LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5357-2018 proposto da:
D.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SESTO RUFO 23, presso lo studio dell’avvocato BRUNO TAVERNITI, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO MASTRANGELO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1173/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 26/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ACIERNO.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La Corte d’Appello de l’Aquila ha rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino senegalese D.S., confermando la pronuncia di primo grado. Ha affermato la Corte territoriale che dalla vicenda narrata è emerso che il ricorrente aveva un lavoro a ***** e che si era allontanato per un dissidio familiare, soggiornando in Libia con molte sofferenze per un anno. La Corte ha condiviso il giudizio espresso dal giudice di primo grado in relazione alla mancanza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, osservando che il ricorrente non sarebbe esposto neanche al pericolo d’indigenza in quanto in Senegal ha la possibilità di svolgere il proprio lavoro. Peraltro la situazione di mera povertà, secondo la Corte d’Appello, sarebbe fuori dalle condizioni di “vulnerabilità” coerenti con la misura richiesta. Ugualmente non rilevante il transito in Libia, dal momento che il ricorrente, pur volendolo ritenere credibile in relazione all’essere stato vittima di tratta e riduzione in schiavitù, deve essere rimpatriato nel paese di origine. Infine non si ravvisano gli elementi puntuali per la configurazione del reato di tratta o di riduzione in schiavitù dal generico racconto del ricorrente e, comunque, per questa tipologia di permesso è necessario un procedimento ad hoc.
Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero. Ha depositato controricorso il Ministero dell’Interno.
Nei primi tre motivi di ricorso viene dedotta la violazione delle norme relative alla valutazione della credibilità del ricorrente, anche in relazione alla protezione sussidiaria, estranea al thema decidendum che è limitato alla protezione umanitaria. Le censure sono inammissibili in quanto non riferibili alla ratio decidendi che non riguarda in via esclusiva ed assorbente la credibilità. Nel quarto motivo si adombra la violazione dell’art. 10 Cost. trattando, peraltro, in modo del tutto astratto, questioni nuove e come tali inammissibili.
All’inammissibilità del ricorso consegue l’applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali da liquidarsi in Euro 2.100 per compensi oltre spese prenotate a debito.
Ricorrono i presupposti processuali per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in relazione all’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso principale, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020