Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.792 del 16/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N. R.G. 28941/’15) proposto da:

V.F., (C.F.: *****), rappresentato e difeso, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti Andrea Carlo Poma e Paolo Panariti ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in Roma, v. Celimontana, 38;

– ricorrente –

contro

B.R., (C.F.: *****), rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, dall’Avv. Renato Ragozzino ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Luca di Paolo, in Roma, v. Ovidio, 20;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 3852/2014, depositata il 29 ottobre 2014;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2019 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Celentano Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. Paolo Panariti per il ricorrente.

RILEVATO IN FATTO

1. Con atto di citazione notificato nell’ottobre 2007, il sig. V.F., assumendo di essere comproprietario della quota indivisa di 1/3, unitamente alla madre B.R. ed al fratello V.L., di un appartamento sito al primo piano e di un negozio al piano terra facenti parte del fabbricato ubicato in *****, già di proprietà del padre V.N. (deceduto il *****), conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, la citata B.R. affinchè venisse condannata a corrispondergli la quota di sua spettanza, pari a 1/3, dei canoni contrattualmente previsti con riferimento ad entrambi i suddetti immobili, concessi in locazione a terzi con contratti registrati il 12 marzo 2002 (relativamente all’appartamento) ed il 17 settembre 2002 (con riguardo al negozio), sul presupposto che i relativi canoni erano stati integralmente riscossi dalla sola convenuta.

Quest’ultima si costituiva in giudizio e resisteva, deducendo che era intervenuto un accordo tra lei e i due figli circa l’incasso, in via esclusiva, dei canoni controversi. La stessa avanzava, altresì, domanda riconvenzionale chiedendo la condanna dell’attore al pagamento – limitatamente alle quote di sua pertinenza – di spese varie dalla stessa anticipate per la gestione dei due predetti immobili siti in *****, oltre che con riguardo ad un appartamento ubicato in ***** e ad un’automobile intestata a tutti e tre gli eredi.

Con sentenza n. 11535 del 2011, il Tribunale adito rigettava la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale, condannando l’attore al pagamento, in favore della convenuta e per il titolo dedotto in giudizio, della somma complessiva di Euro 11.007,59, oltre interessi legali dalla domanda al saldo effettivo.

2. Decidendo sull’appello proposto dal V.F. e nella costituzione dell’appellata B.R., la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 3852 del 2014 (depositata il 29 ottobre 2014), rigettava il gravame e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado.

A fondamento dell’adottata decisione la Corte territoriale osservava che era da riconfermarsi – alla stregua degli esiti della compiuta istruzione documentale e testimoniale – la statuizione del giudice di prime cure circa la ritenuta acquisizione della prova dell’esistenza di un accordo fra la B. e i figli L. e V.F., in virtù del quale i canoni degli immobili in comproprietà per cui era stata instaurata la causa sarebbero stati interamente percepiti dalla B., fermo rimanendo l’obbligo dei due figli di contribuire “pro quota” al pagamento delle relative imposte.

3. Avverso la sentenza di secondo grado ha formulato ricorso per cassazione, affidato a nove motivi, il V.F., resistito con controricorso dall’intimata B.R..

Entrambi i difensori delle parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Rileva, in via preliminare, il collegio che tutti i motivi attingono – sotto più profili – l’impugnata sentenza in ordine alla ritenuta esistenza di un accordo tra la B.R. e i suoi figli, per effetto del quale i canoni degli immobili in comproprietà tra i coeredi di V.N. (tra i quali il figlio F., oggi ricorrente) avrebbero dovuto essere interamente riscossi (ed utilizzati) dalla B., pur rimanendo fermo l’obbligo dei figli di contribuire, in rapporto alla loro quota, al pagamento delle imposte.

1.1. In particolare, con il primo motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 1324,1362,1363 e 1366 c.c., confutando l’interpretazione fornita nell’impugnata sentenza dalla Corte territoriale in ordine al contenuto dei documenti dai quali si evinceva l’intervenuto accordo con la madre sul riconoscimento della sua legittimazione ad incassare in via esclusiva i canoni controversi, avuto riguardo, in particolare, ai prodotti documenti recanti i nn. 16, 17 e 18.

1.2. Con la seconda doglianza il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, – la violazione o falsa applicazione ovvero la nullità della sentenza in relazione all’art. 111 Cost., comma 6, all’art. 132, comma 2, n. 4) e art. 118 disp att. c.p.c., comma 1 o, in ulteriore subordine, l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio emergente dal contenuto del documento n. 16, che aveva costituito oggetto di discussione fra le parti.

1.3. Con la terza censura il ricorrente ha prospettato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 – la violazione o falsa applicazione ovvero la nullità della sentenza in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1 e art. 116 c.p.c., comma 2, ultimo periodo, o, in ulteriore subordine, l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio (sempre evincibile dal contenuto del documento n. 16) che aveva costituito oggetto di discussione fra le parti, avuto riguardo alla circostanza dell’avvenuto pagamento ad esso esponente e da parte della B.R. di una parte dei canoni ricavati dalla locazione dei due immobili siti in *****.

1.4. Con il quarto mezzo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697,2730,2731,2735,2727 c.c. e art. 2729 c.c., comma 1, o, in subordine, l’omesso esame circa il fatto ritenuto decisivo per il giudizio (sempre evincibile dal contenuto del documento n. 16) che aveva costituito oggetto di discussione fra le parti, avuto riguardo alla mancata valutazione come confessione stragiudiziale ad opera della B. dell’avvenuto pagamento dell’importo di Euro 5.788,49 imputabile a canoni dei due immobili di *****, risultante da assegno circolare fatto emettere dalla genitrice a suo nome.

1.5. Con la quinta censura il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, – la violazione o falsa applicazione ovvero la nullità della sentenza in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1 e art. 116 c.p.c., comma 1, o, in ulteriore subordine, l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio che aveva costituito oggetto di discussione fra le parti, avuto riguardo alla circostanza del mancato apprezzamento delle risultanze documentali da lui offerte, prevalentemente di data successiva all’accordo.

1.6. Con il sesto mezzo il ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o falsa applicazione dell’art. 2722 c.c., con riferimento alla non rilevata inammissibilità della prova per testi siccome aventi ad oggetto circostanze contrastanti con il contenuto del prodotto documento indicato come n. 16, attestante l’avvenuto pagamento, in suo favore, da parte della madre, di una parte dei controversi canoni locativi.

1.7. Con il settimo motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la violazione o falsa applicazione o, in subordine, la nullità della sentenza o del procedimento con riferimento all’art. 244 c.p.c., comma 1, avuto riguardo all’ammissione delle relative prove e all’utilizzazione degli esiti della deposizione della teste C.A.E., siccome da ritenersi vertente su circostanze estranee all’oggetto della causa.

1.8. Con l’ottavo mezzo il ricorrente ha prospettato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, – un’altra asserita violazione o falsa applicazione ovvero la nullità della sentenza in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1 e art. 116 c.p.c., comma 1, o, in ulteriore subordine, l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio che aveva costituito oggetto di discussione fra le parti, con riferimento al mancato rilievo dell’eccezione di inammissibilità, inattendibilità, irrilevanza ed inconcludenza della deposizione resa dalla teste C.A.E..

1.9. Con il nono ed ultimo motivo il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 – un’ulteriore violazione o falsa applicazione ovvero la nullità della sentenza in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1, e art. 116 c.p.c., comma 1, o, in ulteriore subordine, l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio che aveva costituito oggetto di discussione fra le parti, con riferimento al mancato rilievo dell’eccezione di inammissibilità, inattendibilità, irrilevanza ed inconcludenza della deposizione resa dal teste V.L..

2. Così esposta la portata dei formulati motivi, ritiene il collegio che vada, in via preliminare, fatta una premessa di carattere sistematico sulla rappresentata impostazione e sul relativo contenuto complessivo degli stessi motivi.

In primo luogo, non può ravvisarsi alcun omesso esame di fatti decisivi per il giudizio – come tale incasellabile nel nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – nella contestazione relativa alla valutazione di prove costituende compiuta dal giudice di merito, così come tale contestazione non è idonea a configurare un vizio propriamente comportante la nullità della sentenza, salva rimanendo la sussumibilità di eventuali violazioni di regole giuridiche attinenti l’ammissione o l’efficacia di mezzi istruttori nell’alveo dei vizi riconducibili al citato art. 360 c.p.c., nn. 3 e/o 4.

Costituiscono, infatti, principi pacifici nella giurisprudenza di questa Corte le affermazioni che:

– in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., ex multis, Cass. n. 27000/2016 e Cass. n. 1229/2019);

– l’interpretazione del contenuto di un atto negoziale è compito esclusivo del giudice del merito ed il risultato di tale operazione non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità, se congruamente motivato;

– in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” conferito ad alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, anche se diverso da quello formulato dal primo giudice (cfr., ad es., Cass. n. 1554/2004 e Cass. n. 13054/2014).

3. Ciò chiarito sul piano generale, osserva il collegio che, in effetti, il ricorrente – con i primi cinque motivi (esaminabili congiuntamente perchè all’evidenza connessi) – sollecita un riesame, anche sotto il profilo interpretativo, del contestato documento n. 16, in particolare, sul quale, tuttavia, la Corte di appello di Milano ha espresso una motivazione (non apparente e non contraddistinta da una irrisolvibile contraddittorietà logica), che spiega sufficientemente il convincimento raggiunto sulla non assoluta rilevanza di detto documento (relativo ad una lettera inviata il 10 novembre 2008 dall’amministratore della B., e perciò da un terzo, a cui era allegato un assegno di Euro 5.788,49).

A tal proposito la Corte territoriale ha posto correttamente in evidenza l’equivocità del contenuto del citato documento, siccome da esso non era evincibile il titolo della trasmissione dell’assegno (non desumendosi la situazione riferibile alla circostanza degli “introiti affitti e anticipi”), e la rilevanza – in senso ostativo alla sua apprezzabilità nel senso prospettato dal ricorrente – del fatto che la formazione del documento era successiva all’introduzione della causa, con la conseguente suscettibilità di diversa interpretazione, senza trascurare la connessa circostanza del notevole tempo trascorso dal decesso del “de cuius” V.N. e dalla stipula dei primi contratti, avvenuta nel 2002.

Riconfermato che non ricorre alcuna violazione dei denunciati artt. 115 e 116 c.p.c., le censure di cui alle prime cinque doglianze si compendiano, per un verso, essenzialmente nella mera riproposizione delle argomentazioni sull’apprezzamento fattuale operato dal giudice di appello (che ha, oltretutto, confermato la decisione di primo grado), e, per altro verso, sotto forma di motivi riferiti alla violazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e 1362 c.c., tendono, in effetti, a rimettere in discussione la valutazione di merito compiuta dalla Corte milanese ma non a censurare, in concreto, il modo illegittimo di applicazione di tali criteri e, quindi, sono indirizzate a confutare inammissibilmente il risultato interpretativo raggiunto sul punto dalla suddetta Corte con motivazione esauriente sul piano logico-giuridico.

La giurisprudenza di questa Corte è univoca nel ritenere che la parte la quale, con il ricorso per cassazione, sostenga che il giudice del merito sia incorso in un errore di diritto o in un vizio logico nella valutazione della volontà negoziale, risultante dai documenti che la riproducono, non può limitarsi a richiamare genericamente le norme che ritiene siano state disapplicate od erroneamente applicate, nè ad enunziare apoditticamente quello che ritiene essere il “nomen iuris” della fattispecie, ma deve specificare le ragioni di diritto così del denunziato errore del giudice, come della contrapposta tesi sostenuta, ed, in particolare, denunziare e dimostrare la violazione di specifiche norme di ermeneutica; diversamente, la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice e la prospettazione di una difforme interpretazione investono il merito delle valutazioni del giudice stesso, e sono, pertanto, inammissibili in sede di legittimità.

Quanto all’asserita violazione degli artt. 2697,2730,2731,2735,2727 c.c. e art. 2729 c.c., comma 1, deve poi rilevarsi che, sul pacifico presupposto che il contestato documento n. 16 era imputabile ad un terzo, la Corte di appello ha fatto legittima applicazione della disciplina relativa all’efficacia degli scritti per l’appunto provenienti da un terzo, i quali, invero, pur non potendo produrre gli effetti di piena prova e non essendo soggetti al regime sostanziale di cui all’art. 2702 c.c. nè a quello processuale previsto dall’art. 214 c.p.c., possono solo essere liberamente apprezzati dal giudice nel loro valore meramente indiziario, ragion per cui il loro contenuto deve essere supportato da ulteriori elementi che ne confortino l’attendibilità e la verosimiglianza e, quindi, supportino la possibilità per il giudice di merito di conferire ad essi il valore di prova effettivamente convincente (cfr., per tutte, Cass. n. 11077/1998).

Una questione di travisamento della prova può configurarsi solo in presenza di un dato probatorio insuscettibile di essere interpretato in modi diversi ed alternativi, circostanza, questa, che non ricorre nel caso di specie, alla stregua delle ragioni esplicitate – e prima richiamate – dalla Corte di appello sul significato equivoco del contestato documento.

4. Osserva, quindi, il collegio, con riferimento agli altri (tra loro inscindibilmente connessi) quattro motivi formulati (dal sesto al nono), che proprio la ravvisata – ad opera del giudice di appello – non riferibilità del documento 16 alle circostanze che il ricorrente riteneva di provare ha comportato che non poteva verificarsi alcuna violazione dell’art. 2722 c.c. e che, quindi, erano state legittimamente ammesse le prove testimoniali, il cui risultato, ovviamente, è demandato al prudente apprezzamento del giudice di merito che, nel caso di specie, ha dato adeguatamente conto della pertinenza ed attendibilità degli esiti delle deposizioni dei testi C.A.E. e V.L. (germano del ricorrente) rispetto ai fatti di causa, così ravvisandosi l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione di altre testimonianze.

Con riferimento all’efficacia della testimonianza “de relato” della C. la Corte milanese ha sufficientemente spiegato che essa era assurta a valido elemento di prova siccome suffragata da circostanze oggettive e soggettive ad essa intrinseche, oltre che da altre risultanze probatorie acquisite al processo tali da concorrere a confortarne la credibilità, tra le quali l’esito della testimonianza di V.L. (cfr., da ultimo, Cass. n. 18352/2013). Quanto all’attendibilità della deposizione di quest’ultimo teste, va osservato che, in tema di prova testimoniale, l’insussistenza, per effetto della decisione della Corte costituzionale n. 248 del 1994, del divieto di testimoniare sancito per i parenti dall’art. 247 c.p.c. non consente al giudice di merito un’aprioristica valutazione di non credibilità delle deposizioni rese dalle persone indicate da detta norma (v. Cass. n. 17630/2019 e, più recentemente, Cass. n. 98/2019); pertanto, essa, nel contesto generale dell’impianto di valutazione probatoria alla stregua di tutti gli elementi acquisiti (ed in difetto di altre convincenti risultanze contrarie), è stata, nel caso di specie, legittimamente, ritenuta attendibile dalla Corte territoriale nell’esercizio del suo prudente apprezzamento.

5. In definitiva, per le ragioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione seonda civile, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

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