LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE SECONDA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Aldo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 2610 – 2019 R.G. proposto da:
CHEMIA s.p.a. – c.f. 00040080384 – in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa in virtù di procura speciale in calce al ricorso dall’avvocato Bruno Guaraldi ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via G. Avezzana, n. 6, presso lo studio dell’avvocato Matteo Acciari.
– ricorrente –
contro
MINISTERO della GIUSTIZIA – c.f. ***** – in persona del Ministro pro tempore.
– intimato –
avverso il decreto dei 11.12.2017/29.5.2018 della corte d’appello di Roma;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15 maggio 2019 dal consigliere Dott. Luigi Abete.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO Con ricorso ex lege n. 89 del 2001 alla corte d’appello di Roma depositato in data 10.9.2012 la “Chemia” s.p.a. si doleva per l’irragionevole durata del fallimento del “Consorzio Sardo fra le Cooperative della Rinascita” – Con. Sar. Co. Ri.” soc. coop. a resp. lim. in liquidazione, dichiarato dal tribunale di Cagliari in data 24.5.1996, ancora aperto alla data di proposizione del ricorso per equa riparazione ed al cui passivo era stata ammessa, a seguito di istanza depositata il 29.7.1996, in via chirografaria per il credito di lire 11.759.880.
Chiedeva condannarsi il Ministero della Giustizia a corrisponderle un equo indennizzo, da determinarsi in Euro 9.500,00.
Resisteva il Ministero della Giustizia.
Con decreto dei 11.12.2017/29.5.2018 la corte d’appello di Roma accoglieva il ricorso e condannava il Ministero a pagare alla ricorrente per l’irragionevole durata del fallimento “presupposto” la somma di Euro 5.600,00, oltre alle spese di lite con distrazione.
Reputava la corte che la durata “ragionevole” della procedura, in considerazione della complessità che ne aveva segnato il corso, era da determinare in sette anni, sicchè la durata “irragionevole”, alla data della decisione, era da computare in quattordici anni e cinque mesi.
Reputava ulteriormente che l’indennizzo era da quantificare in complessivi Euro 5.600,00, ossia in Euro 400,00 per ciascun anno di ritardo, e che non era da indennizzare la residua frazione di cinque mesi.
Avverso tale decreto ha proposto ricorso la “Chemia” s.p.a.; ne ha chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni conseguente provvedimento anche in ordine alle spese.
Il Ministero della Giustizia non ha svolto difese.
La s.p.a. ricorrente ha depositato memoria.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, in relazione all’art. 6 C.E.D.U., par. 1, al primo protocollo addizionale, art. 1 ed agli artt. 111 e 117 Cost..
Deduce che la corte di merito ha applicato il parametro risarcitorio introdotto dalla L. n. 208 del 2015, sebbene, ratione temporis, inoperante nella fattispecie; che viceversa, in conformità alla costante elaborazione giurisprudenziale antecedente alla novella del 2015, la corte distrettuale avrebbe dovuto determinare l’equo indennizzo nell’importo di Euro 500,00 per ciascun anno di “irragionevole” durata.
Il primo motivo è fondato e meritevole di accoglimento.
Sussiste il denunciato error in iudicando.
Invero, ed a prescindere dall’asserita applicazione retroattiva della disciplina sopravvenuta, che del resto la stessa ricorrente reputa “implicita”, seppur chiara (cfr. ricorso, pag. 6), in tema di equa riparazione da irragionevole durata del processo fallimentare, per il quale il creditore non abbia neppure dimostrato di aver manifestato nei confronti degli organi della procedura uno specifico interesse alla definizione della stessa, è congrua la liquidazione dell’indennizzo nella misura solitamente riconosciuta per i giudizi amministrativi protrattisi oltre dieci anni, rapportata su base annua a circa Euro 500,00, dovendosi riconoscere al giudice il potere, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, di discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione dei quali deve dar conto in motivazione (cfr. Cass. 16.7.2014, n. 16311; altresì Cass. (ord.) 19.5.2017, n. 12696).
Evidentemente, alla luce dell’indirizzo ricostruttivo testè riferito, la quantificazione in Euro 500,00 del moltiplicatore annuo si giustifica anche nell’evenienza in cui il creditore non abbia dimostrato – mancata dimostrazione che la corte distrettuale ha posto esplicitamente in risalto (cfr. decreto impugnato, pag. 3) – di aver collaborato con gli organi della procedura e così di aver palesato uno specifico interesse alla sollecita chiusura del fallimento.
Evidentemente, alla luce surriferito dell’indirizzo ricostruttivo, la quantificazione del moltiplicatore annuo in misura inferiore ad Euro 500,00 postula una specifica motivazione, di cui viceversa – al di là del passaggio motivazionale (privo di precipua valenza) summenzionato – non vi è traccia nell’impugnato dictum. Tanto, in verità, a prescindere dal rilievo per cui il primo mezzo dell’esperito ricorso non reca al contempo, neppure in rubrica, censure all’impianto motivazionale del decreto della corte territoriale.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1284 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2 bis ed in relazione all’art. 6 C.E.D.U., par. 1, al primo protocollo addizionale, art. 1 ed agli artt. 111 e 117 Cost..
Deduce che contrariamente all’assunto della corte di Roma aveva espressamente provveduto a domandare gli interessi legali nelle conclusioni dell’iniziale domanda.
Il secondo motivo va respinto.
La corte romana ha puntualizzato che non competevano alla ricorrente gli interessi in assenza di espressa richiesta in tal senso.
Al riguardo dunque la corte non ha omesso di pronunciarsi, sicchè non si giustifica l’addotta violazione dell’art. 112 del codice di rito.
Piuttosto la deduzione della s.p.a. ricorrente si risolve nella prospettazione di un errore revocatorio, atteso che errore di fatto, che può dar luogo a revocazione della sentenza ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, è propriamente l’erronea percezione degli atti di causa (cfr. Cass. (ord.) 24.7.2012, n. 12962. Si veda anche Cass. sez. lav. 15.1.2009, n. 844, secondo cui l’errore di fatto idoneo a costituire motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa).
In accoglimento del primo motivo di ricorso il decreto dei 11.12.2017/29.5.2018 della corte d’appello di Roma va cassato con rinvio alla stessa corte d’appello in diversa composizione.
In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10, non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso; rigetta il secondo motivo di ricorso; cassa, in relazione al motivo (primo) accolto, il decreto dei 11.12.2017/29.5.2018 della corte d’appello di Roma; rinvia alla stessa corte d’appello in altra composizione anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020