LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2373-2018 proposto da:
FALLIMENTO ***** SRL in persona del curatore Dott. E.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DON MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato ENNIO LUPONIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNO CAMILLERI;
– ricorrente –
contro
REV GESTIONE CREDITI SPA e per essa quale mandataria, FININT REVALUE SPA, in persona dell’Amministratore Delegato Dott. V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE AMERICA 11, presso lo studio dell’avvocato DAVIDE ANGELUCCI, rappresentata e difeso dagli avvocati ANTONIO RAPOLLA, MICHELE PETRETTA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2687/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 14/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/10/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2008 la società “Commercio e Finanza s.p.a.” convenne dinanzi al Tribunale di Napoli la società ***** s.r.l., esponendo che:
-) ne 2002 aveva stipulato quattro contratti di leasing con a società convenuta, aventi ad oggetto altrettanti trattori stradali;
-) giunto il contratto a naturale scadenza, la società utilizzatrice manifestò la volontà di esercitare il diritto di opzione;
-) il contratto, tuttavia, subordinava l’esercizio di tale diritto alla circostanza che l’utilizzatore avesse adempiuto tutte le obbligazioni previste a suo carico dal contratto;
-) la ***** non aveva adempiuto l’obbligo di pagamento della tassa di possesso sugli automezzi, posta a suo carico per espresso patto contrattuale.
Concluse pertanto chiedendo la condanna della società alla riconsegna dei beni oggetto del contratto, previa dichiarazione di decadenza della ***** dall’esercizio del diritto di opzione.
2. La società convenuta si costituì eccependo che il pagamento della tassa di possesso era posto dalla legge a carico del proprietario, non dell’utilizzatore, e che in ogni caso il mancato pagamento di essa non poteva comportare la decadenza dal diritto di opzione, dal momento che questo era stato tempestivamente esercitato e le rate previste dal contratto erano state tutte regolarmente pagate.
3. Con sentenza 28 luglio 2011 n. 11692, il Tribunale di Napoli accolse la domanda attorea e condannò la ***** a restituire alla concedente i quattro trattori stradali oggetto del contratto.
La sentenza venne appellata dalla parte soccombente.
4. Con sentenza 15 giugno 2017 n. 2687 la Corte d’appello di Napoli rigettò il gravame.
Ritenne la Corte d’appello che:
-) l’art. 16 del contratto di leasing subordinava l’esercizio del diritto di opzione “all’adempimento di tutti gli obblighi” previsti dal contratto stesso;
-) l’art. 8 del contratto poneva a carico dell’utilizzatore il pagamento della tassa di possesso;
-) irrilevante era la circostanza che la normativa vigente all’epoca dei fatti ponesse a carico del concedente l’obbligo di pagamento della suddetta tassa, dal momento che tale disciplina riguardava unicamente il rapporto di diritto tributario tra l’amministrazione finanziaria il proprietario dei veicoli, ma non vietava alle parti del contratto di leasing di prevedere che il suddetto onere fiscale, nei rapporti interni tra concedente ed utilizzatore, fosse trasferito dal primo al secondo.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dal Fallimento della ***** s.r.l., con ricorso fondato su quattro motivi.
Ha resistito con controricorso la società REV – Gestione Crediti s.p.a. (per il tramite della propria mandataria Finint Revalue s.p.a.), alla quale il credito è stato ceduto dalla Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara s.p.a., a sua volta risultante dalla fusione per incorporazione della originaria creditrice Commercio e Finanza s.p.a..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza totale di motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4.
Lamenta che la Corte d’appello nulla ha statuito “sulla questione principale, ovvero sul diritto dell’utilizzatore a vedersi riconosciuto il diritto al trasferimento della proprietà dei beni in forza del pagamento delle rate del riscatto”.
Sostiene che la Corte d’appello non si sarebbe dovuta arrestare a stabilire quale fosse il soggetto tenuto al pagamento della tassa di possesso, ma avrebbe dovuto provvedere anche sulla ulteriore domanda formulata dalla ***** in grado di appello, e cioè l’accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà delle quattro motrici, per effetto del valido esercizio del diritto di opzione da parte di essa utilizzatrice.
1.2. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello a pagina 2, secondo capoverso, della propria sentenza dà conto della prospettazione della società concedente, secondo cui il contratto “subordinava l’esercizio del diritto di opzione per il trasferimento definitivo dei beni locati alla (utilizzatrice), all’adempimento di tutti gli obblighi previsti nei rispettivi contratti”, obblighi tra i quali rientrava il pagamento della tassa di possesso.
Stabilito ciò, alla pagina successiva (pagina 3) la Corte d’appello afferma che non era impedito alle parti pattuire, con limitata efficacia ai rapporti interni, che l’obbligo di pagamento della tassa di possesso gravasse sulla utilizzatrice, la quale però non l’aveva adempiuto Coniugando queste due parti della sentenza è evidente che essa si è implicitamente, ma chiaramente, pronunciata sull’eccezione della utilizzatrice, ritenendo che questa, non avendo adempiuto tutte le obbligazioni scaturenti dal contratto, non poteva nemmeno validamente esercitare il diritto di opzione.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c..
Il motivo, se pure formalmente unitario, contiene due censure.
2.2. Con una prima censura la ricorrente sostiene che la Corte d’appello “ha risolto la vertenza mediante l’applicazione dell’art. 1526 c.c.”, ma nel caso di specie nessuna delle parti aveva mai chiesto che il contratto fosse dichiarato risolto, anche perchè esso era giunto alla sua naturale scadenza per effetto del pagamento di tutte le rate previste da parte dell’utilizzatore.
2.3. Con una seconda censura la ricorrente reitera le medesime deduzioni già svolte col primo motivo, questa volta prospettandole sotto il profilo del vizio di omessa pronuncia.
2.4. La prima delle due suddette censure è inammissibile.
La Corte d’appello infatti non ha, nè implicitamente, nè esplicitamente, fatto applicazione dell’art. 1526 c.c.: nè in appello risulta che si sia fatta questione sugli obblighi restitutori o risarcitori scaturenti dal mancato esercizio del diritto di opzione.
La Corte d’appello si è limitata a statuire che il diritto d’opzione non poteva dirsi legittimamente esercitato, e che di conseguenza la proprietà dei beni non si era trasferita dalla concedente alla utilizzatrice.
Questo unicamente è stato il decisum della sentenza, e non risulta nè dalla sentenza, nè dal ricorso, che in appello vi fossero altre domande – non assorbite – su cui provvedere.
2.5. La seconda censura è infondata per le ragioni già indicate con riferimento al primo motivo.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 1526 c.c..
Sostiene che “la vertenza era stata risolta dal Tribunale in primo grado mediante l’applicazione dell’art. 1525 c.c., a tale error in iudicando non è stato eliminato dalla sentenza” d’appello.
Dopo avere premesso ciò, il motivo prosegue argomentando che l’art. 1526 c.c. non era pertinente ai caso di specie; che il mancato pagamento della tassa di possesso non ha reso invalido il contratto; che la risoluzione “non era prevista per tale ipotesi dal contratto nè è stata impugnata dalle parti”; e che in ogni caso il mancato pagamento della tassa di possesso non poteva impedire il trasferimento della proprietà per effetto dell’esercizio del diritto di riscatto: sia perchè tale inadempimento non poteva ritenersi grave ai sensi dell’art. 1455 c.c.; sia perchè la clausola contrattuale che lo prevedeva (art. 16) era generica; sia perchè in ogni caso quella clausola era vessatoria.
3.2. Il motivo è infondato in tutte le diverse censure in cui si articola.
Nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 1526 c.c., la censura è inammissibile, per la semplice ragione che la Corte d’appello non ha fatto applicazione alcuna di tale norma.
La Corte d’appello, infatti, non si è affatto occupata degli effetti restitutori e/o risarcitori scaturenti dalla risoluzione del contratto, nè ha mai dichiarato il contratto risolto: ha semplicemente accertato che esso è pervenuto alla sua naturale scadenza senza che fosse stato validamente esercitato il diritto di opzione.
3.3. Nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 1455 c.c. il motivo è del pari inammissibile.
La Corte d’appello infatti non ha affatto ritenuto sussistente un inadempimento per i fini e agli effetti di cui all’art. 1453 c.p.c..
La Corte d’appello si è limitata a rilevare che l’esercizio del diritto di opzione era subordinato ad una condizione (pagamento della tassa di possesso), e che tale condizione non si è avverata.
Ha dunque ascritto alla ***** non l’inadempimento di una obbligazione sorta dal contratto (rispetto al quale soltanto si pone il problema di valutarne la gravità ex art. 1455 c.c.), ma l’inadempimento di un onere cui era subordinato l’esercizio dei diritto di opzione, e rispetto al quale la “gravità” della condotta nulla rileva. L’onere, infatti, è una condotta non imposta, ma facoltativa e al cui effettivo esercizio è condizionato il conseguimento d’una posizione di vantaggio per l’onerato, non per la controparte: per queste sue caratteristiche, l’inadempimento d’un onere rileva per la sua sola oggettività, a prescindere quindi sia dall’elemento psicologico dell’onerato, sia dalla sua gravità.
3.4. Nella parte in cui lamenta la genericità e la vessatorietà dell’art. 16 delle condizioni generali di contratto il motivo è innanzitutto inammissibile, perchè non riassume nè trascrive il contenuto della suddetta clausola; in secondo luogo è infondato, perchè sollecita una interpretazione del contratto, da parte di questa Corte, diversa da quella adottata dal giudice di merito.
Ma una simile censura cozza contro varii principii, ripetutamente affermati da questa Corte: ovvero che l’interpretazione del contratto adottata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità quando siano state violate le regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.; che tale violazione non può dirsi sussistente sol perchè il testo contrattuale consentiva in teoria altre e diverse interpretazioni, rispetto a quella fatta propria dalla sentenza impugnata; che l’interpretazione del contratto prescelta dal giudice di merito può condurre alla cassazione della sentenza impugnata quando sia grammaticalmente, sistematicamente o logicamente scorretta, ma non quando costituisca una non implausibile interpretazione, preferita tra altre non implausibili interpretazioni (ex multis, in tal senso, Sez. 3 -, Sentenza n. 23319 del 23/11/2017, Rv. 546349 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017; Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014; Sez. 3, Sentenza n. 15254 del 25/09/2012; Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 10131 del 02/05/2006, Rv. 589465 – 01).
3.5. Nella parte, infine, in cui invoca la nullità della clausola sopraindicata, la censura è inammissibile perchè non risulta che sia mai stata prospettata nei gradi di merito.
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo la ricorrente lamenta, “anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la violazione degli artt. 1362 e ss. in relazione all’art. 1375 c.c.”.
Il motivo è illustrato con le seguenti parole: “il comportamento della concedente che, a fronte della volontà espressa il 31 dicembre 2004 e della corresponsione del prezzo di opzione (14 giugno 2005), ha richiesto solo in data 18 luglio 2015 la documentazione attestante il pagamento della tassa di possesso, ha violato il principio di buona fede ex art. 1375 c.c.”.
4.2. Nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 1362 c.c. il motivo è inammissibile, dal momento che la censura non viene nemmeno illustrata.
4.3. Nella parte restante il motivo è del pari inammissibile, giacchè il ricorso non indica in quale atto ed in quali termini fosse stata mai prospettata, nel giudizio di merito, la violazione da parte della Commercio e Finanza, del dovere di buona fede. Delle due, pertanto, l’una: se quella questione non venne mai prospettata nei gradi di merito, la censura è inammissibile perchè nuova; se, invece, la questione fosse stata effettivamente proposta sin dal primo grado, il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, giacchè la ricorrente, in violazione deiVonore impostole a pena di inammissibilità dalla suddetta norma, non indica in quale atto ed in quali termini prospettò la suddetta questione.
5. Le spese.
5.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.
5.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna Fallimento ***** s.r.l. alla rifusione in favore di REV Gestione Crediti s.p.a., come in epigrafe rappresentata, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 7.800, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di Fallimento ***** s.r.l. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato peri a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020