Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.627 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIACALONE Giovanni – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul procedimento n. 13593/18 proposto da:

O.N., el. dom.to in Foggia, Via da Zara n. 3, presso lo studio dell’avv. Vittorio Sannoner che lo rappresenta e difende per procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, (cf *****), domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso il decreto n. 2368/18 del Tribunale di Bari, depositato il 15.3.18;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2019 dal consigliere Dott. Giacomo Maria Stalla.

OSSERVA p. 1. O.N., n. a *****, (ammesso al patrocinio a spese dello Stato), propone tre motivi di ricorso per la cassazione del decreto n. 2638 del 15.3.18, con il quale il Tribunale di Bari – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea – ha respinto, nella costituzione del Ministero dell’Interno, il ricorso da lui proposto avverso la decisione della competente Commissione Territoriale di rigetto della sua istanza di protezione internazionale: status di rifugiato o, in subordine, protezione sussidiaria o permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il Tribunale, previa ricostruzione dei tratti salienti della disciplina giuridica della protezione internazionale nelle sue varie articolazioni, ha in particolare rilevato che:

infondata era la domanda principale di riconoscimento dello status di rifugiato (art. 10 Cost.; L. n. 722 del 1954 di ratifica della Conv.Ginevra 28.7.51; Dir.CE 2004/83; D.Lgs. n. 251 del 2007), dal momento che i fatti narrati dal richiedente (ancorchè probatoriamente valutati secondo i criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 1 e 2 cit.) non riguardavano persecuzioni per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale, sicchè non potevano integrare gli estremi di cui all’art. 1 Conv. cit. ed al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e);

– neppure sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett.c)), dal momento che: a) il richiedente aveva dichiarato, avanti alla Commissione, di essere fuggito dal proprio paese d’origine (*****) nel febbraio 2016 per timore di essere ucciso dallo zio paterno che, aderente all’associazione segreta cultista degli *****, aveva strangolato il padre intendendo prendere il suo posto sul trono della comunità di villaggio. Questo racconto doveva ritenersi impreciso, generico ed inverosimile in quanto: – sul piano della credibilità intrinseca, non erano stati forniti adeguati elementi nè chiare ragioni circa la sua effettiva destinazione al ‘tronò della comunità di villaggio ed il suo necessario subentro, ancorchè non consenziente, nella linea di successione paterna; neppure era chiaro da quale persona o gruppo il richiedente fosse stato minacciato e come il richiedente potesse aver appreso dalla sorella minore di essere ancora ricercato dallo zio paterno, pur dopo aver dichiarato di non essere in contatto con i suoi familiari; – sul piano della credibilità estrinseca, fonti COI citate descrivevano l’attività della setta degli ***** e le modalità volontarie dell’adesione ad essa, in contrasto con l’impossibilità, sostenuta dall’istante, di opporre un rifiuto spontaneo all’affiliazione; b) da primarie fonti informative (*****, Amnesty International 2016-2017, EASO giugno 2017) risultava che la regione di provenienza del richiedente (Edo State, Sud Nigeria) non presentasse un livello generalizzato di insicurezza e di violenza indiscriminata tale da costituire una minaccia concreta, a differenza delle diverse condizioni segnalate, anche quanto a rischio terroristico e *****, nel nord-est del paese; analogamente doveva affermarsi con riguardo ad attività violente riconducibili a rituali magici e di culto, non particolarmente evidenti nella regione di riferimento;

quanto alla protezione mediante permesso di soggiorno per ragioni umanitarie (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 30, e D.Lgs. n. 286 del 1998, 5, comma 6), il richiedente non aveva offerto allegazioni tali da differenziare la sua posizione da quella degli altri concittadini quanto a pregiudizio che egli avrebbe subito in caso di rientro nel paese d’origine; nè era stata offerta alcuna prova, suscettibile di valutazione comparativa, circa la sua integrazione sociale e lavorativa in Italia, tali non essendo nè la mera partecipazione ad un corso di lingua italiana nè lo svolgimento di attività lavorativa a tempo determinato (*****).

Nessuna attività difensiva è stata posta in essere in questa sede dal Ministero degli Interni.

p. 2.1 Con i tre motivi di ricorso si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), rispettivamente violazione e falsa applicazione:

del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per non avere il tribunale valutato le allegazioni del richiedente secondo i parametri prescritti da questa disposizione quanto a, in particolare, tempestività della domanda di protezione internazionale; massimo sforzo fornito dal richiedente nel circostanziare i fatti narrati; diversità di bagaglio culturale;

del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 e art. 14, lett. c) per non avere il tribunale adeguatamente soppesato la grave situazione di violenza generalizzata e non controllata ancora esistente in tutta la Nigeria, dunque anche nella zona di provenienza dell’istante, così come risultante dalle stesse informative menzionate dal tribunale ma da quest’ultimo contraddittoriamente utilizzate;

del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 6, per non avere il tribunale residualmente ravvisato quantomeno una situazione di vulnerabilità soggettiva, considerando il rischio specifico gravante sul richiedente in relazione alle minacce di morte subite per non voler aderire ad una setta segreta, così come evincibile dalle dichiarazioni rese davanti alla commissione territoriale (verbale allegato al ricorso).

p. 2.2 I motivi sono infondati.

Per quanto concerne la prima doglianza, il tribunale si è fatto carico dei criteri D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, cit., argomentando il proprio convincimento di inattendibilità intrinseca ed estrinseca (su riportato) attraverso un articolato ragionamento critico, volto ad evidenziare gli specifici punti di radicale inverosimiglianza e contraddittorietà del racconto; tale ragionamento ha tenuto conto dei parametri normativi di valutazione della prova tipici del presente procedimento. Nè risulta violato l’obbligo di cooperazione istruttoria, in quanto non operante in caso – appunto – di ritenuta radicale inattendibilità e lacunosità di allegazione (Cass. nn. 16925/18; 11267/19; 4892/19 ed innumerevoli altre).

Piuttosto, si è trattato di una tipica valutazione di merito della situazione rappresentata dal richiedente e della sua incongruità logica, il cui esito – compiutamente motivato – non è rivedibile nella presente sede di legittimità (Cass. nn. 3340/19; 32064/18; 30105/18 ed innumerevoli altre); neppure, d’altra parte, essa è stata censurata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Per quanto concerne la seconda doglianza sulla protezione sussidiaria, il ricorrente non ha tenuto in debito conto il fatto che, al contrario di quanto esposto, il giudizio del tribunale è stato reso in base a fonti informative specificamente indicate, concernenti la zona di provenienza del richiedente (Edo State); nè si ravvisa, nel ragionamento del tribunale, contraddittorietà, quanto piuttosto distinzione di situazioni tra le singole regioni interne alla Nigeria. Il che ha indotto il tribunale ad escludere, anche qui all’esito di una delibazione fattuale, che fosse ravvisabile un reale pericolo per la sola presenza del richiedente sul territorio di origine.

Si recepisce, in proposito, il costante orientamento di legittimità di cui (tra le innumerevoli) in Cass. 9090/19; 11103/19, con richiamo a CGUE 30 gennaio 2014, C-285/12; 18 dicembre 2014, C-542/13.

Per quanto concerne la terza doglianza, il fattore di rischio specifico e di vulnerabilità soggettiva viene qui individuato – ai fini della protezione umanitaria – nella stessa circostanza ritenuta inattendibile dal giudice di merito. Ciò anche nella considerazione della mancata allegazione di rilevanti elementi di inserimento in Italia, nè di fattori suscettibili di valutazione comparativa.

Rileva, sul punto, la recente conferma di legittimità di cui in Cass. SSUU nn. 29459-60-61/2019 (sul punto specifico): “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

Nel caso di specie, il giudice di merito ha applicato questo criterio comparativo, infine addivenendo al convincimento di inidoneità dei soli elementi rassegnati, costituiti dall’attività lavorativa a tempo determinato e dalla iscrizione ad un corso di lingua italiana, a fungere da effettivo riscontro di inserimento ed integrazione in Italia.

Ne segue il rigetto del ricorso; nulla si provvede sulle spese, stante la mancata partecipazione al giudizio del Ministero.

Con riguardo all’istanza depositata dal difensore del ricorrente nella quale, allegandosi il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, è stata chiesta la liquidazione delle spese e degli onorari per l’attività difensiva svolta nel presente giudizio (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, artt. 74 segg.), si richiama l’indirizzo di cui in Cass. 22550/16, con ulteriori richiami (competenza del giudice del merito).

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso;

v.to il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;

dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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