Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.7073 del 12/03/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M. G. – Consigliere –

Dott. NOVIK A. Ton – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7035-2018 proposto da:

FIMINOX SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 24, presso lo studio dell’avvocato TERRANOVA ANTONELLA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BRUNO FILIPPO ALESSANDRO giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI UFFICIO DI GENOVA in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI;

– intimata –

sul ricorso 7037-2018 proposto da:

CAD CAPODICI SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 24, presso lo studio dell’avvocato TERRANOVA ANTONELLA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BRUNO FILIPPO ALESSANDRO giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI UFFICIO DI GENOVA in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI;

– intimata –

avverso le sentenze n. 1153/2017 e n. 1154/2017 della COMM.TRIB.REG.

di GENOVA, depositate il 27/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/10/2019 dal Consigliere Dott. NOVIK ADET TONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE AUGUSTINIS UMBERTO che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine per il rigetto dei ricorsi;

udito per il ricorrente l’Avvocato ORSI per delega degli Avvocati TERRANOVA e BRUNO che si riporta agli scritti; udito per il controricorrente l’Avvocato COLLABOLLETTA che si riporta agli scritti.

1. La Commissione tributaria provinciale di Genova (CTP), con sentenze n. 2228/13 e n. 2233/14, ha accolto i ricorsi del rappresentante indiretto, Centro Assistenza Doganale Capodici S.r.l., (di seguito, CAD) e della importatrice, Società Fiminox s.p.a. (di seguito, Fiminox o la contribuente), avverso l’avviso di rettifica dell’accertamento n. 11500 Dogane Dazi 2011 con cui l’agenzia delle dogane, sul presupposto che esse provenissero da Taiwan e non dalle Filippine, aveva applicato sulle merci – elementi di fissaggio (viti) importate nelle date 25 marzo 2011 e 2 marzo 2011 (dichiarazioni doganali IM 4T nn. 1154/E e 8220/R) il dazio per paesi terzi del 3,7%, oltre al dazio antidumping del 23,6% previsto dal Regolamento del Consiglio 14 novembre 2005.

2. La CTP, pur riconoscendo che le merci erano di origine Taiwanese, riteneva che l’agenzia non avesse provato che i prodotti importati non avevano subito nelle Filippine una trasformazione sostanziale, tale da ritenersi originari di quel paese.

3. La Commissione tributaria regionale della Liguria (CTR), con sentenze n. 1153 e 1154/17, ha accolto i ricorsi dell’amministrazione ed ha respinto quelli incidentali del CAD e della Fiminox.

4. Quanto all’appello principale, la CTR, in base alle evidenze documentali acquisite: – riteneva accertato, in conformità con le conclusioni alle quali era giunto il primo giudice, che era certa l’origine taiwanese dei prodotti importati; – in mancanza di “salto” di voce doganale, espressa dalle prime 4 cifre del codice di identificazione del prodotto, escludeva, in base alle indagini Olaf, che la detta merce avesse subito nelle Filippine una trasformazione sostanziale; – in proposito, osservava, non essere rilevante che la documentazione di accompagnamento evidenziasse l’importazione nelle Filippine di materiali semilavorati e l’esportazione di materiali finiti, mancando la prova del cambio di voce doganale.

Quanto all’appello incidentale, osservava che: – le formalità partecipative erano state rispettate: la mancata confutazione delle osservazioni della contribuente non inficiava l’atto impositivo, nè la parte aveva dimostrato che, ove il contraddittorio fosse stato correttamente instaurato, l’esito della vicenda sarebbe stato diverso; non era rilevante l’asserita disparità di trattamento in relazione ad una precedente importazione; – era anche irrilevante la mancata allegazione della relazione finale Olaf, sia perchè essa era intervenuta successivamente, sia perchè tutti gli elementi o erano noti alla parte o erano ripetitivi di dati già conosciuti; – escludeva dovesse essere attivata la procedura di cooperazione amministrativa, in quanto i documenti FORM A erano stati revocati; – non vi era stata applicazione retroattiva del regolamento CE ed il dazio era stato correttamente applicato; – escludeva, anche ai fini del richiesto sgravio, la buona fede della contribuente; – riteneva la sussistenza di una “vera e propria evasione” e non di una attività elusiva.

5. Le sentenze sono state impugnata dalla società CAD sulla base di undici motivi (i motivi sub 1 e 2, sono stati duplicati nella numerazione) e dalla contribuente sulla base di dieci motivi. L’Agenzia delle dogane resiste con controricorso.

1. In via preliminare va disposta la riunione per connessione del ricorso RG n. 7037-2018, presentato da Cad – Capodici srl, a quello avente RG n. 7035-2018, presentato da Fiminox srl, avendo entrambi ad oggetto il medesimo atto impositivo.

2. Con il primo motivo, formulato dal solo CAD, si eccepisce la violazione e/o applicazione dell’art. 201 C.d.C. e L. n. 213 del 2000, art. 2, commi 6 e 7, per aver la CTR confermato la responsabilità solidale dello spedizioniere esclusivamente sulla rappresentanza indiretta utilizzata al fine di godere della procedura di domiciliazione. Si sostiene che si sarebbe dovuto applicare l’art. 202 C.d.C. che riconosce la responsabilità dello spedizioniere soltanto quando questi possa avvedersi, usando la diligenza professionale sua propria, della non veridicità dei dati riportati nella bolletta doganale. Nel caso in esame, si afferma, la documentazione predisposta indicava che la merce doveva godere dell’esenzione daziaria. A sostegno del motivo la parte richiama la sentenza di questa Corte n. 14678/2005 e la nota della Direzione centrale delle dogane, 12 febbraio 2010, prot. 21138.

La censura è infondata. La giurisprudenza (v. Cass. n. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17496 del 28/06/2019, Rv. 654694 – 01; n. 23669 del 01/10/2018), che questo Collegio condivide, è ferma nel ritenere che, dal combinato disposto degli artt. 201 C.d.C., p. 3, e art. 4 C.d.C., punto 18, si evince che l’obbligazione doganale sorge in capo a chi fa la dichiarazione a nome proprio ovvero alla persona in nome della quale la dichiarazione è fatta. In aderenza alla specifica finalità della norma doganale, tesa a salvaguardare l’interesse pubblicistico all’adempimento dell’obbligazione daziaria, l’art. 201 cit. precisa, infatti, che, quando una dichiarazione è resa in base a dati che determinano la mancata riscossione totale o parziale dei dazi dovuti per legge, le persone che hanno fornito i dati necessari alla stesura della dichiarazione e che erano, o avrebbero dovuto essere a conoscenza della erroneità, possono essere parimenti considerati debitori, conformemente alle vigenti disposizioni doganali; e, in linea con la regolamentazione comunitaria, il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38 (T.U.L.D.), vincola all’obbligazione doganale, generalizzatamente, tutti coloro comunque ingeritisi nell’operazione.

Conseguentemente, in caso di rappresentanza diretta, la responsabilità grava, in via di principio, sul solo importatore, mentre in caso di rappresentanza indiretta è specificamente prevista la responsabilità sia dello spedizioniere che dell’importatore (cfr. anche Cass. n. 9773 del 23/04/2010; Cass. n. 7720 del 27/03/2013; Cass. n. 9270 del 17/04/2013). Nel caso di specie, è pacifico tra le parti che il CAD sia rappresentante indiretto di Fiminox, sicchè in tale veste risponde in solido con quest’ultimo dell’obbligazione doganale per il semplice fatto di avere presentato la dichiarazione anche con procedura di domiciliazione, dichiarazione impegnativa con riferimento all’esattezza delle indicazioni figuranti nella dichiarazione, all’autenticità dei documenti presentati e all’osservanza di tutti gli obblighi inerenti al vincolo delle merci importate al regime considerato (cfr. art. 199 del regolamento (CEE) n. 2454 del 1993). Ne consegue che le conclusioni cui è giunta la CTR sono del tutto corrette, non potendo nemmeno ritenersi che la responsabilità dello spedizioniere rappresentante indiretto integri una forma di responsabilità oggettiva, ben potendo quest’ultimo provare la propria buona fede alle condizioni previste dall’art. 220 C.d.C., p. 2, lett. b, (sulla questione si veda anche Cass. n. 7720 del 27/03/2013).

Inconferente è il richiamo alla circolare prot. 21138 (non prodotta), in quanto il riferimento dell’organo amministrativo è incentrato sulla responsabilità penale del rappresentante diretto.

3. Con il secondo motivo (primo della Fiminox), si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 59,60 e ss., Reg. UE 952/2013 CDU (ex artt. 22,23,24,25 e ss. reg. UE 2913/1992C.d.C.), per non aver la CTR valutato che non era stata raggiunta alcuna prova circa il luogo di produzione dei beni. Si sostiene che, essendo l’unico indizio costituito dalle indicazioni di origine che compaiono sui documenti di importazione nelle Filippine e sui documenti di trasporto da Taiwan alle Filippine provenienti dalla società filippina Cano, mera rivenditrice dei prodotti, la circostanza che i detti documenti fossero risultati falsati dall’esportatore, al fine di ottenere l’origine preferenziale, non consente che essi possano essere ritenuti veritieri nella sola indicazione dell’origine. Peraltro, si afferma, la provenienza della merce da Taiwan, circostanza parzialmente provata dalle polizze di carico, non consentiva l’inferenza che l’origine doganale fosse la medesima, atteso che nel certificato di origine prodotto all’importazione nella Comunità era apposta la sigla “W” indicante che la merce era stata lavorata nelle Filippine, e non ivi interamente prodotta.

4. Con il terzo motivo (secondo della contribuente) si eccepisce la violazione o falsa applicazione del Regolamento CE n. 1890/2005 del 14 novembre 2005 – errata applicazione dell’antidumping. Si sostiene che, ai fini dell’applicazione del dazio antidumping, era necessario rintracciare il luogo di produzione dei beni che entrano in dumping nella Comunità, essendo il dazio parametrato alla differenza tra il valore della merce nel mercato di origine ed il corrispondente prezzo praticato nella Comunità. Non era quindi sufficiente la provenienza geografica e materiale dei beni importati, ma occorreva la prova della provenienza degli stessi da Taiwan. La decadenza del certificato di origine ad opera delle autorità Filippine, non essendo nota l’origine doganale della merce, determinava soltanto l’applicazione del dazio Paese terzo.

I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. Pur denunziando nella specie violazione e falsa applicazione di norme di diritto (con un implicito riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), i ricorrenti, lungi dall’indicare i ravvisati profili di erronea interpretazione di norme da parte della corte di merito (per non aver il giudice a quo applicato una determinata disposizione in relazione all’operata rappresentazione del fatto corrispondente alla previsione della norma, ovvero per averla applicata sul presupposto dell’accertamento di un fatto diverso da quello contemplato dalla fattispecie), si limitano invero a sostanzialmente dolersi dello sfavorevole esito della lite contrario alle proprie aspettative, per essere state le risultanze di causa valutate in modo difforme dal proprio.

La CTR, nella specie, ha ritenuto (pag. 3) accertata l’origine, in relazione al Regolamento CEE n. 2913/1992, sulla base della valutazione di plurimi elementi desunti dai documenti doganali prodotti in giudizio dall’ufficio, dai quali si desumeva, appunto, che Taiwan era il paese di origine e di produzione della merce. Di guisa che, in luogo di un problema interpretativo, consistente nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle citate norme di legge, con i motivi in esame si allegano un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (ex plurimis: Cass. sez. 1, 13/10/2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. sez. 4, 11/01/2016, n. 195, Rv. 638425-01; Cass. sez. 5, 30/12/2015, n. 26110, Rv. 638171-01). I motivi, in definitiva, pongono in dubbio la lettura delle risultanze di causa fatta propria dal giudice di merito, in assenza di qualsivoglia censura dei criteri ermeneutici asseritamente violati o di specifica indicazione di un preciso error in iudicando.

5. Con il quarto motivo (terzo della contribuente), si eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’allegato 15 d.a.c. e dell’art. 220 C.d.C. In sintesi, si censura l’affermazione del giudice di secondo grado, secondo cui la circostanza che non erano variati i primi quattro codici della voce doganale di uscita, escluderebbe che nelle Filippine fosse stata svolta una lavorazione idonea a conferire l’origine preferenziale; l’eventuale errore era riconducibile alle autorità che avevano applicato la normativa doganale. Quindi, il giudice, in applicazione dell’art. 220 C.d.C., comma 3, valutando che l’errore fondamentale era stato commesso dalla pubblica autorità avrebbe dovuto esentare l’importatore da ogni addebito. In questo senso, la CTR avrebbe ignorato che le autorità doganali avrebbero dovuto riconoscere l’irregolarità dei certificati.

La censura non è autosufficiente nella parte in cui rinvia a memorie e documenti prodotti nei precedenti gradi di giudizio ed è comunque infondata in ogni sua deduzione. La CTR ha esattamente interpretato l’art. 15 DAC laddove, in base alle indagini OLAF, ha accertato che le merci importate non avevano subito in Taiwan una trasformazione sostanziale, rilevante ai sensi dell’art. 69 DAC, in mancanza del salto doganale (classificazione in una voce diversa da quella del prodotto): circostanza questa ammessa dagli stessi ricorrenti (pag. 15 del ricorso CAD e 10 del ricorso Fiminox).

Il profilo della buona fede dei ricorrenti è stato esaminato ed escluso con motivazione logica dalla CTR (pag. 8), che ha evidenziato come la società esportatrice era stata oggetto di misure antidumping fin dal 2005 e che la circostanza che essa avesse aperto una startup nelle Filippine doveva indurre a maggior diligenza l’operatore del settore. Va ribadito che “Nel caso in cui l’autorità doganale abbia allegato e dimostrato l’irregolarità delle certificazioni presentate, procedendo al recupero “a posteriori” dell’imposta, spetta al dichiarante dimostrare l’esistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dall’art. 220 C.d.C. (Regolamento CEE del 12 ottobre 1992, n. 2913), ossia che i dazi non siano stati riscossi per un errore delle autorità competenti, che tale errore sia tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede e che il dichiarante abbia rispettato tutte le prescrizioni normative riguardanti la sua dichiarazione in dogana. (Sez. 5 -, Sentenza n. 5560 del 26/02/2019, Rv. 652961 – 02). L’art. 220 C.d.C., p. 2, comma 1, lett. b, esenta da responsabilità l’importatore in buona fede in casi tassativi circoscritti. Questa Corte ha chiarito che essa “per essere applicata, richiede un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede, che va dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova di tutti i presupposti necessari perchè resti impedito il recupero daziario: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente” (Cass. n. 7702/2013). Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913 del 1992 (cosiddetto Codice doganale comunitario) ai fini dell’esenzione della contabilizzazione a posteriori, non ha valenza esimente in re ipsa, ma solo in quanto sia riconducibile ad una delle situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato l’errore incolpevole, purchè però esso sia imputabile a comportamento “attivo” delle autorità doganali nel rilasciare le certificazioni all’esito dei controlli sulle dichiarazioni di provenienza degli esportatori” (Cass. n. 7837/2010), non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dello stesso operatore o di altri soggetti (Corte di Giustizia, 27 giugno 1991, Mecanarte, C348/89, punti 23, 24; Corte di Giustizia 18 ottobre 2007, Agrover, cit., punto 31; Corte di Giustizia 10 dicembre 2015, Veloserviss, C427/14 punti 43, 44).

Vale sul punto ribadire che, a fronte dell’accertata falsità dei certificati di origine della merce, l’Unione Europea non può essere tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell’attività commerciale, e contro i quali gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (CGUE 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos; Cass. n. 19195 del 06/09/2006; Cass. n. 14509 del 30/05/2008; Cass. n. 1583 del 03/02/2012; Cass. n. 15758 del 19/09/2012). In particolare, è irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo al CAD, in considerazione dell’obbligo che grava su quest’ultimo di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi” (Cass. n. 24675 del 23/11/2011).

5. Con il quinto motivo (quarto della contribuente), si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, per aver l’agenzia omesso di far conoscere al contribuente le ragioni delle proprie osservazioni circa il non accoglimento della richiesta di sgravio, precludendo alla società di argomentare ulteriormente circa la sussistenza dei presupposti per dare ad essa corso. Si argomenta che già con le osservazioni difensive depositate nella fase pre-contenziosa la contribuente aveva dimostrato la propria buona fede, in quanto i documenti allegati al PVC provavano la consapevolezza delle autorità estere circa l’assenza di variazione dei codici in entrata ed in uscita. L’omissione dei controlli aveva fatto sorgere il legittimo affidamento della contribuente sulla correttezza delle operazioni svolte.

Il mezzo è infondato. Come accertato dalla CTR, e come si legge nei ricorsi, i contribuenti hanno partecipato alla procedura, depositando proprie osservazioni e ricevendo quelle della controparte (pag. 3), si da confermare il rispetto non solo formale ma anche sostanziale del contraddittorio. Nessuna norma impone la “replica alle osservazioni”, con la conseguenza che, “le ragioni del non accoglimento delle proprie osservazioni”, trovano la loro più ampia giustificazione nell’atto impositivo che “deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato”. E, peraltro, deve richiamarsi l’orientamento, costantemente ribadito da questa Corte, e fatto proprio dalla CTR, fondato sulla nota pronuncia a Sezioni unite (Cass., 9 dicembre 2015, n. 24823), secondo cui, in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto.

Nel caso in esame, non sono state esposte le ragioni che si sarebbero fatte valere qualora il contraddittorio si fosse dovuto estendere anche alle repliche.

6. Con il sesto motivo (quinto della contribuente), si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ribadendo la medesima censura in precedenza esposta sub. 4 sotto il profilo della mancata applicazione degli artt. 220 e 239 C.d.C..

Il motivo è infondato per le ragioni evidenziate in relazione alla censura sub. 4. La CTR ha escluso la ricorrenza dell’esimente dello stato di buona fede dell’importatore in assenza di un errore delle autorità doganali filippine “atteso che i(I) form A sarebbero stati emessi sulla base di false dichiarazioni”.

7. Con il settimo motivo (sesto della contribuente), si eccepisce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 5-bis, in relazione alla mancata allegazione all’atto impositivo del report Olaf e dell’Inf AM 7/2012, in base ai quali era stata riconosciuta l’origine taiwanese delle merci. Si afferma che nell’avviso di rettifica erano stati riportati i processi verbali, le osservazioni della parte e le fatture di vendita dei beni, ma non la citata informativa contenenti i documenti doganali commerciali relativi al viaggio della merce da Taiwan alle Filippine. In conseguenza, veniva meno il supporto probatorio alla base della ripresa fiscale.

La censura è infondata. La CTR ha rilevato che al momento dell’emissione dell’accertamento la relazione conclusiva non era disponibile e che i verbali di revisione dell’accertamento davano una informazione ampia del contenuto dell’informativa Olaf e che il contenuto sostanziale dell’atto era stato riprodotto. Di tal che nessuna lesione al diritto di difesa dei ricorrenti si è verificata. Questa Corte ha affermato che “la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza della denunciata violazione. Sicchè una violazione che non abbia alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, e che sia diretta quindi all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico, non può costituire oggetto di motivo di ricorso”. (Cass. 5837/1997; 13373/2008; 6330/2014; 26831/14; 11354/16).

8. Con l’ottavo motivo (settimo della contribuente), si censura la falsa applicazione dell’art. 94 Reg. Ce 2454/1995 (recte, 1993), in relazione alla mancata attivazione della cooperazione amministrativa, intesa a verificare sia l’autenticità dei certificati di origine, non ancora ritirati al momento della notifica dell’atto impositivo, sia le ragioni che avevano motivato il ritiro.

Anche questa censura è infondata. L’art. 94 cit. prevede che:

“comma 1. Il controllo a posteriori dei certificati di origine, modulo A, e delle dichiarazioni su fattura viene effettuato per sondaggio ovvero ogniqualvolta le autorità doganali della Comunità nutrano dubbi fondati circa l’autenticità del documento o l’esattezza delle informazioni circa l’origine effettiva dei prodotti in questione.

Comma 6. Qualora dalla procedura di controllo o da qualsiasi altra informazione disponibile emergano indizi di violazioni delle disposizioni della presente sezione, il paese beneficiario d’esportazione effettua, d’ufficio o su richiesta della Comunità, le inchieste necessarie o dispone affinchè tali inchieste siano effettuate con la dovuta sollecitudine allo scopo di individuare e prevenire siffatte violazioni. A tale scopo, la Comunità può partecipare a dette inchieste”.

Come correttamente affermato dalla CTR, nel caso in esame non vi erano “dubbi fondati circa l’autenticità del documento” di importazione, per attivare la cooperazione amministrativa, in quanto i Form A erano stati revocati per falsità e le indagini Olaf avevano accertato che la merce importata era di origine taiwanese.

8. Con il nono motivo (ottavo della contribuente), si deduce falsa applicazione della normativa antidumping reg. CE 1225/2009, e specificamente del reg. UE n. 1890/2005. Si sostiene, sotto un primo profilo, che non essendo stata provata l’origine Taiwan dei prodotti, ma solo la provenienza, vi è stata una erronea applicazione retroattiva del regolamento CE 2/2012 che consente di applicare l’antidumping sul prezzo di importazione dalle Filippine, anche laddove non vi sia certezza dell’origine della merce. Si sostiene, inoltre, che è stato frainteso lo scopo essenziale della normativa antidumping, tesa a riequilibrare in maniera oggettiva alcuni prezzi particolarmente bassi nel mercato di origine, per adeguarli a quella della comunità Europea. Inoltre, “l’aver l’Ufficio rintracciato una precedente vendita delle merci semilavorate da Techison a Cano avrebbe dovuto comportare l’applicazione del dazio antidumping sul prezzo ivi evidenziato, perchè il prezzo esposto sulla fattura Cano/Finimox, comprendendo il trasporto Taiwan/Filippine, i costi di sbarcolimbarco merce nelle Filippine, il ricarico di Cano non può assolutamente dirsi in dumping, essendo del tutto estranea ai parametri valutati dalla commissione Europea nel reg. 1890/2005 dove si è analizzato il prezzo applicato dai produttori taiwanesi all’esportazione diretta verso la comunità”. Vi sarebbe stata quindi una erronea ed esorbitante applicazione del reg. CE 1890/2005 ovvero una simulata applicazione retroattiva del reg. Ce 2/2012.

Le censura è infondata. Come si evince dall’estratto del verbale di revisione, riportato nel controricorso, il recupero daziario è stato effettuato a norma del reg. Ce 1890/2005 che ha “istituito un dazio antidumping definitivo sulle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti, classificati ai codici NC 7318 12 10, 7318 14 10, 7318 15 30, 7318 15 51, 7318 15 61 e 7318 15 70 e originari della Repubblica popolare cinese, dell’Indonesia, di Taiwan, della Thailandia e del Vietnam” e disposto in via definitiva la riscossione degli importi depositati a titolo di dazi antidumping provvisori. I dazi in esame, a norma dell’art. 11, comma 2, del regolamento di base n. 1225 del 2009 “scadono dopo cinque anni dalla data in cui sono state istituite oppure dopo cinque anni dalla data della conclusione dell’ultimo riesame relativo al dumping e al pregiudizio, salvo che nel corso di un riesame non sia stabilito che la scadenza di dette misure implica il rischio del persistere o della reiterazione del dumping e del pregiudizio”. Il reg. di esecuzione UE del 4 gennaio 2012, riscontrato il persistere del pregiudizio, in applicazione dell’art. 11, paragrafo 2, del regolamento di base, ha prorogato le misure antidumping applicabili alle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti, originari della RPC e di Taiwan, istituite dal regolamento (CE) n. 1890/2005, misure che, per la esplicita previsione dell’art. 11 cit. “restano in vigore in attesa dell’esito del riesame”. Non vi è stata pertanto nessuna erronea applicazione della normativa, essendo stato applicato il reg 1890/2005 in relazione all’accertata l’origine di Taiwan delle merci importate.

9. Con il decimo mezzo (nono della contribuente), si censura l’errata applicazione del reg. CE 1890/2005, laddove la sentenza impugnata ha affermato che non sussistevano prove per applicare l’aliquota calmierata (16,1% anzichè 24,6%) a favore delle merci provenienti dalle società Tong Hwei e Ming Hwei e che tale agevolazione non è dovuta in caso di triangolazione a mezzo di soggetti terzi.

La censura è infondata. Il 93 considerando del Reg. n. 1890/2005 prevede che le agevolazioni daziarie (diversamente dal dazio unico per l’intero paese, applicabile a “tutte le altre società”) “sono esclusivamente applicabili alle importazioni di prodotti originari dei paesi interessati e fabbricati dalle società, cioè dalle specifiche persone giuridiche, delle quali viene fatta menzione. Le importazioni di prodotti fabbricati da qualsiasi altra società la cui ragione sociale non è espressamente menzionata nel dispositivo del presente regolamento, comprese le persone giuridiche collegate a quelle espressamente citate, non possono beneficiare di tali aliquote e sono soggette all’aliquota del dazio applicabile a “tutte le altre società””. La CTR, con un accertamento di fatto, aderente alle risultanze processuali e in sè coerente, ha escluso che vi fosse prova del collegamento tra le società che beneficiavano dell’aliquota agevolata e quelle filippine e che, comunque, in linea con quanto previsto dal 93 considerando, la possibilità di fruire dell’agevolazione richiedeva l’importazione diretta, altrimenti “la stessa ratio della disposizione agevolatrice, quella di premiare le società virtuose, verrebbe meno”.

10. Con l’ultimo motivo, si censura l’errata applicazione dell’art. 13 Reg. CE n. 1225 del 2009. Secondo la ricorrente, la CTR avrebbe errato nell’affermare che nella fattispecie ricorresse un fenomeno di triangolazione. Si sostiene che la fattispecie andava inquadrata in un fenomeno elusivo cui l’importatore e la contribuente erano rimasti estranei, con la conseguente impossibilità di recuperare differenze daziarie nei loro confronti in mancanza delle condizioni previste dall’art. 13 comma 2 Reg. n. 1225 del 2009, in rubrica citata.

La censura è infondata. La CTR ha accertato che l’operazione posta in essere ha realizzata una “vera e propria evasione”, rilevando come l’operatore avrebbe dovuto usare maggiore diligenza. Le conclusioni cui è giunta la CTR sono coerenti con la definizione dell’elusione posta dall’art. 13 del Reg. CE n. 1225/2009, secondo cui “Si intende per elusione una modificazione della configurazione degli scambi tra i paesi terzi e la Comunità o tra società del paese oggetto delle misure e la Comunità che derivi da pratiche, processi o lavorazioni per i quali non vi sia una sufficiente motivazione o giustificazione economica oltre all’istituzione del dazio, essendo provato che sussiste un pregiudizio o che risultano indeboliti gli effetti riparatori del dazio in termini di prezzi e/o di quantitativi dei prodotti simili, ed essendo provato altresì, se necessario conformemente alle disposizioni dell’art. 2, che esiste un dumping in relazione ai valori normali precedentemente accertati per i prodotti simili”. Nel caso in esame, non si sono realizzate operazioni di assemblaggio ma vi è stata una “importazione a mezzo di triangolazione da parte di soggetti terzi”, logicamente qualificata come evasiva della relativa obbligazione doganale.

11. Alla stregua delle considerazioni che precedono s’impone il rigetto dei ricorsi. Per la soccombenza, i ricorrenti vanno condannati alla refusione delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità, liquidate in Euro 6000,00 ciascuno, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’udienza pubblica, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020

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