Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.943 del 17/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5224/2013 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

S.T.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via R.

Grazioli Lante, presso lo studio dell’Avv. Domenico Bonaiuti, rappresentata e difesa dall’Avv. Roberto Delfino e dall’Avv. Paola Gambaro, in virtù di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria, n. 112/2011, depositata il 29 dicembre 2011.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21 novembre 2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale della Liguria accoglieva l’appello proposto da S.T.S. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Genova, che aveva rigettato il ricorso della contribuente contro gli avvisi di accertamento emessi dalla Agenzia delle entrate, con accertamento sintetico, per gli anni 2002, 2003 e 2004, in relazione all’acquisto nel 2003 da parte della contribuente di una autovettura Opel per Euro 12.000,00. Il giudice di appello rileva che la ricorrente aveva fornito la prova contraria, dimostrando la disponibilità di risorse finanziarie derivanti da vendite di quote di immobili di provenienze ereditaria nel 1999, nel 2002 e nel 2003, oltre che dalla richiesta di finanziamento a Opel Credit per Euro 23.001,00 e dagli accrediti mensili della madre pari ad Euro 400,00. La Commissione regionale rilevava che non era conferente l’osservazione dell’Ufficio in ordine alla prova della destinazione di tali risorse, in quanto “la contribuente ne poteva liberamente disporre”.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resiste con controricorso la contribuente, depositando anche memoria scritta.

CONSIDERATO

che:

1. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce “violazione o falsa applicazione dell’art. 38, commi 4, 5 e 6, del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 2697 c.c., anche in combinato disposto tra loro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto superata la presunzione a carico della contribuente da una prova contraria, che la parte, in realtà, non ha mai fornito. La contribuente, infatti, non ha mai provato di avere utilizzato i proventi derivanti dallo smobilizzo patrimoniale degli immobili pervenutile da successione ereditaria. La contribuente si è limitata a fornire solo la prova della disponibilità di quei proventi, ma non già dell’impiego degli stessi, probabilmente reinvestiti.

1.1. Tale motivo è fondato.

1.2. Il motivo è ammissibile, in quanto non chiede una nuova valutazione in questa sede degli elementi istruttori, già valutati dal primo giudice, ma si incentra sulla violazione di legge, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 ed all’art. 2697 c.c., in riferimento all’assolvimento dell’onere della prova contraria a carico della contribuente.

1.3. Invero, il giudice di appello ha erroneamente affermato che “non appare conferente l’osservazione dell’Ufficio laddove osserva che non risulta quale destinazione abbiano avuto le somme ricavate dalle vendite, atteso che la contribuente ne poteva disporre liberamente”.

Tuttavia, la dimostrazione da parte della contribuente della disponibilità delle somme non è sufficiente ad integrare la prova contraria, posta a carico del contribuente dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38.

1.4. Infatti, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5, vigente all’epoca, dispone che “L’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dall’art. 39, commi precedenti, può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato. A tal fine, con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, sono stabilite le modalità in base alle quali l’ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi indicativi di capacità contributiva individuati con lo stesso decreto, quando il reddito dichiarato non risulta congruo rispetto ai predetti elementi per due o più periodi di imposta. Qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti. Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

1.5. L’oggetto della prova contraria a carico del contribuente riguarda, dunque, da un canto, la disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte) e, dall’altro, l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire (Cass. 20 gennaio 2017, n. 1510, Cass. 16 luglio 2015, n. 14885, Cass. 18 aprile 2014, n. 8995, Cass. 26 novembre 2014, n. 25104), pur non prevedendosi esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, si chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). Lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) della entità di tali eventuali redditi e della “durata” del relativo possesso, va letto, quindi, nel senso che la norma intende opportunamente ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità dei redditi medesimi al fine di ricollegarvi la maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente, escludendo quindi che possano utilizzarsi per finalità non considerate in tema di accertamento sintetico, come per un ulteriore investimento finanziario. In tale ultima ipotesi, infatti, tali ulteriori redditi non sarebbero utili a giustificare le spese o il tenore di vita accertati, che dovrebbero ascriversi, quindi, a redditi non dichiarati.

1.6. Va chiarito, però, che la prova di cui è onerato il contribuente non è tipizzata, sicchè può essere data con qualsiasi mezzo idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale dell’elemento accertato dal fisco, e la durata del relativo possesso, tanto che neppure rileva l’eventuale nullità dell’atto dal punto di vista civilistico. Ed infatti, proprio in base a tale premessa, nella giurisprudenza di questa Corte è stata ritenuta prova idonea e sufficiente la documentazione bancaria rappresentativa della “sequenza temporale dell’operazione di accredito e poi di quella di addebito degli assegni circolari utilizzati per l’acquisto” (Cass. 22 marzo 2017, n. 7258); o l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari intestati al contribuente in grado di dimostrare l’entità e la durata del possesso dei redditi, non il loro semplice “transito” nella di lui disponibilità del contribuente (Cass., n. 12214/2017; vedi anche Cass., 16 maggio 2018, n. 12026 e Cass., 23 marzo 2018, n. 7389).

1.7. La Commissione regionale, nella fattispecie in esame, non ha fatto corretta applicazione di tali principi di elaborazione giurisprudenziale di legittimità, in quanto, come rilevato dalla Agenzia delle entrate ricorrente, si è limitata a prendere atto della disponibilità di somme di denaro da parte della contribuente, provenienti dalla dismissione di cespiti ereditari nel corso degli anni, senza però valutare la “durata” del loro possesso dal parte della stessa, in base a documenti dai quali potessero emergere elementi sintomatici del fatto che tali somme fossero state utilizzate per sostenere le spese contestate.

2. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria della Liguria, in diversa composizione, che si adeguerà al seguente principio di diritto: “in tema di accertamento dei redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alle spese per incrementi patrimoniali, il contribuente è onerato della prova contraria in ordine sia alla disponibilità di detti rediti che all’entità degli stessi ed alla durata del loro possesso, sicchè sebbene non debba dimostrarne l’utilizzo per sostenere le spese contestate, è tenuto a produrre documenti dai quali emergano elementi sintomatici del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere”, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità”.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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