Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.823 del 16/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12689/2018 proposto da:

FONDAZIONE ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell’avvocato MARCO MARAZZA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DOMENICO DE FEO e MAURIZIO MARAZZA;

– ricorrente –

contro

D.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE RAFFAELE SORRENTINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 896/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/02/2018, R.G.N. 2929/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DOMENICO DE FEO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE RAFFAELE SORRENTINO.

Con sentenza 28 febbraio 2018, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto dalla Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia avverso la sentenza di primo grado, di rigetto della sua opposizione all’ordinanza, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 49, di accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato il 26 maggio 2016 a D.R. per giusta causa, con le conseguenti condanne della Fondazione alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.

Al D. era stato contestato di non avere dichiarato l’esistenza di un contestuale rapporto di lavoro subordinato con la Banda dell’Esercito alle dipendenze del Ministero della Difesa, in occasione della riassunzione in servizio con mansioni di “tromba” nell’orchestra determinata da una precedente sentenza della medesima Corte d’appello n. 2685/2016, la quale aveva dichiarato la conversione a tempo indeterminato del rapporto per effetto dell’illegittimità di contratti a termine pregressi tra il lavoratore e la Fondazione.

A motivo della decisione, la Corte territoriale, in argomentata condivisione del percorso motivazionale del Tribunale diffusamente riportato, ribadiva:

a) l’inapplicabilità del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 1, comma 2, alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro temporaneo per nullità del termine, anche in base ad interpretazione costituzionalmente orientata;

b) l’insussistenza del fatto contestato per mancanza di rilevanza disciplinare e di disvalore giuridico e sociale, per la natura di violazione meramente formale del fatto addebitato (poichè il lavoratore, a seguito di pubblicazione della sentenza di conversione della Corte d’appello in data 17 maggio 2016 e di ricevimento, il 18 maggio successivo, del telegramma della Fondazione di ripresa del servizio, aveva lo stesso 18 maggio immediatamente rassegnato le dimissioni con effetto, secondo la regola vigente nel pubblico impiego, dall’accettazione della P.A. il 24 maggio 2016, con imputazione del periodo dal 19 al 24 maggio a licenza ordinaria), avendo così reso la prestazione lavorativa in favore della sola Fondazione;

c) la natura di falso innocuo del comportamento addebitato al lavoratore, in assenza di alcuna offensività;

d) l’insussistenza della violazione degli interessi tutelati dal divieto di cumulo di impieghi stabilito dal D.Lgs. n. 498 del 1992, art. 9, commi e 2, di plurima retribuzione a carico del bilancio dello Stato (non essendo in tale condizione la Fondazione Accademia Santa Cecilia) e di esclusività del rapporto di lavoro, a garanzia della non concorrenza del lavoratore presso altri datori e di massima diligenza nella prestazione lavorativa (concretamente osservate da D.R. per le ragioni accertate);

e) la coerente applicazione della tutela reintegratoria prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, in ragione dell’inoperatività della disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 23 del 2015 e dell’irrilevanza disciplinare del fatto contestato.

Con atto notificato il 27 aprile 2018, la Fondazione ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui il lavoratore resisteva con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di nullità del ricorso, in quanto proposto da un avvocato del libero foro, anzichè dall’Avvocatura dello Stato, per l’assenza di una specifica deliberazione della Fondazione. Essa si fonda su un recente arresto di questa Corte (Cass. 21 novembre 2018, n. 30118), secondo cui le fondazioni liriche, sebbene trasformate in fondazioni di diritto privato, possono continuare, ai sensi del D.L. n. 345 del 2000, art. 1, comma 3, conv. dalla L. n. 6 del 2001, ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, configurandosi così un’ipotesi di “patrocinio autorizzato” per legge, a norma del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, come mod. dalla L. n. 103 del 1979, art. 11, con la conseguenza che, ove le fondazioni stesse, sempre a norma del citato art. 43, intendano in casi speciali non avvalersi della predetta Avvocatura, debbano adottare un’apposita deliberazione motivata da sottoporre agli organi di vigilanza.

1.1. L’eccezione è inammissibile.

Non può, infatti, essere trascurata la circostanza che nell’odierna controversia, al contrario che nel citato precedente (nel quale la questione era stata oggetto dei due motivi di gravame avverso la sentenza della Corte d’appello, che già aveva dichiarato inammissibile il ricorso della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova proprio sul rilievo della sua proposizione da un avvocato del libero foro e non dall’Avvocatura dello Stato, in assenza di una deliberazione della Fondazione in tale senso), la questione sia stata per la prima volta prospettata non nel controricorso ma soltanto nella memoria comunicata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Orbene, fermo il noto principio per cui anche le questioni rilevabili d’ufficio sono precluse in sede di legittimità laddove presuppongano accertamenti di fatto (da ultimo: Cass. 24 gennaio 2019, n. 2038), la mancata eccezione in controricorso ha sostanzialmente impedito al procuratore della Fondazione ricorrente la possibilità di contestarla, eventualmente depositando la relativa Delib. sottoposta agli organi di vigilanza ai sensi dell’art. 372 c.p.c., mediante elenco da notificare alle altre parti (Cass. 22 luglio 2005, n. 15498).

2. Ciò premesso, con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 1, comma 2, per la ravvisata inapplicabilità del nuovo regime del cd. “contratto a tutele crescenti” alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro a tempo determinato, per ritenuta nullità del termine, successiva, come nel caso di specie, alla data di sua entrata in vigore. A dire del ricorrente dovendosi fare riferimento, per la corretta individuazione della disciplina applicabile ratione temporis, al momento di emissione della sentenza di conversione e non della stipulazione dell’originario contratto di lavoro, secondo un’interpretazione in sede di legittimità già adottata in riferimento all’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, ed avuto anche riguardo all’ipotesi di conversione dell’apprendistato (qualora ritenuto illegittimo il recesso ad nutum al termine del periodo di formazione) in rapporto a tempo indeterminato, rispetto alla quale un tale rapporto sussiste fin dall’origine; con erroneità della supposta interpretazione costituzionalmente orientata della Corte di merito, in assenza di un eccesso di delega del D.Lgs. rispetto alla legge delega (per il riferimento della L. n. 183 del 2014, art. 1, comma 7, lett. c, soltanto alle “nuove assunzioni”) e della paventata irragionevolezza per disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., qualora sia adottata la patrocinata diversa interpretazione di applicabilità del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 1, comma 2.

3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, sull’assunto dell’operatività nel caso della disciplina del D.Lgs. n. 23 del 2015, la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 di detto D.Lgs., il quale esclude il rito speciale previsto per l’impugnativa dei licenziamenti dalla cd. “legge Fornero”.

4. Essi sono congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione e sono infondati.

4.1. Giunge all’esame di questa Corte la questione dell’interpretazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 1, comma 2.

Come noto, con la previsione contenuta nella L. n. 183 del 2014, art. 1, comma 7, lett. c), (in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonchè in particolare di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro) si delegava il Governo a prevedere, “per le nuove assunzioni”, l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, secondo la dichiarata finalità legislativa di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”.

In attuazione della delega, con il D.Lgs. n. 23 del 2015, è stato definito il campo applicativo per “i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 1, comma 1), ossia dal 7 marzo 2015.

Il successivo comma (secondo) dell’art. 1, sottoposto allo scrutinio della Corte in funzione nomofilattica, recita:

“Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.

4.2. Parte ricorrente sostiene che, in virtù di tale disposizione, si applichi il nuovo decreto anche alle ipotesi di contratti originariamente stipulati a tempo determinato prima dell’entrata in vigore di esso ma convertiti a tempo indeterminato mediante pronuncia giudiziale successiva al 7 marzo 2015.

L’assunto non può essere condiviso.

4.3. E’ certo che il Governo potesse adottare una innovativa disciplina di tutela per i licenziamenti illegittimi esclusivamente in esecuzione di una delega parlamentare che la prevedeva, come detto, “per i nuovi assunti”.

Giova pure rammentare come, in funzione incentivante di tali nuove assunzioni “al fine di promuovere forme di occupazione stabile”, siano stati introdotti dalla legge di stabilità per l’anno 2015 sgravi contributivi, per un periodo massimo di trentasei mesi (L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 118).

Orbene, i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs., con rapporto di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato solo successivamente a tale decreto in alcun modo possono essere considerati “nuovi assunti”.

4.4. Infatti occorre ribadire che, in tema di contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, ha natura dichiarativa e non costitutiva. Da tale affermazione consegue quella del coerente effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto a termine (Cass. 26 marzo 2019, n. 8385). Con tale pronuncia questa Corte ha quindi ritenuto definitivamente fugati dalla sentenza della Corte costituzionale 8 luglio 2014, n. 226 (di infondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, come interpretato autenticamente dalla L. n. 92 del 2012, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione alla clausola 8.3 dell’Accordo Quadro Europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE) i dubbi interpretativi insorti in ordine alla locuzione “ricostituzione del rapporto di lavoro”, secondo i quali il legislatore avrebbe accreditato la tesi secondo cui la conversione del rapporto operasse ex nunc e non ex tunc (p.to 8 in motivazione Cass. n. 8385/2019 cit.).

4.5. Pertanto, sulla base di una corretta lettura tecnico-giuridica dell’espressione “conversione”, utilizzata in dottrina ed in giurisprudenza per descrivere il meccanismo secondo cui la nullità della clausola di apposizione del termine non comporta la nullità dell’intero contratto, in ossequio al principio di conservazione del negozio giuridico, ma la sua elisione a norma dell’art. 1419 c.c., comma 2, con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 15 maggio 2018, n. 11830), occorre operare un’interpretazione della norma in esame che sia rigorosamente circoscritta alle ipotesi tassativamente stabilite, al fine di assicurare il rispetto dei limiti della delega: diversamente prospettandosi un vizio di illegittimità costituzionale per eccesso, in violazione degli artt. 76 e 77 Cost..

4.6. Cade allora opportuno richiamare la qualificazione dell’eccesso di delega alla stregua di “figura comprensiva della mancanza, anche parziale, di delegazione… uso del potere normativo da parte del Governo oltre il termine fissato, ovvero in contrasto con i predeterminati criteri direttivi o per uno scopo estraneo a quello per cui la funzione legislativa fu delegata” (Corte Cost. 26 gennaio 1957, n. 3). E così pure come, secondo la giurisprudenza costituzionale, “il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante, richied(a) “un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alla norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega”, nel senso che “il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge-delega ed i relativi principi e criteri direttivi, nonchè delle finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima”; l’altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi”, nel senso che “la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega” alla luce del”la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente”, non ostando “l’art. 76 Cost…. all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poichè deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo… nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (Corte Cost. 11 aprile 2008, n. 98).

4.7. Il rispetto del suddetto limite esige allora siccome doverosa, quando sia possibile senza prospettare una questione di illegittimità costituzionale, un’interpretazione costituzionalmente orientata (Corte Cost. 22 febbraio 2017, n. 58): nel senso che “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perchè è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perchè è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (Corte Cost. 22 ottobre 1996, n. 356); così che “eventuali residue incertezze di lettura sono destinate a dissolversi una volta che si sia adottato, quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che rende la disposizione conforme a Costituzione” (Corte Cost. 14 novembre 2003, n. 198, richiamata da Cass. 17 luglio 2015, n. 15083).

4.8. Inoltre, deve essere pure sottolineato come la diversa interpretazione, secondo la quale la conversione in esame sarebbe soggetta al nuovo regime introdotto dal c.d. Jobs act, comporterebbe un’evidente quanto irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione ma con la conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data. Ed infatti, lavoratori nelle stesse condizioni temporali di assunzione (a tempo determinato) e di conversione del rapporto di lavoro subordinato (a tempo indeterminato, per nullità del termine) sarebbero soggetti a regimi di tutela sensibilmente diversi: quelli “convertiti” prima del 7 marzo 2015, al regime cd. Fornero; quelli “convertiti” dopo, al regime del c.d. Jobs act.

Nè una tale situazione sarebbe imputabile ad una mera successione di leggi nel tempo, comportanti diversi regimi di trattamento in dipendenza di scelte del legislatore, ma piuttosto ad un criterio di applicazione di un regime che può essere letto in modo uniforme, reso invece disparitario da un’operazione dell’interprete neppure corretta, per le ragioni innanzi dette.

Sicchè, la disomogeneità di trattamento non sarebbe giustificabile con il richiamo del noto principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale (recentemente richiamato anche dalla sentenza 8 novembre 2018, n. 194, al p.to 6. del Considerato in diritto), secondo cui “non contrasta, di per sè, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poichè il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” (Corte Cost. 13 novembre 2014, n. 254, al p.to 3. del Considerato in diritto, con richiamo delle ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008), posto che spetta “alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme” (Corte Cost. 23 maggio 2018, n. 104, al p.to 7.1. del Considerato in diritto, con richiamo delle sentenze n. 273 del 2011 e n. 94 del 2009).

4.9. Alla luce dei superiori chiarimenti ermeneutici, al fine di ascrivere alla disposizione in discorso un significato nè pleonastico, nè tanto meno irrilevante nella sua portata precettiva, occorre allora individuare quelle ipotesi di contratti a termine stipulati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23 del 2015, che si convertano in contratti a tempo indeterminato dopo tale data, in una corretta equiparazione alle nuove assunzioni non lesiva del principio di parità di trattamento.

Tra esse sicuramente rientrano quelle di conversione volontaria (idest: trasformazione, ma il termine “conversione” è impiegato anche in riferimento al contratto nullo: art. 1424 c.c.), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all’entrata in vigore del decreto, con effetto novativo.

Ma anche le ipotesi di conversione giudiziale di contratti a termine stipulati anteriormente al D.Lgs. n. 23 del 2015, ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata in vigore, perchè successivo è il vizio che li colpisce, quali:

a) la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 2 (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di venti, anzichè di trenta giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa considerandosi “il contratto… a tempo indeterminato”);

b) la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 3, qualora il secondo contratto (che “si considera a tempo indeterminato”) sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015;

c) il superamento “per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore… complessivamente” dei “trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicchè “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato” (art. 5, comma 4 bis), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015 (Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374, p.ti da 54 a 59 in motivazione, ad illustrazione delle suddette ipotesi ed in particolare di quest’ultima, debitamente differenziata, proprio in merito alla diversa decorrenza rispetto a quella di successione di contratti a termine senza soluzione di continuità, prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 4, per escluderne il contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n. 1999/70/CE).

4.10. Si può allora concludere che la conversione a tempo indeterminato del contratto a termine stipulato tra le parti (in data 27 novembre 1999, secondo l’indicazione al p.to 3.1. di pg. 3 del ricorso, diversa da quella del 1 dicembre 2011, invece indicata a pg. 1 della memoria finale della stessa ricorrente: con incongruenza comunque irrilevante per l’anteriorità in ogni caso della data di conversione al 7 marzo 2015), per effetto della sua nullità accertata con sentenza 5 maggio 2016 della Corte d’appello di Roma, si configura come un patto modificativo (avente ad oggetto la clausola relativa al termine finale) di un rapporto di lavoro già instaurato e convertito prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23 del 2015, con la conseguente inapplicabilità del suo regime di tutela.

4.11. Le ragioni argomentative svolte illustrano la corretta, in quanto naturale, applicabilità del regime, oltre che di tutela stabilito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, anche del rito processuale cd. Fornero.

5. Esse comportano pure l’assorbimento del terzo motivo, con il quale la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgd. n. 23 del 2015, art. 3, D.Lgs. n. 64 del 2010, art. 3 e L. n. 498 del 1992, art. 9, comma 1, per erronea applicazione della tutela reintegratoria, tenuto conto della sua previsione, a mente della prima norma denunciata, nelle sole “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, per l’esistenza del fatto nella sua materialità e l’esclusione di ogni legittima valutazione di proporzionalità.

6. Con il quarto motivo, la ricorrente Fondazione deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, per erronea applicazione della tutela reintegratoria per la sussistenza del fatto nella sua materialità e antigiuridicità e l’assenza di ipotesi nè nel CCNL applicato (segnatamente art. 33), nè nel Codice etico di alcuna sanzione conservativa per lo specifico comportamento tenuto dal lavoratore.

6.1. Anch’esso è infondato.

6.2. Secondo un insegnamento di legittimità, ormai consolidato, l’insussistenza del fatto contestato, alla stregua della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità (Cass. 20 settembre 2016, n. 18418; Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

6.3. La Corte territoriale ha fatto una corretta applicazione del suenunciato principio, avendo accertato nel caso di specie, con apprezzamento di fatto non rivedibile in questa sede di legittimità, la totale assenza di offensività del fatto, per la natura di falso innocuo del comportamento contestato al lavoratore (al p.to 3.3. di pg. 10 della sentenza), pertanto “tale da ritenere giuridicamente lecito” (al p.to 3.6. di pg. 13 della sentenza). Essa non ha dunque ravvisato una mancanza di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato, così da porre eventualmente una questione di applicazione del quinto, piuttosto che dell’art. 18 cit., comma 4 (Cass. 25 maggio 2017, n. 13178; Cass. 16 luglio 2018, n. 18823; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25534), quanto piuttosto una irrilevanza disciplinare dell’addebito.

Eppure, la doglianza si è incentrata sul profilo di proporzionalità estraneo al ragionamento della Corte nella (non già selezione, ma) esclusione della tutela, senza punto censurare la ritenuta irrilevanza disciplinare della fattispecie (per le ragioni svolte, oltre che al già citato p.to 3.3., anche al p.to 3.4.di pgg. da 10 a 12 della sentenza).

7. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la compensazione delle spese del giudizio per la novità della questione trattata; e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

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