018 la corte d’appello di Bari va cassato con rinvio alla stessa corte d’appello in diversa composizione.

In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10, non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

P.Q.M.

La Corte accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il quarto motivo di ricorso; rigetta il primo, il secondo ed il terzo motivo di ricorso; cassa – nei limiti in cui il quarto motivo è stato accolto – il decreto n. 863/2018 della corte d’appello di Bari; rinvia alla stessa corte d’appello in altra composizione anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020

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