Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.795 del 16/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11671/2018 proposto da:

L.V., rappresentato e difeso dall’Avvocato MARIA SANSONE di CAMPOBIANCO, ed elettivamente domiciliato, presso il suo studio in PALERMO, VIA VALDEMONE 31;

– ricorrente –

contro

C.F., e Z.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1769/2017 della CORTE d’APPELLO di CATANIA, depositata il 3/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARIA SANSONE di CAPOBIANCO, per il ricorrente che ha concluso come in atti.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Siracusa, con sentenza n. 989/2012, depositata in data 2.7.2012, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da L.V. nel giudizio proposto da C.F. e Z.M. per la reimmissione nel possesso dell’immobile sito in *****, con terreno pertinenziale dichiarava lo stesso comproprietario della quota indivisa del 50% dell’immobile, per intervenuto acquisto a titolo originario ex art. 1158 c.c..

Avverso la sentenza proponevano appello C.F. e Z.M..

Si costituiva in giudizio L.V. chiedendo il rigetto dell’appello.

Con sentenza n. 1769/2017, depositata in data 3.10.2017, la Corte d’Appello di Catania dichiarava la proprietà di C.F. e Z.M. sull’immobile in oggetto condannando L.V. al rilascio dello stesso; condannava il L. al pagamento della somma di Euro 12.000,00 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale per indisponibilità del bene, rigettando per il resto. In particolare, rilevava la Corte di merito che gli appellanti avevano prodotto il loro titolo di proprietà, costituito dall’atto di compravendita del 29.12.2000 e che non era contestato in giudizio che comune fosse il dante causa, proprietario originario ( L.G.) dell’appartamento unico, poi destinato agli eredi e frazionato. Il frazionamento del bene nel 1992 si traduceva nella volontà di riconoscere la proprietà anche degli altri coeredi, cosa che escludeva l’acquisto per usucapione.

Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione L.V. sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie depositate nell’imminenza dell’adunanza camerale del 21 febbraio 2019, da cui la causa proviene e della presente udienza pubblica; gli intimati C.F. e Z.M. non hanno svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, là dove la Corte territoriale non ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione per la sua lacunosità e carenza; giacchè l’atto di appello è una riproposizione delle argomentazioni formulate, per la prima volta, nella comparsa conclusionale e in contraddizione con quanto dedotto con l’atto di citazione. Inoltre, gli appellanti avevano omesso di impugnare il capo della sentenza del Tribunale che, con riferimento alla difesa svolta dagli stessi circa la divisione dell’immobile dopo lo spirare dei termini preclusivi, riteneva tale difesa inammissibile per tardività.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – La Corte distrettuale ha fatto esatta e coerente applicazione dei consolidati principi giurisprudenziali in materia.

Questa Corte (ex plurimis, Cass. sez. un. 3033 del 2013) – sottolineato che l’originario connotato di novum iudicium del processo d’appello (disciplinato dal codice di rito del 1865), notevolmente attenuato nel nuovo codice del 1940 dalle disposizioni contenute negli artt. 342,345 e 346 c.p.c., a seguito delle profonde modifiche apportate dalla L. n. 353 del 1990, non è più riscontrabile nell’attuale processo civile, nel cui ambito il giudizio di secondo grado costituisce una revisio prioris instantiae, incanalata negli stretti limiti devoluti con i motivi di gravame – ha ribadito che, nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata.

In sostanza (Cass. sez. un. 28498 del 2005), l’appello deve puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma “comunque” sostituiti dalla sentenza di appello (Cass. sez. un. 28498 del 2005). Pertanto, la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi, con la conseguenza che tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che la sorreggono; pertanto, nell’atto di appello deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame rilevabile d’ufficio, una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (Cass. sez. un. 23299 del 2011; nonchè, Cass. n. 4068 del 2009; Cass. n. 18704 del 2015; Cass. n. 12280 del 2016).

Al fine quindi di verificare la corretta applicazione della norma in esame, si deve ribadire che non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con idoneo grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. sez. un. 16 del 2000; Cass. sez. un. 28498 del 2005). Da ciò, la affermata inammissibilità dell’atto di appello redatto in modi non rispettosi dell’art. 342 c.p.c. (Cass. sez. un. 16 del 2000, cit.), che va tuttavia applicato senza inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, Cass. 12984 del 2006; Cass. n. 9244 del 2007; Cass. n. 25588 del 2010; Cass. n. 22502 del 2014; Cass. n. 18932 del 2016; Cass. n. 4695 del 2017).

Tali principi hanno trovato di recente conferma (con riferimento agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo certamente più rigoroso, novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 e convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nel giudizio de quo) in Cass. sez. un. 27199 del 2017, che ha affermato che gli artt. 342 e 434 c.p.c. (nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134) vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

1.3. – Orbene, il ricorrente s’è limitato a rilevare (del tutto genericamente) come l’impugnazione proposta dagli appellanti fosse confusionaria, lacunosa e carente, costituendo una mera riproposizione delle argomentazioni, asseritamente “formulate per la prima volta nella comparsa conclusionale, ed in contraddizione con quanto dedotto con l’atto di citazione”, senza tuttavia specificare il contenuto di tali argomentazioni, con ciò neppure rispettando il principio di autosufficienza.

I requisiti di contenuto e forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possano essere ricavati da altri atti, come anche la sentenza impugnata, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla stessa indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 2018; conf. Cass. n. 20694 del 2018). Il ricorrente ha, perciò, l’onere (che nella specie, come detto, non risuta assolto) di indicarne nel ricorso il contenuto rilevante, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 5478 del 2018; Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso) (Cass. n. 17168 del 2012).

Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto indicare – mediante anche la trascrizione di detti atti nel ricorso – la risultanza asseritamente decisiva e/o non valutata, o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).

2.1. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 183 e 184 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto la Corte d’Appello ha valutato fatti nuovi allegati dopo lo spirare dei termini processuali e dichiarati inammissibili dal Tribunale. Infatti, a fronte della comparsa di costituzione e risposta, con domanda riconvenzionale di intervenuta usucapione da parte del L. (il quale deduceva che dal 1970, anno della morte del nonno, sia il padre che il medesimo avevano sempre posseduto l’intero appartamento, e mai era intervenuta la divisione della comunione ereditaria), gli attori nulla eccepivano, meno che mai un’intervenuta divisione dell’immobile risalente all’anno 1992. Ed anche nella memoria istruttoria essi omettevano di articolare prove circa l’avvenuto frazionamento e la materiale divisione dell’immobile. Del resto, nell’atto di citazione gli attori affermavano che in data 5.3.2002 il L., con l’aiuto di due muratori, abbatteva n. 2 divisori in mattoni forati, eretti due anni addietro dalle venditrici (affermazione che sarebbe in contrasto con la divisione materiale dell’immobile nel 1992). Solo in comparsa conclusionale, spirati ormai tutti i termini, gli attori assumevano che nel 1992 l’immobile era stato oggetto di frazionamento e di una divisione materiale tramite l’edificazione di due muri interni.

2.2. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 345 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto la Corte di merito avrebbe violato il dettato dell’art. 345 c.p.c. valutando un’eccezione nuova, formulata per la prima volta nell’atto di appello, riguardante il fatto che L.F., dante causa dell’odierno ricorrente, avrebbe partecipato al frazionamento del 1992. Con la comparsa di costituzione e risposta il ricorrente contestava la circostanza, in quanto il padre all’epoca era già deceduto. Nonostante ciò la Corte d’Appello non dichiarava l’inammissibilità dell’eccezione. Inoltre, la Corte, in violazione dell’art. 345 c.p.c., valutando erroneamente tale nuova eccezione, ha ritenuto acclarato che nel 1992 i fratelli germani L.C., L.R. (danti causa di C.F. e Z.M.) e L.F. (dante causa dell’odierno ricorrente) avrebbero consensualmente diviso per frazionamento l’immobile in questione. Si ribadisce che tale circostanza era stata censurata dal Tribunale in quanto nuova e sfornita di prova, oltre che contraddittoria.

3. – In ragione della loro connessione logico-giuridica, i motivi vanno congiutamente esaminati e decisi.

3.1. – Essi non sono fondati.

3.2. – La Corte distrettuale (preliminarmente trattando la questione inerente la qualificazione giuridica della domanda principale svolta in primo grado dagli appellanti, odierni controricorrenti, di “immediata reimmissione nel possesso” del loro immobile, che il primo giudice ha ritenuto quale domanda personale di restituzione) ha ritenuto invece che, in realtà, l’azione spiegata in prime cure dai medesimi appellanti fosse da qualificarsi quale rivendica (sentenza impugnata, pagina 3). Con ciò, correttamente richiamando il principio espresso da Cass. sez. un. 7305 del 2014, secondo cui, in tema di azioni a difesa della proprietà, le difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un’azione di rilascio o consegna non comportano – in ossequio al principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – una mutatio od emendatio libelli, ossia la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell’attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, nè, in ogni caso, implicano che l’attore sia tenuto a soddisfare il correlato gravoso onere probatorio inerente le azioni reali (cosiddetta probatio diabolica), la cui prova, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese (conf. Cass. n. 23121 del 2015).

Orbene, va rilevato che è principio consolidato che, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formulazione letterale adottata dalla parte (Cass. n. 26159 del 2014; Cass. n. 21087 del 2015), dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonchè del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte (Cass. n. 5442 del 2006; n. 27428 del 2005). La qualificazione della domanda giudiziale (che, nella specie, non risulta contestata) costituisce, dunque, operazione riservata al giudice del merito (Cass. sez. un. 4617 del 2011), la cui valutazione, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale (Cass. n. 22893 del 2008).

3.3. – L’affermazione della novità ed inammisibilità della allegazione dell’intervenuto frazionamento e della materiale divisione del 1992 (a prescindere dalla mancata partecipazione personale del L.F., deceduto prima di tale operazione), anche ove la si ritenesse suscettibile di accoglimento, non appare comunque idonea a scalfire la complessiva ratio decidendi, nè a contraddire ciò che in essa è affermato quanto alla non accoglibilità della domanda riconvenzionale di usucapione.

Così – corretto il richiamo alla applicazione, nella specie, “in forma attenuata” della probatio diabolica necessaria per l’accertamento e rivedicazione del diritto di proprietà (Cass. n. 6824 del 2013; Cass. n. 5487 del 2002) – la Corte di merito ha rilevato come nel caso di specie gli appellanti avessero prodotto in giudizio il loro titolo di proprietà, costituito dall’atto di vendita per Notaio B. di Noto del 29.12.2000, non essendo contestato che comune fosse il dante causa, proprietario originario ( L.G.) dell’appartamento unico, di poi frazionato e destinato agli eredi (sentenza impugnata, pagina 5).

Quanto poi al periodo di possesso necessario per l’usucapione, che l’appellato (odierno ricorrente) unisce a quello maturato dal padre, la Corte di merito ha osservato come fosse altresì pacifico tra le parti, e dalla CTU, che l’originario appartamento successivamente alla morte del dante causa L.G., avvenuta nel 1970, fosse stato lasciato in eredità a più persone, e che lo stesso fosse stato frazionato nel 1992, con riconoscimento delle rispettive proprietà e formazione di due distinte unità immobiliari e rispettivi subalterni. Ed è giunta alla conclusione che “siffatte circostanze, e in particolare il frazionamento del bene coerentemente al titolo, escludono la maturazione del periodo utile ad usucapire, in quanto interrompono continuità e persistenza del necessario animus possidendi (frazionamento del 1992, citazione per rivendica ed eccezione di usucapione del 2004) e si traducono nella volontà non equivoca di riconoscere il diritto reale al suo titolare” (sentenza impugnata, pagina 6).

Coerente a ciò risulta, dunque, il richiamo della Corte distrettuale al principio secondo cui, per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l’animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (Cass. n. 21015 del 2016; Cass. n. 26641 del 2013). Laddove, il riconoscimento del diritto altrui da parte del possessore, quale atto incompatibile con la volontà di godere il bene uti dominus, interrompe il termine utile per l’usucapione (Cass. n. 19706 del 2014; conf. Cass. n. 25250 del 2006).

4. – Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla L.R. Sicilia n. 37 del 1985, L.R. Sicilia n. 4 del 2003 e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. B), (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto la Corte di merito, in assenza di un provvedimento concessorio rilasciato dal Comune, ha condannato il L. a ripristinare i muri divisori, in tal modo disponendo che, in sostanza, lo stesso commettesse un reato edilizio.

4.1. – Il motivo non è fondato.

4.2. – A prescindere dalla considerazione che il ricorrente non offre, a sostegno del motivo, una specifica individuazione delle norme edilizie che sarebbero, a suo dire, lese dalla decisione del giudice d’appello, circa il ripristino del bene in esame, Va osservato che la Corte di merito ha correttamente rilevato che le osservazioni proposte dal ricorrente sul frazionamento, quali la necessità di autorizzazioni o la sua validità sono irrilevanti, giacchè quel che incide in maniera determinante è la circostanza che l’originaria unica proprietà viene a scindersi in due appartamenti e ciò per volontà di tutti i comproprietari, che con tale frazionamento riconoscono la comproprietà degli altri coeredi (sentenza impugnata, pagina 7).

5. – Il ricorso va dunque rigettato. Nulla per le spese in ragione del fatto che gli intimati non hanno svolto alcuna difesa. Va emessa la dichiarazione ex art. 13, c. 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 29 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

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