Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.521 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3457-2018 proposto da:

FONDAZIONE ENASARCO, in persona del Presidente e legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO FRANCIA 178, presso lo studio dell’avvocato PIERO MANCUSI, che la rappresenta difende unitamente all’avvocato ANTONELLA PERSICO;

– ricorrente –

contro

R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 25, presso lo studio dell’avvocato MARIA FEDERICA OLIVIERI, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO TULONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7368/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/10/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato il 23/25 gennaio 2018, la Fondazione Enasarco ricorre per la cassazione della sentenza n. 7368/2017, pronunciata dalla Corte d’appello di Roma, pubblicata il 23 novembre 2017, notificata 24 novembre 2017 via PEC, concernente un’azione di responsabilità ex art. 2495 c.c., comma 2 promossa dalla ricorrente Enasarco, in veste di creditore privilegiato, nei confronti R.F., in qualità di liquidatore della società Silaq Italia s.r.l., messa in liquidazione per perdite il ***** e cancellata dal registro delle imprese il *****.

2. L’azione era stata avviata da Enasarco per l’accertamento della responsabilità del liquidatore della società per la mancata riscossione di contributi previdenziali, maturati e non versati dalla società, e precisamente per avere egli cancellato la società dopo la chiusura della fase di liquidazione, previo pagamento di alcuni debiti sociali, senza tener conto del suo credito di Euro 30.083,97, assistito da privilegio generale e non appostato nel bilancio finale di liquidazione; in particolare il creditore riteneva il liquidatore responsabile per non avere attivato la procedura di fallimento in proprio L. Fall., ex art. 6 e 14 (nella versione vigente ante 2006), atteso che la società, all’epoca della liquidazione, già giaceva in grave stato di insolvenza, oltre che di perdita totale del capitale sociale. Affermava infatti la mala gestio del liquidatore nel gestire tale fase, posto che la dichiarazione di fallimento avrebbe consentito, invece, un riparto dell’attivo nel rispetto della par condicio creditorum. Il danno, subito per colpevole condotta del liquidatore, di cui il creditore pretermesso chiedeva il risarcimento, era pertanto corrispondente all’importo che avrebbe potuto ricavare, in ragione della prelazione cui aveva diritto, nel riparto del residuo attivo, utilizzato invece dal liquidatore per effettuare pagamenti di altri debiti sociali.

3. Il Tribunale adito affermava la responsabilità del liquidatore nei confronti del creditore per il fatto che la società, risultata gravemente insolvente già all’apertura della fase di liquidazione, avrebbe dovuto essere sottoposta a una procedura fallimentare, e non di liquidazione, su iniziativa del liquidatore, sull’assunto che la presentazione dell’istanza, non necessitando di un’autorizzazione dell’assemblea, costituisce obbligo giuridico del liquidatore, la cui inosservanza all’epoca era sanzionata penalmente qualora dalla sua violazione ne fosse derivato un aggravamento del dissesto; rilevava che era pacifico che il liquidatore fosse a conoscenza del debito verso Enasarco, avendo sottoscritto il verbale di ispezione notificato alla società, non rilevando che il credito di Enasarco non risultasse formalmente appostato nel bilancio finale di liquidazione. Condannava quindi il liquidatore al relativo risarcimento, pari all’ammontare del credito pretermesso.

4. La sentenza veniva impugnata dal liquidatore e la Corte d’ appello di Roma, per quanto qui di interesse, in riforma della sentenza rigettava la domanda di Enasarco rilevando che la fattispecie dovesse essere considerata esclusivamente entro la cornice dell’art. 2495 c.c., assumendo che la responsabilità gravante sul liquidatore nei confronti dei creditori, di tipo extracontrattuale, richiede l’assolvimento degli oneri probatori da parte dell’attore che agisce nei confronti del liquidatore, e pertanto che 1) il creditore rimasto insoddisfatto, su cui grava l’onere di dimostrare la responsabilità del liquidatore per aver posto in essere un comportamento attivo od omissivo colposo dal quale sia derivato il mancato soddisfacimento del credito, nel caso specifico, pur avendo dimostrando l’esistenza del credito, non aveva dimostrato il relativo danno imputabile al lequidatore, posto che dal bilancio finale di liquidazione approvato dai soci risultava l’insussistenza di un attivo patrimoniale da distribuire; 2) dovesse parimenti escludersi una responsabilità del liquidatore nei confronti del creditore, dipendendo il mancato pagamento del debito sociale dalla mancanza di qualsiasi risorsa economica necessaria per procedere al suo soddisfacimento; 3) in ipotesi, l’omessa richiesta del fallimento in proprio della società non avrebbe potuto integrare di per sè un profilo di responsabilità del liquidatore, mancando la specifica dimostrazione che tale declaratoria avrebbe permesso di pervenire alla soddisfazione in tutto o in parte del credito.

5 D ricorso è affidato a due motivi, cui ha replicato il resistente con controricorso notificato nei termini. Enasarco ha prodotto memoria nei termini.

CONSIDERATO

che:

1. Con il 1 motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 la società ricorrente deduce che vi sia stata una violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, e comunque omesso esame di un fatto decisivo prospettato dalla parte attrice, e ciò in relazione agli artt. 2495 e 2446 c.c., nonchè alla L. Fall., artt. 6 e 14 nella versione anteriore alla riforma del 2006, e comunque una violazione di legge nell’atto di ripartizione dell’attivo senza tener conto della sussistenza del suo credito privilegiato, per quanto non indicato nel bilancio di liquidazione; con il 2^ motivo deduce la nullità della sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentato dall’aver omesso i giudici l’analisi puntuale del documento n. 7), in cui è racchiuso il verbale di assemblea per l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, ove risulterebbe descritto dal liquidatore il grave stato di insolvenza della società, e comunque che l’azzeramento dell’attivo patrimoniale residuo si sarebbe realizzato utilizzando il ricavo dell’attività di liquidazione per diminuire, per quanto possibile, l’esposizione debitoria della società. Parte resistente, di contro, sottolinea come nel caso in esame nessuna somma sia stata ripartita tra i soci e che il liquidatore abbia correttamente proceduto alla cancellazione della società, posto che nel bilancio finale non vi era più attivo patrimoniale di cui avrebbe potuto beneficiare il creditore, non avendo i soci provveduto a ripianare le perdite e non essendovi un obbligo del liquidatore, sol per questo, di avviare la società verso una fase concorsuale, posto che non vi erano sintomi di aggravamento del dissesto. Inoltre, il resistente deduceva che il creditore avrebbe dovuto provare l’esistenza, nel bilancio di liquidazione, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a soddisfare le proprie ragioni, posto che in sede di scioglimento non vi era stata alcuna ripartizione di attivo in favore nè dei soci, nè di terzi. Contestava, in via gradata, la certezza del credito affermata dalla Corte territoriale.

2. I motivi vanno analizzati congiuntamente per una evidente connessione logica tra la denunciata violazione di diritto e l’omessa motivazione, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 5.

3. Al riguardo, si osserva innanzitutto che la responsabilità illimitata del liquidatore nei confronti dei “creditori sociali non soddisfatti”, prevista nell’art. 2495 c.c., comma 2, una volta che la società sia stata cancellata, prescinde dall’accertamento di un formale stato di insolvenza della società da parte del liquidatore, obbligato in tal senso solo ove la mancata dichiarazione di fallimento produca una situazione di aggravamento del dissesto, rilevante ai fini penali, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito, posto che la procedura fallimentare, all’epoca, si sarebbe potuta avviare allorchè l’avesse richiesta un creditore o il Pubblico Ministero, ovvero anche il debitore in proprio (con onere, per quest’ultimo, di provare lo stato di insolvenza L. Fall., ex art. 14, nella versione ante 2006), non costituendo propriamente un atto obbligatorio per gli amministratori o liquidatori della società, se non nei casi eccezionali sopra indicati, non adeguatamente dedotti dalla parte attrice. L’art. 2495 c.c. in questione, nel comma 1, prevede che, una volta approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese e, nel comma 2 sancisce che, ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza del riparto andato a loro favore, e nei confronti dei liquidatori senza limitazione, se il mancato pagamento è dipeso da loro colpa.

4. In questo ristretto ambito di responsabilità del liquidatore verso il creditore sociale rimasto insoddisfatto, occorre svolgere alcune riflessioni sull’ampiezza della responsabilità “illimitata” prevista per il liquidatore nei confronti dei creditori sociali, sussistente pur dopo la cancellazione della società. Non è un caso, infatti, che allorchè la società sia stata sciolta si preveda per i liquidatori una responsabilità sociale illimitata, parificata in tutto a quella degli amministratori, ora come allora (cfr. il vigente art. 2489 c.c., comma 2, e la vecchia versione dell’art. 2452 c.c. che richiamava l’art. 2276 c.c.), in relazione alla natura dell’incarico rivestito, da valutarsi in rapporto al dovere del liquidatore di agire in modo conservativo, utile alla liquidazione, sì da evitare la dispersione del patrimonio sociale, oramai destinato alla liquidazione, e dunque al pagamento dei debiti sociali e alla distribuzione dell’attivo, ove presente, a favore dei soci, come precisato nel art. 2489 c.c., comma 1. Difatti i creditori, fino a che la società non è stata cancellata, anche se in ipotesi quest’ultima versi in stato di scioglimento, fanno affidamento sul patrimonio della società, il quale costituisce la garanzia patrimoniale generica su cui possono rivalersi e di cui possono chiedere persino la reintegrazione ex. art. 2394 c.c. sia agli amministratori che ai liquidatori. Ed invero, la responsabilità del liquidatore, una volta che ha provveduto a cancellare la società, permane direttamente nei confronti del singolo creditore rimasto eventualmente insoddisfatto, ove il mancato pagamento del credito sia derivato da sua colpa, in considerazione della violazione di obblighi inerenti alla natura dell’incarico che il liquidatore ricopre nella fase in cui la società è sciolta e non può più dinamicamente operare nell’esercizio dell’impresa, con assunzione di rischi ed oneri assimilabili a quelli degli amministratori che agiscono in una situazione di scioglimento non dichiarato, ex art. 2485 c.c., comma 1.

5. L’approdo cui è pervenuto il legislatore nel conformare la responsabilità del liquidatore, dunque, è frutto di una linea comune di pensiero giurisprudenziale e dottrinale che nel corso degli anni si è sviluppata intorno al tema della responsabilità degli organi liquidatori nei confronti della società, dei creditori sociali e dei soci, sull’assunto che essi sono tenuti al precipuo obbligo di liquidare al meglio – in modo utile – l’attivo patrimoniale, per ripartirlo equamente tra i soci solo una volta effettuato il pagamento dei debiti sociali, secondo l’ordine legale di priorità dei corrispondenti crediti sancito nel piano di liquidazione. Tale orientamento, teso a garantire massima tutela ai creditori, è oggi rinvenibile nelle norme che disciplinano i criteri di svolgimento della liquidazione, e più precisamente negli artt. 2487,2489 e art. 2491 c.c., comma 2, ove in quest’ultima disposizione si prevede espressamente che “i liquidatori non possono ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale soddisfazione del creditori sociali”. Andando più a ritroso nel tempo, la giurisprudenza ha avuto occasione di sottolineare la priorità che assume l’interesse dei creditori, stakeholders della società, soprattutto nella fase in cui essi non possono più fare affidamento nell’operatività dell’impresa e nella continuità aziendale, a vedere soddisfatti i propri crediti, tant’è che sin dal 1980 la Suprema Corte ha sancito la nullità della convenzione fra i soci di una società per azioni, amministratori e detentori dell’intero pacchetto azionario, la quale sia rivolta a trasferire i beni sociali, in favore dei soci stessi o di terzi, senza il preventivo soddisfacimento dei creditori della società, per violazione delle norme imperative che tutelano la integrità del patrimonio della società a garanzia dei creditori, e che ne consentono l’assegnazione ai soci solo nel caso e con la procedura dello scioglimento e messa in liquidazione dell’ente (cfr. Cass.Sez. 1, Sentenza n. 326 del 18/01/1988). Così i giudici di merito sono giunti financo a sostenere, anche nella vigenza delle norme abrogate dalla novella del 2003, che il diritto dei soci alla ripartizione dell’attivo sorge solo se, dopo il pagamento dei debiti, residui un saldo attivo da distribuire.

6. Non si può sottacere, in proposito, che in relazione all’attuale normativa che espressamente tutela la posizione di creditori in tale delicata fase conseguente allo scioglimento della società, anche se in ipotesi non dichiarato, imponendo agli amministratori tenuti a gestire la società scioltasi per qualsiasi causa, anche di diritto, “ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”, ex art. 2486 c.c., comma 1, tra le Corti di merito si è diffusa l’opinione in base alla quale sul gestore del patrimonio da destinare alla liquidazione (i.e. il liquidatore nominato a tal fine ex art. 2487 c.c.) gravi l’obbligo di rispettare il precetto della par condicio creditorum, sebbene detto obbligo non sia espressamente menzionato nelle norme di settore. Fra le pronunce più attuali si riscontrano affermazioni di responsabilità del liquidatore che, in presenza di una situazione di sostanziale insolvenza della società, non abbia proceduto ad una gestione liquidatoria informata ai criteri dell’art. 2741 c.c., e quindi al rispetto del principio della par condicio creditorum, consentendo la pretermissione di un credito assistito da privilegio ovvero anche pagamenti preferenziali di alcuni creditori a scapito di altri. E così, da ultimo, si è giunti ad affermare che il liquidatore di una società a responsabilità limitata è responsabile, ai sensi delle generali previsioni di cui all’art. 2043 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6, per il danno patito dal creditore che, al termine della procedura di liquidazione, sia stato soddisfatto in una percentuale inferiore rispetto a quella di altri creditori di pari grado. Il risarcimento, in tale caso, viene considerato pari all’importo che il creditore avrebbe avuto diritto di ricevere laddove il liquidatore avesse correttamente rispettato il principio della par condicio creditorum, tenendo conto di eventuali cause di prelazione dei crediti.

7 Sicchè l’evoluzione giurisprudenziale sopra descritta dimostra come il principio della par condicio creditorum sia certamente un corretto parametro per considerare la sussistenza e l’entità di una lesione del credito avvenuta per opera del liquidatore nella fase di liquidazione del patrimonio della società, a prescindere dall’apertura di una procedura concorsuale, valendo esso come criterio generale per disciplinare la fase di pagamento dei debiti sociali nel corso della liquidazione. Tale principio, infatti, è ricavabile dalle norme generali che negli artt. 2740 e 2741 regolano il concorso dei creditori e le cause di prelazione, laddove si prescrive l’obbligo del debitore di effettuare i pagamenti rispettando “il diritto dei creditori ad essere egualmente soddisfatti, salvo le cause legittime di prelazione”.

8. Se, dunque, precipuo dovere del liquidatore è quello di procedere a un’ ordinata liquidazione del patrimonio sociale pagando i debiti sociali, per conto della società debitrice, secondo il principio di par condicio creditorum, pur nel rispetto dei diritti di precedenza dei creditori aventi una causa di prelazione, al fine di evitare quindi la compressione dei diritti dei creditori che quel patrimonio è, per definizione, destinato a garantire, è logico assumere che in capo al medesimo liquidatore gravi l’obbligo di accertare la composizione dei debiti sociali prima di procedere ai relativi pagamenti, riparando gli eventuali errori od omissioni commessi dagli amministratori cessati dalla carica nel rappresentare la situazione contabile e patrimoniale della società, riconoscendo debiti eventualmente non appostati nei bilanci. Pertanto, tra gli obblighi del liquidatore si annovera anche quello di accertare l’insieme dei debiti sociali e di graduarli nel rispetto dei privilegi legali che li assistono, il pagamento dei quali, per loro natura, dovrà essere antergato rispetto a quello di crediti non assistiti da alcuna causa di prelazione.

9. Nel caso specifico, dunque, rileva certamente considerare che le norme di cui agli artt. 2753 e 2754 c.c., che istituiscono un privilegio generale sui beni mobili del datore di lavoro per i crediti per contributi, sono pacificamente riferibili ai crediti dell’Enasarco, secondo quanto statuito da una giurisprudenza che qui si intende confermare (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5818 del 14/06/1990; Sez. 1, Sentenza n. 11115 del 23/12/1994). Pertanto, nel valutare il danno lamentato da quest’ultimo ente, derivato dalla mancata considerazione del suo credito da parte del liquidatore, occorre riferirsi all’ordine preferenziale di pagamento che, in ipotesi, il credito privilegiato avrebbe dovuto ricevere nella fase in cui il liquidatore ha proceduto ad effettuare il pagamento dei debiti sociali, a discapito di altri già esistenti ma pretermessi, evento in base al quale deve valutarsi il danno in concreto ricevuto dal creditore rimasto insoddisfatto. In proposito, invero, rileva che il creditore abbia dedotto che lo stesso liquidatore ha preso cognizione del suo credito, di natura privilegiata, nella fase di liquidazione e ha, cionondimeno, dichiarato di avere effettuato il pagamento di alcuni debiti sociali che hanno permesso di azzerare l’attivo nel corso della liquidazione (cfr. doc. 7 in atti prodotto), senza poter dar spazio alla fase della distribuzione dell’attivo tra i soci. Rileva anche che la Corte di merito, in relazione alla deduzione del creditore pretermesso, ha ritenuto sussistente detto credito all’epoca della disposta liquidazione, con valutazione in questa sede non sindacabile che supera ogni eccezione sollevata da parte del resistente in ordine alla mancata prova del credito.

10. In punto di onere della prova, occorre rammentare che l’inadempimento contrattuale di una società di capitali nei confronti di un terzo (sia esso socio o creditore) non implica automaticamente la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente, generalmente descritta nell’art. 2395 c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente, come si evince, fra l’altro, dall’utilizzazione, nel testo della norma, dell’avverbio “direttamente”, il quale esclude che l’inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all’azione di responsabilità diretta del socio o del creditore nei confronti di amministratori o liquidatori (cfr. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15822 del 12/06/2019). Il principio or ora esposto si allinea, pertanto, a una consolidata impostazione giurisprudenziale che ravvisa una responsabilità aquiliana del liquidatore (e, più in generale, – dell’amministratore) anche nell’ipotesi considerata nell’art. 2495 c.c., parificabile alla responsabilità verso i terzi o i soci degli amministratori ex art. 2395 c.c., secondo una concezione classica che vede i creditori sociali come soggetti terzi rispetto alla società, con tutte le conseguenze in ordine all’onere probatorio riguardo alla prova della lesione del credito e al “debito di valore” che ne consegue (cfr. anche Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 24039 del 10/11/2006; Cass.Sez. 1, Sentenza n. 14558 del 30/05/2008). Conseguentemente, trattandosi del mancato pagamento di un debito sociale riferito a un’attività compiuta dal liquidatore nell’esercizio delle sue funzioni, equiparabile a quella di un amministratore, anche in riferimento alla responsabilità delineata in termini specifici nell’art. 2495 c.c., comma 2, grava sul creditore rimasto insoddisfatto l’onere di dedurre e allegare che la fase di pagamento dei debiti sociali non si è svolta nel rispetto del principio della par condicio creditorum, tenuto conto della legittima causa di prelazione di cui beneficiava ex lege il suo credito.

11. Quanto alla prova della effettiva lesione del credito subita a causa della condotta di mala gestio addebitabile all’amministratore, occorre tuttavia operare un distinguo tra la responsabilità “limitata” dei soci e la responsabilità “illimitata” del liquidatore dopo la cancellazione della società, rispettivamente previste nell’art. 2495 c.c. nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti.

12. Difatti, quando vi sia stata una ripartizione dell’attivo andata a favore dei soci e il creditore si determini ad agire nei loro confronti, è proprio il limite indicato al soddisfacimento del credito che impone precisi oneri probatori in capo al creditore. In questo caso, è attraverso la vicenda successoria regolata ex lege che il socio rimane obbligato nei confronti del creditore sociale, ed è pertanto quest’ultimo a dover provare che l’importo preteso sia di ammontare eguale o superiore a quello riscosso dal socio in sede di liquidazione, sulla base del relativo bilancio. E’ evidente, dunque, che in tale limitato caso la percezione della quota dell’attivo sociale assurga a elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio: sicchè, in base alla regola generale posta dall’art. 2697 c.c., tale circostanza deve essere dimostrata da chi faccia valere il diritto in giudizio (nel senso che grava sul creditore insoddisfatto l’onere della prova circa la distribuzione dell’attivo e circa la riscossione di una quota di esso da parte del socio: Cass. 23 novembre 2016, n. 23916; Cass. 16 maggio 2012, n. 7676; Cass. 10 ottobre 2005, n. 19732).

13. Ove, invece, come nel caso in esame, venga fatta valere la “responsabilità illimitata” del liquidatore nei confronti del creditore che assume essere stato pretermesso nella fase di pagamento dei debiti sociali, con trattamento preferenziale andato in favore di altri creditori, non rileva tanto la sussistenza o meno di un residuo attivo da ripartire tra i soci nel bilancio finale di liquidazione, nè tantomeno l’appostazione o meno nel bilancio finale di liquidazione del corrispondente debito sociale non pagato, quanto piuttosto l’indicazione, da parte del creditore che agisce in responsabilità, del credito sociale non considerato e dello specifico danno subito in rapporto ad altri crediti andati soddisfatti, poichè, tramite il richiamo alla colpa del liquidatore, occorre dedurre e allegare le specifiche condotte del liquidatore che si pongono in violazione degli obblighi connaturati all’incarico ricevuto. Conseguentemente ex latere creditoris, il creditore rimasto insoddisfatto dall’attività liquidatoria, per far valere la responsabilità del liquidatore, dovrà dedurre il mancato soddisfacimento di un diritto di credito provato come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell’apertura della fase di liquidazione e il conseguente danno determinato dall’inadempimento del liquidatore alle sue obbligazioni, astrattamente idoneo a provocarne la lesione, con riferimento alla natura del credito e al suo grado di priorità rispetto ad altri andati soddisfatti; mentre, ex latere debitoris, in relazione al principio di vicinanza della prova e agli obblighi gravanti sul liquidatore, il liquidatore dovrà provare l’adempimento dell’obbligo di procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali (costituente la cd massa passiva) e l’adempimento dell’obbligo di pagare i debiti sociali nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all’epoca coesistenti.

14. Alla luce di quanto sopra osservato, deve rilevarsi l’erroneità della interpretazione della norma di cui all’art. 2394 c.c., comma 2, offerta dalla Corte di merito, in termini tali da imporre al creditore di provare un danno risarcibile in relazione ai dati esposti nel bilancio finale di liquidazione che dava conto dell’assenza di un residuo attivo da ripartire tra i soci; altrettanto errata deve considerarsi l’impostazione secondo cui il creditore, per far valere la violazione del principio di par condicio creditorum, già attestata dal fatto che il liquidatore aveva esaurito l’attivo con il pagamento di alcuni debiti sociali, avrebbe dovuto invece provare in quali termini egli avrebbe potuto recuperare in tutto o in parte il suo credito in una eventuale procedura concorsuale, essendo una proiezione relativa a un evento non necessario ai fini della considerazione della violazione del principio di parità di trattamento tra i creditori, già apparentemente integrata con i pagamenti di parte dei debiti sociali, effettuati dal liquidatore. Difatti, qualora il risultato di azzeramento dell’attivo ottenuto dal liquidatore, “a monte”, sia riconducibile a un utilizzo della massa attiva liquidata e utilizzata per il pagamento dei debiti della società, a scapito di altri debiti sociali non egualmente considerati, sussiste una responsabilità del liquidatore che abbia eventualmente provveduto ai pagamenti dei debiti sociali in violazione del principio della par condicio indicato nell’art. 2741 c.c., pretermettendo un credito sociale già all’epoca liquido ed esigibile. Ed è proprio questo il fatto di rilievo, oggetto di discussione, del tutto trascurato dalla Corte di merito, desumibile già solo leggendo la relazione resa dal liquidatore all’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, ove si riferisce testualmente che l’assenza di attivo da ripartire tra i soci sia derivata “dalla liquidazione delle poste dell’attivo e dall’utilizzo delle somme residue per diminuire, per quanto possibile, l’esposizione debitoria” (v. doc. 7 allegato). Tale dato fattuale avrebbe dovuto essere confrontato con il dato, egualmente accertato dalla Corte, della sussistenza del credito vantato dal creditore, anche se non appostato nel bilancio finale di liquidazione.

15. In sintesi, in tale materia riguardante la responsabilità del liquidatore dopo la cancellazione della società va dunque affermato il seguente principio di diritto:” in tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società, ex art. 2495 c.c. comma 2, il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma comunque provato quanto alla sua sussistenza già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l’esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par conditio creditorum, nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741 c.c., comma 2. Pertanto, ove il patrimonio si sia rivelato insufficiente per soddisfare alcuni creditori sociali, il liquidatore, per liberarsi dalla responsabilità su di lui gravante in riferimento al dovere di svolgere un’ ordinata gestione liquidatoria del patrimonio sociale destinato al pagamento dei debiti sociali, ha l’onere di allegare e dimostrare che l’intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il pagamento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione ex art. 2741, c.c.”. Pertanto la Corte, in sede di rinvio, sarà tenuta a scrutinare la condotta assunta dal liquidatore alla luce dei suddetti principi e nel rispetto degli oneri probatori che ne conseguono.

16. Conclusivamente, la Corte accoglie il ricorso in relazione ai due motivi, per quanto di ragione, e per l’effetto cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del presente procedimento.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso in relazione al primo e secondo motivo; per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche perchè provveda in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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