LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 31661-2018 proposto da:
R.G.C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 142, presso lo studio dell’avvocato BRUNO POGGIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI MILANO;
– intimato –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 25/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 03/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO CAMPESE.
FATTI DI CAUSA
1. R.G.C.M. ricorre per cassazione, affidandosi a cinque motivi, avverso il decreto del Tribunale di Milano n. 5451/2018, che ha respinto – al pari di quanto già fatto dalla Commissione territoriale – la sua domanda di protezione internazionale o di riconoscimento di quella umanitaria. Il Ministero dell’Interno non ha svolto attività difensiva in questa sede.
1.1. Per quanto qui ancora di interesse, quel tribunale, tenuto conto del racconto della richiedente, giudicato non credibile, e della concreta situazione socio-politica del suo Paese di provenienza (El Salvador), ha ritenuto insussistenti i presupposti richiesti per il riconoscimento di ciascuna delle forme di protezione invocata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I formulati motivi di ricorso prospettano, rispettivamente:
I) “Violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni della richiedente fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. Il Tribunale di Milano non ha compiuto alcun esame comparativo tra le informazioni provenienti dalla richiedente stessa e la situazione delle gang ed in particolare delle bande di ***** nelle aree da lei indicate, da eseguirsi mediante la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale”;
II) “Violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 8, 9, 10 e 11, come introdotto dal D.L. n. 13 del 17 febbraio 2017, convertito, con modificazioni, dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per avere il tribunale milanese deciso il ricorso senza fissare l’udienza e senza la presenza del difensore in camera di consiglio;
III) “Violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27; agli artt. 2 e 3 CEDU, nonchè omesso esame di fatti decisivi, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, criticandosi la decisione impugnata nella parte in cui aveva negato la sussistenza dei requisiti per la invocata protezione sussidiaria;
IV) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 17 e 14, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il Tribunale di Milano, pur prendendo in considerazione le situazioni di difficoltà nella regione di origine della ricorrente, ha omesso di valutare anche le condizioni di sicurezza ed in particolare la situazione delle donne ed i problemi legati alle questioni successorie”;
V) “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e 19, comma 2 ed all’art. 10 Cost., comma 3. Motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria ed alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima”, censurandosi il decreto impugnato nella parte in cui aveva negato la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della richiesta protezione umanitaria.
2. Il secondo motivo, il cui scrutinio è logicamente prioritario, è destituito di fondamento, emergendo dal decreto impugnato (cfr. pag. 4-5) l’avvenuta fissazione dell’udienza di comparizione delle parti (per il giorno 20 aprile 2018). Il tribunale, invece, ha ritenuto esclusivamente di non procedere a nuova audizione della cittadina salvadoregna, sul presupposto che la difesa di quest’ultima “non ha introdotto ulteriori temi di indagine, nè ha allegato fatti nuovi”.
2.1. Fermo quanto precede, è sufficiente rilevare che, da un lato, Cass. 5 luglio 2018, n. 17717, nello statuire l’obbligatorietà della fissazione dell’udienza davanti al tribunale adito con ricorso avverso il diniego della protezione internazionale, in tutti i casi di indisponibilità della videoregistrazione, ebbe espressamente a lasciare aperta la questione dell’obbligatorietà, o meno, dell’audizione del richiedente da parte del giudice di merito; dall’altro, che la recente Cass. n. 5953 del 2019, le cui argomentazioni questo Collegio condivide, ha poi chiarito che nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza di comparizione non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al tribunale. Ne deriva che il giudice può respingere una domanda di protezione internazionale che risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (tfr. in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. n. 2817 del 2019).
2.2. Nella specie, il tribunale milanese, dopo aver fissato l’udienza per la comparizione delle parti, ha fondato la propria decisione sulle evidenze del verbale della Commissione recante le dichiarazioni della richiedente la protezione, ritenute, peraltro, inattendibili e, comunque, inidonee a giustificare l’invocata protezione internazionale o il riconoscimento di quella umanitaria. Nè la ricorrente ha oggi riferito di aver allegato, innanzi al tribunale, fatti nuovi, non prospettati innanzi alla Commissione, rilevanti ai fini del decidere.
2.3. E’ da evidenziare, inoltre, che il tema della rinnovazione dell’interrogatorio avanti al giudice del merito va affrontato avendo riguardo alla normativa Euro-unitaria, alla luce della quale va interpretata quella nazionale che ne costituisce recepimento: deve escludersi che, in base a tale referente normativo, il tribunale sia sempre tenuto a procedere all’audizione del richiedente.
2.3.1. Secondo quanto precisato da Corte giust. UE 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, “la necessità che il giudice investito del ricorso ai sensi della direttiva 2013/32, ex art. 46, proceda all’audizione del richiedente deve essere valutata alla luce del suo obbligo di procedere all’esame completo ed ex nunc contemplato a tale direttiva, art. 46, par. 3, ai fini della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti e degli interessi del richiedente. Tale giudice può decidere di non procedere all’audizione del richiedente nell’ambito del ricorso dinanzi ad esso pendente solo nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame sfrutto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale con il richiedente in occasione del procedimento di primo grado”, perchè in tal caso ciò si giustifica in funzione dell’interesse ad una sollecita definizione del giudizio, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo. Laddove, invece, il giudice – prosegue la Corte – “consideri che sia necessaria un’audizione del richiedente onde poter procedere al prescritto esame completo ed ex nunc, siffatta audizione, disposta da detto giudice, costituisce una formalità cui esso non può rinunciare”. La Corte di giustizia ha, quindi, definito la questione pregiudiziale stabilendo che “La direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, e in particolare i suoi artt. 12, 14, 31 e 46, letti alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 47, deve essere interpretata nel senso che non osta a che il giudice nazionale, investito di un ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata, respinga detto ricorso senta procedere all’audizione del richiedente qualora le circostanze di fatto non lascino alcun dubbio sulla fondatezza di tale decisione, a condizione che, da una parte, in occasione della procedura di primo grado sia stata data facoltà al richiedente di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, conformemente all’art. 14 di detta direttiva, e che il verbale o la trascrizione di tale colloquio, qualora quest’ultimo sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo, in conformità della direttiva medesima, art. 17, par. 2 e, dall’altra parte, che il giudice adito con il ricorso possa disporre tale audizione ove lo ritenga necessario ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto contemplato a tale direttiva, art. 46, par. 3”.
2.3.2. Tale approdo, come rilevato dalla stessa Corte di giustizia, è del resto coerente con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui lo svolgimento dell’udienza non è necessario quando la causa non prospetti questioni di fatto e di diritto che non possano essere risolte sulla scorta del fascicolo e delle osservazioni scritte delle parti (cfr. Corte EDU 12 novembre 2002, Dory c. Suede, 37).
3. Tutti gli altri motivi sono esaminabili congiuntamente perchè accomunati dalla medesima ragione di inammissibilità.
3.1. Giova premettere che questa Corte ha, ancora recentemente Cass. n. 27686 del 2018), chiarito che: a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto, intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente (perchè, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro) ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua (pur corretta) interpretazione (cfr. Cass. n. 8782 del 2005); b) non integra, invece, violazione di legge, nè falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poichè essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretativo ed applicativo della norma di legge; c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., Sez. U., n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); d) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (O: Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015).
3.2. Le censure in esame si risolvono, invece, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui la ricorrente intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di violazione di legge o di vizio motivazionale, una propria diversa valutazione, totalmente obliterando, però, da un lato, che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – come si è appena detto non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, ma deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione; dall’altro, che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio pubblicato il 25 settembre 2018), ha avuto l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza (o di altro provvedimento decisorio) per “mancanza della motivazione”, ipotesi configurabile allorchè la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum in Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017).
3.2.1. Non solo, dunque, non è più denunciabile, in sede di legittimità, la motivazione insufficiente e/o contraddittoria, ma oggetto del vizio di cui alla norma da ultimo citata è, oggi, esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”, e cioè: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (Dott. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (fr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tra gli altri: a) le argomentazioni o deduzioni difensive (fr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).
3.2.2. Inoltre, il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
3.3. In applicazione dei suesposti principi, allora, non si presta ad esperibili ripensamenti la negatoria che il tribunale milanese ha inteso pronunciare tanto con riguardo alla richiesta di protezione sussidiaria, posto che la ricorrenza, nella specie, delle condizioni per darvi accesso è stata esclusa sulla base di approfondite ed appropriate referenze attinte, – anche ad onta della ritenuta (con apprezzamento in fatto qui non ulteriormente sindacabile. Cfr. Cass. n. 3340 del 2019) inattendibilità del racconto dell’odierna ricorrente, sia pure nell’ambito dell’onere probatorio attenuato, perchè inverosimile e contraddittorio in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, dalle fonti di informazione internazionale, specificamente indicate e tutte segnalanti l’insussistenza, nel Paese di provenienza della ricorrente (El Salvador) di situazioni astrattamente idonee a legittimare il riconoscimento del pericolo di un danno grave; quanto con riguardo alla richiesta di protezione umanitaria, – il cui esame avviene sulla base della corrispondente disciplina anteriore a quella introdotta dal D.L. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 132 del 2018: questa Corte, infatti, ha recentemente sancito, anche a Sezioni Unite (cfr. Cass., SU, 13.11.2019, nn. 29459-29461; n. Cass. n. 4890 del 2019), che “la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito dalla L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima – come quella in esame. Ndr – dell’entrata in vigore (5 /10 / 2018) della nuova legge” – atteso che, indipendentemente dalla ritenuta inattendibilità della ricorrente, si è considerato dirimente il difetto di qualsivoglia specifica allegazione in punto di sua vulnerabilità, senza che il rilievo in tal modo operato abbia trovato adeguata e puntuale replica nell’illustrazione del corrispondente quinto motivo di ricorso.
3.4. In definitiva, R.G.C.M., con i motivi in esame, tenta sostanzialmente di opporre alla valutazione fattuale contenuta nel decreto impugnato una propria alternativa interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica del vizio motivazionale o di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un ulteriore grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Dott., ex multis, Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
4. Il ricorso va, dunque, respinto, senza necessità di pronuncia in ordine alla spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (Dott. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017), e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 23535 del 2019 – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 – bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 3 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020