Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.611 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19559/14 R.G. proposto da:

EDIL POMEZIA S.R.L., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv. Umberto Cassano, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Edoardo D’Onofrio, n. 43;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 460/4/14 depositata in data 29 gennaio 2014 udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

RILEVATO

che:

La società Edil Pomezia s.r.l. propone ricorso per cassazione, con due motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso della contribuente avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate, a seguito di applicazione degli studi di settore, aveva recuperato a tassazione maggiori imposte, dovute per l’anno 2004, a titolo di IRES, IRAP e I.V.A..

In particolare, i giudici di appello hanno ritenuto che le difese svolte dalla società non risultano sufficienti a giustificare lo scostamento dei ricavi dichiarati da quelli calcolati dall’ufficio, atteso che a fronte di ricavi dichiarati per Euro 156.550,00, lo studio di settore ha evidenziato un ricavo di riferimento pari a Euro 1.755.819,00, e ha escluso che la incongruenza possa essere ricondotta alla crisi del settore edilizio o alla circostanza addotta dell’intervenuto sequestro conservativo operato su alcuni lotti di terreno di proprietà della società, protrattosi sino al 2004, posto che detto sequestro aveva riguardato solo uno dei cantieri e che tale circostanza perdeva consistenza se si considerava che, nell’anno precedente a quello oggetto di verifica (2003), la società aveva conseguito ricavi per Euro 3.026.124,00.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e con il secondo motivo deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per avere i giudici d’appello considerato legittimo l’operato dell’Ufficio, nonostante la giurisprudenza prevalente ritenesse che tale tipo di accertamento non avesse valore probante e dovesse essere accompagnato da ulteriori elementi oggettivi.

Sostiene che nell’accertamento effettuato attraverso gli studi di settore manca una vera e propria prova del ricavo e non si pone un vero problema di prova contraria a carico del contribuente, dovendo quest’ultimo fornire “i ragguagli necessari a far emergere la specificità della propria situazione”; in mancanza di presunzione legale, l’onere della prova rimane a totale carico dell’Ufficio, il quale deve motivare come siano stati elaborati gli indicatori di normalità economica ritenuti applicabili al caso concreto e dimostrare che tali indicatori, unitamente ad altri elementi di fatto addotti, siano idonei ad integrare gli estremi di una presunzione semplice.

Sottolinea, inoltre, la necessità che l’atto impositivo fondato sull’applicazione dello studio di settore sia adeguatamente motivato anche in merito alle ragioni che hanno portato l’Ufficio a disattendere le argomentazioni addotte dal contribuente in sede di contraddittorio ed a ritenere “effettivo” il maggior reddito determinato, nonchè in ordine ai criteri sulla base dei quali l’incongruenza è stata ritenuta grave.

Nel caso di specie, l’Ufficio aveva preso atto dello scostamento tra quanto dichiarato e quanto risultante dallo studio di settore senza chiarire i criteri adottati per addivenire al calcolo dei ricavi attribuiti, sebbene nell’anno oggetto di controllo il portafoglio clienti della società fosse alquanto esiguo e la sua attività si fosse sensibilmente ridotta.

2. La prima censura è inammissibile.

2.1. Questa Corte ha più volte affermato che quando nel ricorso per cassazione è denunciata violazione e falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotto sia con la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, sia attraverso specifiche argomentazioni intese a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurispudenza di legittimità; diversamente il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 16 gennaio 2007, n. 828; Cass., sez. 6-5, ord. n. 635 del 15 gennaio 2015).

2.2. Il ricorrente, oltre a non indicare le norme violate, che neppure sono evincibili dall’illustrazione del motivo, non specifica le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata in contrasto con le norme da applicare alla fattispecie e la mancanza di tali indicazioni non permette di individuare la questione da risolvere e l’errore di diritto cui è riferita la censura, per cui questa è inammissibile per assoluto difetto della necessaria specificità.

2.3. Peraltro, il convincimento espresso dal giudice di merito con la sentenza impugnata impone di escludere un’erronea applicazione di norme di diritto, poichè si pone in linea con l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte (Cass. Sez. U, n. 26635 del 18/12/2009), secondo cui la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione di parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sè considerati – che costituiscono meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce all’esito del contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione di mezzi, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L’esito del contraddittorio non condiziona l’impugnabilità

dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente, il quale non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo.

Nel caso in esame, essendo pacifico che il contraddittorio sia stato attivato, i giudici d’appello hanno ritenuto idonee le risultanze dello studio di settore a fondare l’accertamento, affermando che lo scostamento rilevato era particolarmente rilevante e che la circostanza addotta dalla contribuente per giustificare il minor reddito dichiarato – ossia l’intervenuto sequestro conservativo di alcuni lotti di sua proprietà – non fosse idonea a superare la ricostruzione dei ricavi operata dall’Amministrazione, incombendo sul contribuente l’onere non solo di allegare, ma anche di provare la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, in modo da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato (Cass. n. 3415 del 20/2/2015).

Dalle considerazioni che precedono discende che correttamente la C.T.R. ha ritenuto attendibile lo studio di settore, essendosi la contribuente limitata ad asserire che l’intervenuto sequestro conservativo di alcuni terreni giustificasse lo scostamento reddituale rilevato, senza fornire prove documentali o comunque elementi certi e idonei in grado di supportare tale affermazione.

3. Anche sotto il profilo del denunciato vizio di motivazione la censura è inammissibile, atteso che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. dalla L. n. 134 del 2012 – applicabile alla sentenza in esame – non trova più accesso al sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza ed incompletezza logica dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie; pertanto, qualora non si contesti la inesistenza del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso che sia stato oggetto di dicussione tra le parti ed appaia decisivo ai fini di una diversa decisione.

Il ricorrente non ha neppure dedotto, con il mezzo in esame, il fatto storico che si assume pretermesso dai giudici d’appello e, pertanto, la doglianza così come formulata non è inquadrabile nel paradigma dei novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 13.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 gennaio 2020

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