Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.612 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25145/15 R.G. proposto da:

F.S., rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. Claudio Lucisano, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Crescenzio, n. 91;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto n. 564/30/15 depositata in data 24 marzo 2015 udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di verifica a carico del panificio di cui era titolare F.S., procedeva ad accertare, in relazione all’anno d’imposta 2007, maggiori ricavi per Euro 121.584,69 a fronte di un reddito dichiarato di Euro 8.250,00 e ad emettere avviso di accertamento che veniva impugnato.

La Commissione provinciale di Treviso accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando il reddito in Euro 24.395,00, come da proposta dell’Amministrazione in sede di conciliazione.

Interposto appello principale dal contribuente ed appello incidentale dall’Agenzia delle Entrate, la Commissione regionale confermava la sentenza impugnata.

Disattendeva in primo luogo l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per mancanza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica e riteneva inammissibile l’appello incidentale perchè spedito oltre i termini previsti dalla legge; quanto alla misura del reddito imponibile, evidenziava che nella proposta di conciliazione l’Ufficio aveva indicato l’importo di Euro 24.395,00, per cui la determinazione del reddito non poteva essere diversa da quella effettuata in quella sede, sulla quale il contribuente aveva fatto affidamento.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione F.S., affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, deducendo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, commi 1 e 2, sostiene che la decisione impugnata non ha fatto corretta applicazione della disposizione normativa, essendo stato accertato in giudizio che le verifiche fiscali hanno avuto luogo in locali ad uso “promiscuo” con la sola autorizzazione del Capo Ufficio.

I locali dove era stato effettuato l’accesso e dove si erano svolte le verifiche, oltre ad avere una destinazione “promiscua” perchè adibiti a luogo di esercizio dell’impresa e ad abitazione, rientravano anche nella tipologia dei “locali diversi” in quanto di proprietà di terzi (ossia del padre del contribuente), per i quali il citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 2 richiedeva, oltre alla predetta autorizzazione, i “gravi indizi” di violazioni di norme tributarie.

Risultava, infatti, accertato che i funzionari per procedere con le verbalizzazioni avevano sostato in un locale adibito ad uso esclusivo dei genitori del ricorrente, ossia nella cucina dell’abitazione del padre, ed avevano dichiarato di avere visto due presunti lavoratori irregolari, ossia il padre del contribuente e la domestica, elemento questo che era stato utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per procedere all’accertamento induttivo.

La sentenza impugnata, secondo la prospettazione del ricorrente, si pone, quindi, in contrasto con l’interpretazione della norma affermata dalla Corte di Cassazione, che ha più volte ribadito che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica in tali casi costituisce condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle conseguenti acquisizioni; l’art. 52 citato non richiede inoltre, per la sua applicazione, che i locali ad uso promiscuo o ad uso esclusivo di abitazione, che comunichino con quelli dell’impresa, siano indicati come privati, nè rileva lo stato soggettivo, di buona o mala fede del soggetto verificatore.

Evidenzia, altresì, che in sede di primo accesso, avvenuto il 24 marzo 2011, sono stati raccolti elementi di prova e dichiarazioni, sia del titolare del panificio che di terzi soggetti, e che su tali elementi si fonda l’accertamento analitico induttivo del reddito d’impresa, come emerge dal processo verbale di constatazione redatto in data 19 aprile 2011.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Occorre premettere che questa Corte ha affermato che ai fini dell’accertamento in materia di I.V.A., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e, quindi, applicabile anche per gli accertamenti in materia di imposte dirette – prevede al comma 1 l’accesso degli impiegati dell’Amministrazione finanziaria presso i locali adibiti all’esercizio dell’attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo e, al comma 2, l’accesso presso i locali adibiti ad uso esclusivamente abitativo; nel primo caso è richiesta la sola autorizzazione del capo dell’Ufficio e del Procuratore della Repubblica e tali autorizzazioni si atteggiano come meri adempimenti procedimentali, strettamente legati alla necessità che l’accesso sia avallato da una autorità gerarchicamente e funzionalmente sovraordinata; nel secondo caso, invece, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica presuppone la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria e trova la sua giustificazione nell’inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14 Cost..

In tale ultima ipotesi, pertanto, l’effettiva sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria è soggetta alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda (Cass. n. 26829 del 18/12/2014).

Si è anche chiarito che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista dal citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 2, costituisce un provvedimento amministrativo, il quale si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo ed ha lo scopo di verificare che gli elementi offerti dagli accertatori siano idonei ad integrare gravi indizi (Cass. Sez. U, n. 16424 del 21/11/2002; Cass. ord. n. 23824 del 11/10/2017).

1.3. L’accertamento in fatto contenuto nella sentenza oggetto di impugnazione evidenzia che i verificatori, pur essendosi recati all’indirizzo presso il quale si svolgeva l’attività di impresa, “in buona fede” si sono introdotti in un “locale attiguo” che non era indicato come “privato” o a cui era precluso l’accesso per qualsiasi altra ragione.

Tanto lascia ritenere che il “locale attiguo” fosse collegato a quello destinato all’esercizio dell’attività commerciale e che fosse, in sostanza, adibito ad “uso promiscuo”.

Infatti, questa Corte ha spiegato che si ha destinazione ad uso promiscuo, agli effetti del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività d’impresa, ma ogni volta che l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (Cass. n. 16570 del 28/7/2011).

1.4. Alla luce di tali considerazioni deve ritenersi che nel caso di specie era, quindi, necessaria l’autorizzazione all’accesso da parte del Procuratore della Repubblica, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 1, anche se non era richiesta la presenza di gravi indizi di violazioni di norme tributarie, secondo quanto stabilito dal medesimo art. 52, comma 2, al fine di reperire, in locali diversi da quelli destinati all’attività d’impresa, libri, registri o comunque documenti.

Di conseguenza, l’autorizzazione all’accesso da parte dell’autorità giudiziaria, in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, rilevava quale condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni (Cass. n. 6908 del 25/3/2011), trovando applicazione anche in materia tributaria il principio d’inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita (Cass. n. 19689 del 1/10/2004).

1.5. Va, tuttavia, considerato che, secondo il principio affermato da questa Corte, l’inutilizzabilità delle prove acquisite a mezzo di un accesso domiciliare illegittimo riguarda solo le prove e/o le fonti di prova per le quali l’accesso medesimo abbia costituito una condizione necessaria, come è di regola per le cosiddette prove dirette (che la norma indica con il termine di “rilevazioni”), rappresentate dalle ispezioni attraverso le quali gli agenti acquisiscono conoscenza mediante percezione diretta dei fatti, principali e secondari, da provare, ovvero le perquisizioni o requisizioni ed in generale tutte le forme di apprensione materiale diretta di documenti o di altre cose che nel corso dell’accesso e della conseguente ispezione vengano rinvenute e autoritativamente acquisite.

L’inutilizzabilità non può, invece, riguardare quelle prove che trovano nell’accesso una mera occasione, come è di regola per le informazioni di terzi e soprattutto per le dichiarazioni del contribuente, le quali potrebbero essere raccolte allo stesso modo anche per strada o direttamente presso gli uffici dell’organo deputato all’indagine. In questo caso, infatti, le dichiarazioni sono collegate all’accesso da un nesso di mera occasionalità, per cui la eventuale illegittimità di esso non è comunque idonea ad escludere l’utilizzabilità delle stesse dichiarazioni (Cass. n. 25335 del 15 dicembre 2010; Cass. n. 5382 del 18 marzo 2016).

1.6. Secondo quanto prospettato in ricorso dallo stesso contribuente, in sede di primo accesso sono stati raccolti elementi di prova e dichiarazioni che sono andati poi a formare le risultanze del processo verbale di constatazione che è richiamato dall’avviso di accertamento impugnato; in particolare, il ricorrente, al fine di supportare la dedotta inutilizzabilità di tale elementi, ritrascrive in ricorso stralci del verbale di constatazione dai quali si dovrebbe evincere che gli elementi acquisiti in sede di accesso, in assenza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica, hanno influito in modo preponderante nella ricostruzione del reddito d’impresa operata dall’Amministrazione finanziaria.

1.7. La lettura degli stralci del processo verbale di constatazione redatto in data 19 aprile 2011 consente in realtà di rilevare che la verifica si fonda soprattutto sulle dichiarazioni rese in sede di accesso dallo stesso contribuente – il quale aveva spiegato in quella sede che la farina di tipo “0” veniva impiegata per il 90 per cento nella produzione di prodotti da panificio e per il 10 per cento nella produzione di prodotti da pasticceria, che il prezzo di vendita del pane era rimasto invariato, che lo sfrido della farina corrispondeva a circa il 2 – 3% – atteso che sulla base di tali informazioni i verificatori hanno determinato l’ammontare di farina impiegata per la panificazione.

Tali dichiarazioni, per le ragioni già sopra evidenziate, essendo legate all’accesso da un rapporto di mera occasionalità, sono comunque utilizzabili ai fini dell’accertamento, anche in assenza della autorizzazione del Procuratore della Repubblica.

Non risulta, invece, nè dalla sentenza impugnata, nè sulla base di quanto dedotto in ricorso, che l’assenza di coincidenza tra i beni strumentali presenti e quelli indicati nel registro dei beni ammortizzabili e la rilevazione del personale presente costituiscano elementi che abbiano avuto una incidenza determinante ai fini della ricostruzione del maggior reddito d’impresa accertato.

Ne consegue che il motivo di ricorso non può essere accolto, non potendosi affermare che l’avviso di accertamento sia fondato su elementi illegittimamente acquisiti.

2. Con il secondo motivo di ricorso il contribuente censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Sostiene che l’Agenzia delle Entrate ha proceduto ad una ricostruzione analitico-induttiva del reddito d’impresa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 41-bis senza avere previamente rinvenuto elementi di fatto che potessero far ritenere che la contabilità, seppure formalmente regolare, fosse del tutto inattendibile; lamenta, inoltre, che la Commissione regionale non ha preso in esame i punti decisivi illustrati nell’atto di appello (quali la assenza di lavoratori irregolari, l’attendibilità delle distinte di rimanenze iniziali e finali, la regolare tenuta del registro dei corrispettivi, l’assenza di antieconomicità del comportamento del contribuente) e non ha tenuto conto che il ragionamento presuntivo che ha condotto l’Ufficio a ritenere inattendibili le scritture contabili è inficiato da errori logici e di diritto, di cui nella decisione impugnata non si fa menzione.

2.1. Il secondo motivo è fondato.

2.2. La Commissione regionale, in merito al reddito imponibile, ha genericamente confermato quanto indicato nella sentenza appellata, ribadendo che il maggior reddito accertato corrisponde a quello determinato dall’Amministrazione in sede di conciliazione, con la precisazione che eventuali errori nella determinazione del quantum, essendo imputabili esclusivamente all’Ufficio, non possono ripercuotersi sfavorevolmente a carico del contribuente.

Il percorso argomentativo seguito dai giudici di appello risulta del tutto deficitario sul merito della pretesa, poichè non esamina le numerose e specifiche contestazioni mosse dal ricorrente nel giudizio di appello – ritrascritte nel ricorso per cassazione in ossequio al principio di autosufficienza – tutte volte a negare valore presuntivo agli elementi presi in considerazione dall’Agenzia delle entrate e posti a giustificazione della ricostruzione del maggior reddito rilevato.

Infatti, i giudici di appello hanno recepito acriticamente le conclusioni cui l’Ufficio era pervenuto con la proposta di conciliazione, ma hanno del tutto pretermesso di valutare gli elementi di fatto decisivi e rilevanti, posti in evidenza dal contribuente, e di illustrare le ragioni per le quali hanno aderito alla tesi dell’Ufficio e disatteso le puntuali censure sollevate dal ricorrente per dimostrare che gli elementi indiziari su cui poggiava l’accertamento erano inattendibili ed inficiati da errori.

La motivazione della decisione impugnata incorre, dunque, nel denunciato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

3. In conclusione, va rigettato il primo motivo di ricorso ed accolto il secondo motivo, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, perchè proceda a nuovo esame, oltre che alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio il 22 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 gennaio 2020

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