Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.568 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27979/15 R.G., proposto da:

V.D., rappresentato e difeso, giusta mandato in atti, dall’Avv. Tiziana Viccione, con la quale è elettivamente domiciliato in Roma, in Via Cunfida n. 20, presso lo studio dell’avv.to Francesco Oliveti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4932/31/15 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, depositata in data 25.05.2015, non notificata;

Udita la relazione svolta dal Consigliere Rosita d’Angiolella nella camera di consiglio del 8 novembre 2019.

RILEVATO

che:

Con avviso di accertamento *****, l’Ufficio rideterminava la posizione reddituale di V.D., avendo rilevato maggiori ricavi del reddito d’impresa sulla base dello scostamento degli indici risultanti dall’applicazione degli studi di settore.

Il contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Caserta, deducendo l’illegittimità e l’erroneità dell’avviso, in quanto basato su di una serie di presunzioni e prove logiche infondate. La Commissione di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso del contribuente, rideterminando in minus (da Euro 38.177,00, oltre interessi e sanzioni, ad Euro 28.540,00) i maggiori ricavi del reddito di impresa.

La Commissione tributaria regionale della Campania, sezione di Napoli, respingeva l’appello del contribuente confermando integralmente la sentenza di primo grado.

V.D. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Commissione regionale di cui in epigrafe, affidandosi a tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso l’Amministrazione erariale, deducendo l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del ricorso.

In data 13 ottobre 2016, è stata depositata in cancelleria relazione della sesta sezione di questa Corte, con la quale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stato proposto il rigetto del ricorso.

Con decreto presidenziale è stata, dunque, fissata l’adunanza camerale.

V.D., a ridosso dell’udienza, ha presentato memoria ex art. 380-bis1 c.p.c..

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 177 del 2000, art. 6, della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3 bis, e del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 5, non avendo la CTR rilevato la nullità dell’accertamento per mancato invito al contraddittorio endoprocedimentale.

Col secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, conv. in L. 427 del 1993, in relazione al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, per non aver la Commissione di secondo grado fondato la sua decisione sulla verifica di presunzioni gravi, precise e concordanti sulle quali, poi, avvalorare i parametri di cui agli studi di settore.

Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), nella parte in cui i secondi giudici non hanno considerato che l’accertamento induttivo è consentito solo laddove dalle ispezioni e dalle verifiche effettuate a carico del contribuente emerga l’irregolarità della contabilità, del che non è nella specie. Il ricorso è infondato e va integralmente respinto.

Va premesso che l’accertamento fiscale da cui muove la presente controversia, è un accertamento di tipo analitico-induttivo, che origina dall’analisi dei costi sostenuti ed esposti in contabilità dall’impresa, per giungere a ritenere insufficienti i ricavi dichiarati (nella specie relativi all’anno 2008) e ciò anche sulla base dei ricavi e delle spese applicati in esercizi consimili relativi a diverse annualità.

Per tale tipo di accertamento, l’orientamento consolidato di questa Corte è fermo nel ritenere che l’Amministrazione finanziaria è gravata, si, di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, ma sempre che il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (cfr. da Sez. U, Sentenza n. 24823 del 09/12/2015, Rv. 637604-01, a Sez. 6-5, Ordinanza n. 27421 del 29/10/2018, Rv. 651437-01).

Quanto alla verifica della contabilità ed all’applicabilità del metodo analitico-induttivo, questa Corte ha affermato da tempo che, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, i ricavi possano essere ritenuti falsi anche in base alla loro sproporzione, per difetto, rispetto ai costi e che, in tale contesto, sia possibile un accertamento analitico-induttivo, il quale tenga conto delle poste passive indicate dal contribuente, per ricostruire i ricavi effettivi (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 20422 del 21/10/2005, Rv. 585383-01). In particolare, è stato chiarito che “l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 20060 del 24/09/2014, Rv. 632351-01), egualmente, in materia di IVA, è stato soggiunto che “l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (cfr., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015, Rv. 63820201; eadem, Sez. 5. Ordinanza n. 25217 del 11/10//2018).

Orbene, applicando i principi richiamati alla fattispecie in esame, non v’è dubbio che la CTR ne ha fatto buon governo, avendo escluso l’obbligatorietà del contraddittorio e, nel merito, avendo fondato il suo ragionamento sulla prova logica afferente al tipo di accertamento analitico-induttivo, ritenendo, in base agli elementi acquisti, che il contribuente non avesse fornito la prova contraria alla tesi dell’Ufficio, così consentendo la legittimità della rideterminazione, per scostamento rispetto ai parametri di cui agli studi di settore, del reddito di impresa.

In particolare, quanto alla censura di violazione di legge di cui al primo motivo di ricorso, essa, alla luce dei principi su richiamati, si palesa infondata in quanto, a prescindere dal fatto che l’Agenzia delle entrate ha l’obbligo del preventivo contraddittorio quanto ai tributi armonizzati, non essendovi, invece, un obbligo generalizzato per quelli di natura diversa (cfr. ex plurimis, Sez. 65, Ordinanza n. 6219 del 14/03/2018, Rv. 647328-01), anche nel caso in cui un obbligo di tal fatta sia previsto dalla legge, affinchè la sua violazione comporti l’invalidità dell’accertamento sono necessarie due condizioni: da un lato, che il contribuente abbia dimostrato che in caso di contraddittorio avrebbe fatto valere ragioni da opporre all’accertamento (cfr. Sez. U. n. 24823 del 2015) e, dall’altro, che il rispetto del contraddittorio avrebbe potuto portare ad un risultato diverso (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 18450 del 21/09/2016,Rv. 641058-01). Alcuna delle due condizioni è stata allegata e tantomeno provata dal contribuente. Vieppiù, nella specie, si tratta di un normale accertamento analitico induttivo e non di un accertamento standardizzato per studi di settore. Così lo valuta il giudice di merito senza che si addotti la violazione di quelle norme – in particolare, l’art. 1362 c.c., comma 2, artt. 1363 e 1366 c.c., – che, dettate per l’interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 1602 del 24/01/2007, Rv. 594302-01), ivi compresi quelli dell’amministrazione finanziaria. Inoltre, ove mai gli studi settore siano utilizzati nell’ambito inferenziale dell’accertamento analitico induttivo, non scatta alcun obbligo di contraddittorio preventivo (conf., Sez. 6-5, Ordinanza n. 16191 del 2017; Sez. 5, Ordinanza n. 15344 del 2019, entrambe non massimate). Anche l’infondatezza dei gli altri due motivi di ricorso consegue agevolmente dai principi giurisprudenziali su esposti, secondo cui la presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconornicità del comportamento del contribuente, consente di desumere, in via induttiva, ai sensi del cit. D.P.R., art. 39, comma 1 lett. d), il reddito del contribuente attraverso il confronto delle incongruenze tra i ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati, e quelli che invece sono desumibili dagli studi di settore relativi alla specifica attività svolta, incombendo sul contribuente l’onere della prova contraria.

Nè, in tale sede è ammissibile introdurre una nuova valutazione dei fatti oggetto del giudizio di merito, come sembra voler proporre, surrettiziamente, il contribuente, nella parte in cui assume che una corretta valutazione degli elementi circostanziali emergenti nella fattispecie avrebbe dovuto portare la Commissione a conclusioni diversa per carenza di indizi gravi, precisi e concordanti.

Va rammentato che il giudizio di merito non può essere ulteriormente revisionato in questa sede, tenuto conto del principio di diritto secondo cui: “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.” (così, Sez. 6-5, Ordinanza n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792-01; cfr. altresì, Sez. 6 -3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017, Rv. 643690-01). Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, il ricorrente è tenuto al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle Entrate che liquida in complessivi Euro 2.300,00 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, il ricorrente è tenuto al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della V sezione civile della Corte di Cassazione, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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