Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.608 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6327/12 R.G. proposto da:

C.A., CA.FR. e C.M.G., in qualità di eredi di C.F., tutti rappresentati e difesi, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv. Vincenzo Trungadi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Maria Ida Orefice, in Roma, via Circonvallazione Clodia, n. 36;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Calabria n. 365/01/11 depositata in data 22 luglio 2011 udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

RILEVATO

che:

C.F. ricorreva avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva proceduto, con metodo sintetico sulla base degli indici di capacità contributiva di cui ai decreti ministeriali 10 settembre 1992, 19 novembre 1992 e 24 aprile 1999, alla rideterminazione del reddito dichiarato, contestando, in relazione all’anno 2002, spese per incrementi patrimoniali, sostenute nel periodo 2002-2006, per Euro 399.875,00, in relazione a sei compravendite immobiliari, nonchè spese di mantenimento per Euro 23.922,18 relative ad un’autovettura a gasolio immatricolata nell’anno 2001.

Il contribuente deduceva che l’accertamento era fondato su presuppoti errati, in quanto a) la compravendita dell’immobile di cui all’atto registrato il 27 giugno 2002 non poteva essere considerata quale indicatore di spesa per incremento patrimoniale, trattandosi di vendita, e non di acquisto, di un immobile di sua proprietà b) gli acquisti degli altri immobili erano stati effettuati con somme di denaro derivanti da disinvestimenti, con redditi derivanti dall’esercizio dell’impresa, con denaro ricavato dalla vendita di immobili di sua proprietà ovvero con mutuo decennale di Euro 60.000,00 concesso dalla Banca di Roma o con fido, oltre che con il contributo della moglie c) il pagamento del prezzo pattuito per gli acquisti di immobili dai suoi familiari era stato in parte effettuato compensando somme a lui dovute per avere estinto fideiussioni o debiti.

La Commissione tributaria provinciale di Vibo Valentia accoglieva il ricorso e la sentenza veniva impugnata dall’Agenzia delle entrate, la quale denunciava che la prova contraria offerta dal contribuente non era stata correttamente valutata dal momento che il mutuo ipotecario e il fido bancario si riferivano agli anni 2004/2006, mentre avrebbe dovuto prendersi in considerazione il periodo antecedente al momento dell’esborso.

I giudici di secondo grado, in riforma della sentenza impugnata, disattesa l’eccezione preliminare d’inammissibilità dell’appello, sollevata dal contribuente, ritenevano legittimo l’accertamento sintetico, considerato che il possesso dell’autovettura, la proprietà di un immobile adibito a residenza e le spese per incrementi patrimoniali relative alle compravendite concluse negli anni dal 2002 al 2006 lasciavano presumere una capacità contributiva non rispondente a quanto dichiarato, e non rilevante ai fini della prova contraria il mutuo e il fido bancario e non documentato l’assunto che le spese fossero state sostenute con proventi provenienti dai familiari, facendo fede quanto dichiarato negli atti notarili.

Ricorrono per la cassazione della suddetta decisione C.A., Ca.Fr. e C.M.G., nella qualità di eredi di C.F., affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Considerato che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Commissione regionale pronunciato nel merito nonostante la palese inammissibilità dell’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria.

Trascrivendo la motivazione della decisione di primo grado e l’appello dell’Agenzia delle Entrate, evidenziano che l’impugnazione avrebbe dovuto investire le ragioni di merito considerate dalla Commissione provinciale e contestare in modo puntuale tutta la documentazione prodotta a dimostrazione delle operazioni economiche coeve agli anni interessati dall’accertamento, ed in particolare quelle concernenti il mutuo ipotecario, il fido bancario e la vendita del fabbricato nel 2002; l’Ufficio, invece, si era limitato a censurare: a) il periodo preso in considerazione dai giudici di primo grado per valutare le operazioni economiche poste in essere dal contribuente b) il contrasto esistente tra la sentenza impugnata ed altre due decisioni emesse dalla stessa Commissione provinciale con riferimento agli anni d’imposta 2000 e 2001 c) la validità del mutuo rispetto agli acquisti effettuati prima della sua accensione d) la mancanza di prova della provenienza degli esborsi.

La decisione assunta dai giudici di secondo grado, ad avviso dei ricorrenti, viola, pertanto, il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

1.1. La censura in esame, con la quale i contribuenti lamentano che la pronuncia impugnata abbia ritenuto ammissibile l’appello dell’Amministrazione finanziaria avverso la decisione di primo grado, sebbene privo di specifici motivi richiesti a pena d’inammissibilità, e che la decisione sia quindi sfociata in una pronuncia di merito, in violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, è infondata.

1.2. Con riferimento alla specificità dei motivi di appello, ponendosi il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 come norma speciale rispetto all’art. 342 c.p.c., questa Corte ha ripetutamente chiarito che riguardo al contenzioso tributario “ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenere assolto l’onere di impugnazione specifica previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, secondo il quale il ricorso in appello deve contenere “i motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi” atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa di merito” (Cass. sez. 5, 29 febbraio 2012, n. 3064; Cass., sez. 5, 28 febbraio 2011, n. 4784; Cass., sez. 5, 30 dicembre 2016, nn. 27497 e 27498; Cass., sez. 6-5, ord. 22 marzo 2017, n. 7369; Cass., sez. 6-5, ord. 27 giugno 2017, n. 16037; Cass., sez. 6-5, ord. 5 ottobre 2018 n. 24641).

1.3. E’ pur vero che, in coerenza con quanto statuito dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. U, 16 novembre 2017, n. 27199) con riguardo agli artt. 342 e 434 c.p.c., è necessario che l’impugnazione contenga una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata, in modo che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata siano contrapposte quelle dell’appellante finalizzate a criticare e confutare le ragioni del primo giudice.

Ciò non significa, tuttavia, che anche la mera riproposizione delle argomentazioni originariamente dedotte non assolva a tale requisito, posto che i motivi di appello non possono considerarsi assenti o carenti quando l’atto di appello contenga una esplicita motivazione che, letta anche alla luce delle conclusioni formulate, consenta di ritenere, in termini inequivoci, che le doglianze investano l’intero atto impugnato.

1.4. Nel caso in esame, il ricorso in appello proposto dall’Agenzia delle entrate – come è possibile evincere dalla lettura dello stesso ritrascritto integralmente nel ricorso per cassazione in ossequio al principio di autosufficienza – contiene specifiche critiche alle argomentazioni poste dai giudici della Commissione provinciale a fondamento del loro convincimento e peraltro la Commissione regionale ha compiuto uno specifico accertamento di fatto sulla circostanza che l’atto di impugnazione, diversamente da quanto eccepito dal contribuente, non contenesse domande ed eccezioni nuove, ma si limitava a meglio puntualizzare quanto già dedotto in primo grado, di modo che la doglianza in esame proposta in termini di violazione del principio di specificità dei motivi di gravame non attinge il suddetto accertamento compiuto dai giudici di merito.

1.5. Neppure merita accoglimento la doglianza laddove si contesta ai giudici d’appello la violazione dell’art. 112 c.p.c..

Il vizio di ultrapetizione ricorre quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato (Cass., sez. 2, ordinanza n. 11304 del 10/05/2018; Cass. n. 25140 del 13/12/2010).

La Commissione regionale, pronunciandosi sull’eccezione sollevata dallo stesso contribuente, ha ritenuto ammissibile l’appello ed ha conseguentemente proceduto all’esame nel merito della controversia, non esorbitando in tal modo dai limiti dell’oggetto del giudizio.

2. Con il secondo motivo i contribuenti censurano la decisione gravata per insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere i giudici d’appello esplicitato le ragioni che li hanno indotti a dichiarare irrilevante ai fini del giudizio la documentazione prodotta.

Ribadiscono, al riguardo, che con il ricorso introduttivo del giudizio era stata eccepita l’erroneità dell’accertamento, sia perchè l’Ufficio aveva preso in considerazione una compravendita in cui C.F. non figurava come acquirente, ma come venditore dell’immobile – sicchè il relativo atto non poteva essere assunto quale indice di maggior reddito non dichiarato – sia perchè gli acquisti di cui agli atti notarili riportati nell’atto impositivo quali indici di maggior reddito determinato sinteticamente erano stati effettuati con somme di denaro riscosse a titolo di disinvestimento patrimoniale, grazie a redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o derivanti dall’esercizio dell’impresa, con il denaro ricavato dalla vendita d’immobili di sua proprietà ovvero concessogli con il mutuo decennale o con fido, nonchè con il concorso economico della moglie e, per quanto concerneva gli acquisti di immobili dai suoi familiari, in parte compensando somme dovute per avere estinto fideiussioni o debiti o per avere regolamentato rapporti ereditari, come comprovato dalla corposa documentazione prodotta.

A fronte delle suddette eccezioni, la Commissione regionale aveva ritenuto “irrilevante” la documentazione offerta a supporto delle argomentazioni difensive, senza spiegare le ragioni per cui avesse espresso tale giudizio, non considerando che la corretta disamina della documentazione depositata avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 laddove nella sentenza impugnata si legge “Non è rilevante ai fini della prova contraria l’acquisizione del mutuo e del fido bancario anche perchè nessun documento è stato fornito rispetto all’assunto di proventi provenienti dai familiari. Ancor più non rilevanti ove si consideri che gli atti notarili fanno fede e quanto in essi dichiarato non può essere posto in dubbio dichiarando cose diverse da quelle di cui agli atti pubblici”; le ragioni poste a fondamento della decisione, ad avviso dei ricorrenti, risultano insanabilmente contrastanti, non essendo ravvisabile alcun nesso tra la concessione di un mutuo o di un fido bancario con i proventi provenienti dai familiari e non essendo comprensbile come la forza fidefacente degli atti notarili potesse supportare il giudizio di irrilevanza.

4. Il secondo motivo è fondato, con assorbimento del terzo motivo.

4.1. Occorre premettere che costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello per cui “in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cosiddetto redditometro, dispensa l’amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, giacchè codesti restano individuati nei decreti medesimi. Ne consegue che è legittimo l’accertamento fondato sui predetti fattori-indice, provenienti da parametri e calcoli statistici qualificati, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione sull’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore” (Cass. n. 9539 del 19 aprile 2013; Cass. n. 5365 del 7 marzo 2014; Cass. 10 agosto 2016, n. 16912; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27811).

Si è altresì affermato, con riferimento alla determinazione sintetica del reddito complessivo netto in base ai coefficienti presuntivi individuati dai decreti ministeriali, che la prova contraria ammessa dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, richiedendo la dimostrazione documentale non solo della sussistenza di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche del possesso di tali redditi da parte del contribuente, implica un riferimento alla complessiva posizione reddituale dell’intero nucleo familiare, per tale intendendosi esclusivamente la famiglia naturale, costituita dai coniugi conviventi e dai figli (Cass. n. 5364 del 2014 cit.).

4.2. Posto ciò, l’assunto del ricorrente muove dall’esatto rilievo che, a fronte delle presunzioni di reddito scaturenti dall’accertamento sintetico, il contribuente può fornire la prova contraria, che deve essere sottoposta a verifica da parte del giudice nella sua complessità, senza ricorrere ad affermazioni generiche e sommarie.

Tale accertamento spetta esclusivamente al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se risulti sufficientemente motivato.

4.3. Nella sentenza impugnata la Commissione regionale, dopo avere precisato che il reddito dichiarato deve essere comparato con gli “elementi certi” emersi in sede di accertamento – quali il possesso di un’autovettura, il possesso di una abitazione destinata a residenza e spese per incrementi patrimoniali per Euro 399.875,00 relative alle compravendite di immobili stipulate negli anni 2002-2006 – idonei a consentire il ricorso all’accertamento sintetico e a far scattare la presunzione di maggior reddito con conseguente inversione dell’onere della prova, afferma in maniera apodittica che “nel caso in esame, la documentazione allegata è irrilevante ai fini della prova relativa alla capacità contributiva rispondente a quanto dichiarato” e che “non è rilevante ai fini della prova contraria l’acquisizione del mutuo e del fido bancario anche perchè nessun documento è stato fornito rispetto all’assunto di proventi provenienti dai familiari”, non potendo le dichiarazioni contenute negli atti notarili essere poste in dubbio con dichiarazioni di segno contrario prive di riscontro.

Ciò assume, tuttavia, senza alcun concreto riferimento al materiale probatorio prodotto dal contribuente al fine di contrastare l’accertamento sintetico e senza illustrare le ragioni per cui abbia ritenuto “irrilevante” la documentazione allegata a prova contraria.

Tutto ciò comporta che il contenuto decisorio risulta inidoneo a individuare il percorso argomentativo seguito dalla Commissione regionale per la formazione del suo convincimento e, di conseguenza, non consente di effettuare un controllo sull’operato dei giudici (Cass. Sez. U, n. 16599 del 5/8/2016).

Ed infatti l’accertamento delle prove fornite e la loro valutazione devono essere sorretti, in sentenza, da una motivazione immune da vizi e, in particolare, da una motivazione sufficiente e, al fine di verificare la sufficienza della motivazione, è necessario accertare se, in relazione ad un determinato oggetto, la sentenza sia fornita, oltre che del contenuto di specie statico, cioè del giudizio come risultato dell’attività dell’acquisizione della conoscenza intorno all’oggetto, di un adeguato contenuto di specie dinamico, cioè della narrazione del passaggio del giudice dalla condizione iniziale di ignoranza alla condizione finale di conoscenza espressa nel giudizio.

In altri termini, il giudice tributario non può limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perchè questo è il solo contenuto “statico” della decisione, ma deve anche descrivere il processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione d’iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della decisione stessa (Cass. 23 gennaio 2006, n. 1236; Cass. n. 15964 del 29 luglio 2016; Cass. n. 32980 del 20 dicembre 2018).

I giudici regionali, partendo da considerazioni estremamente generiche, concludono, con un salto logico-giuridico assoluto, per l’infondatezza della tesi difensiva del contribuente omettendo di esplicitare qualsiasi riferimento ai riscontri offerti, che vengono in modo autosufficiente richiamati nel ricorso per cassazione.

Ne discende che, essendo la motivazione sufficiente solo se è munita sia di contenuto di specie dinamico sia di contenuto di specie statico, quella formulata dalla Commissione regionale nella sentenza in questa sede impugnata è sicuramente insufficiente, risultando pretermesso l’esame di diversi decisivi elementi di fatto, individuati in modo puntuale dal ricorrente in seno al mezzo di impugnazione, che avrebbero potuto condurre ad una diversa decisione, e precisamente 1) l’atto registrato il 27 giugno 2002 mod. 69 serie IV n. 1523, nel quale lo stesso contribuente figurava quale dante causa (venditore) e non quale avente causa (compratore), per cui il prezzo pagato per l’acquisto non poteva essere considerato indice di capacità contributiva b) l’acquisto degli immobili registrati il 31 maggio 2006 ed il 29 ottobre 2006 finanziato con mutuo ipotecario decennale concesso da Banca Intesa c) il pagamento nel 2001, ossia in un periodo di tempo che esula da quello oggetto di accertamento, di parte del prezzo dell’immobile compravenduto con l’atto notarile del 31 maggio 2006.

5. In conclusione, rigettato il primo motivo, va accolto il secondo motivo, assorbito il terzo, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, perchè proceda a nuovo esame e provveda alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e dichiara assorbito il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 gennaio 2020

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