Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.780 del 16/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8860-2017 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è

domiciliato per legge;

– ricorrente –

contro

G.G., + ALTRI OMESSI, quale erede di S.C., rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al controricorso, dall’Avvocato Marcello Greco;

– controricorrenti –

avverso il decreto n. 600/2017 della Corte d’appello di Perugia, depositato il 1 febbraio 2017;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22 maggio 2019 dal Presidente relatore Stefano Petitti.

RITENUTO

che la Corte d’appello di Perugia, con il decreto qui impugnato, ha accolto la domanda con la quale C.G., + ALTRI OMESSI avevano chiesto l’equa riparazione per la irragionevole durata di un giudizio amministrativo iniziato nel 1999 e definito con sentenza depositata il 1 luglio 2011; che per la cassazione di tale decisione il Ministero dell’economia e delle finanze ha proposto ricorso, affidato a un unico motivo;

che C.G., + ALTRI OMESSI, quale erede di S.C., hanno resistito con controricorso.

Considerato che il Ministero ricorrente censura il decreto impugnato, deducendone la illegittimità, per non avere ritenuto che la mancata presentazione dell’istanza di prelievo nel giudizio amministrativo presupposto fosse preclusiva della possibilità di esaminare la domanda di equa riparazione;

che il ricorso è infondato;

che deve, infatti, prendersi atto che nelle more del presente giudizio è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 6 marzo 2019, che ha dichiarato incostituzionale il D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, e successive modifiche, qui rilevante, trattandosi nella specie di procedimento per il quale non risulta applicabile la previsione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, come novellato dalla L. n. 208 del 2015 (attesa la specifica norma transitoria di cui alla stessa L. n. 89 del 2001, art. 6, comma 2-bis, in quanto il processo presupposto alla data del 31 ottobre 2016 avrebbe già superato i termini di durata ragionevole);

che la Corte costituzionale, nel richiamare la costante giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma ciò solo se “effettivi” e, cioè, nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente (così, in particolare, Corte Europea dei diritti dell’uomo, grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia), ha ricordato come già con la sentenza del 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, detta Corte, pur dichiarando il ricorso inammissibile per il mancato esperimento del rimedio giurisdizionale interno, aveva preannunciato che una prassi interpretativa ed applicativa del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, nel testo antecedente alla modifica di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010 – che avesse avuto come effetto quello di opporsi all’ammissibilità dei ricorsi ex lege Pinto (relativi alla durata di un processo amministrativo conclusosi prima del 25 giugno 2008), per il solo fatto della mancata presentazione di un’istanza di prelievo – avrebbe privato sistematicamente alcune categorie di ricorrenti della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente;

che la stessa Corte ha altresì rammentato che di recente, con la sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, la Corte EDU ha affrontato il problema dell’effettività del rimedio nazionale ex lege n. 89 del 2001, soggetto alla condizione di proponibilità del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2; e, esaminando diacronicamente tale disposizione, fino al testo scaturito dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 104 del 2010, ha conclusivamente ritenuto che la procedura nazionale per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dal combinato disposto della “legge Pinto” con la disposizione stessa, non possa essere considerata un rimedio effettivo ai sensi dell’art. 13 della CEDU, soprattutto perchè il sistema giuridico nazionale non prevede alcuna condizione volta a garantire l’esame dell’istanza di prelievo;

che la Corte costituzionale ha quindi ritenuto che la norma in esame si pone in contrasto con la “costante giurisprudenza della Corte EDU”, atteso che l’istanza di prelievo, cui fa riferimento il D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, (prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla L. n. 208 del 2015), non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente (ex art. 71, comma 2 codice del processo amministrativo, la parte “può” segnalare al giudice l’urgenza del ricorso), con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia nè con l’obiettivo del contenimento della durata del processo nè con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata;

che la sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma che subordina la proponibilità della domanda di equo indennizzo alla necessaria presentazione dell’istanza di prelievo per contrasto con i parametri convenzionali della CEDU (art. 6 par. 1), la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’art. 117 Cost., comma 1, comporta il rigetto del ricorso, essendo venuta meno la disposizione la cui violazione il Ministero ricorrente ha denunciato; che le spese del giudizio di legittimità, tenuto conto delle ragioni della decisione consistenti nella sopravvenuta decisione della Corte costituzionale, possono essere compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte suprema di cassazione, il 22 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

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