LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 552/2020 proposto da:
O.B., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CAMILLA ZAMPARINI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 1958/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 19/06/2019 R.G.N. 3466/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/09/2020 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;
Il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, ha depositato conclusioni scritte.
RILEVATO
Che:
1. con sentenza 19 giugno 2019, la Corte d’appello di Bologna rigettava la domanda di protezione internazionale proposta da O.B., cittadina *****: così riformando la sentenza di primo grado, che ne aveva invece riconosciuto lo status di rifugiata, nella ritenuta sussistenza dei presupposti stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e), in riferimento al timore di persecuzioni dirette e personali, in quanto giunta in Italia per sfuggire alla soggezione alla tratta delle donne per la prostituzione, nella ricorrenza di un suo grave pregiudizio in caso di ritorno nel Paese d’origine, in assenza di legami familiari;
2. contrariamente al Tribunale, la Corte territoriale escludeva, in assenza di documenti d’identità, la sicura provenienza della richiedente dalla Nigeria e la sua credibilità, per l’intrinseca contraddittorietà della vicenda narrata (non apparendo in particolare verosimile la sua agevole sottrazione dai trafficanti in Libia e l’approdo in Italia senza pagare nulla), non essendone stata chiarita l’effettiva costrizione all’esercizio della prostituzione ovvero una sua scelta in tale senso per ragioni di sopravvivenza economica: neppure la condizione di prostituta straniera integrando un presupposto per il rilascio di un permesso di soggiorno umanitario, piuttosto condizionato, a norma del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 18, ad un contributo della straniera al contrasto efficace dell’organizzazione criminale o alla individuazione o cattura dei responsabili delle attività di commercio di esseri umani;
3. nè, infine, essa ravvisava idoneo il richiamo alla situazione generale del Paese d’origine, in carenza di prova di una persecuzione diretta, grave e personale della donna: neppure ritenuta in particolare condizione di vulnerabilità, ai fini delle subordinate protezioni sussidiaria ed umanitaria;
4. con atto notificato il 19 (27) dicembre 2019, la straniera ricorreva per cassazione con cinque motivi; il Ministero dell’Interno non resisteva con controricorso, ma depositava atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, ult. alinea, cui non faceva seguito alcuna attività difensiva;
4. il P.G. rassegnava le proprie conclusioni, ai sensi dell’art. 380 bis, 1 c.p.c..
CONSIDERATO
Che:
1. la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in riferimento alla “sottrazione di ogni documento idoneo a rintracciare l’identità della persona trafficata” e all’effettuazione del viaggio “senza pagare alcunchè”, oggetto di argomentata esposizione in comparsa di risposta in appello della straniera, a fini di specificazione del carattere tipico della tratta di esseri umani (primo motivo);
2. il motivo è fondato;
3. la Corte territoriale ha, in effetti, omesso l’esame del fatto storico di sottrazione dei documenti di identità e di viaggio “gratuito”, specificamente individuati nel “dato”, testuale o extratestuale, da cui essi risultano, nel “come” e “quando” siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro “decisività” (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 11 aprile 2017, n. 9253): per la puntuale indicazione (al penultimo capoverso di pg. 13 del ricorso) di averli allegati nella comparsa di risposta in appello e la decisività del loro carattere, nel senso che, se esaminati, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415), in riferimento alla giustificazione della mancanza di conoscenza delle generalità della straniera richiedente e pertanto della sua effettiva cittadinanza e provenienza nigeriana (di cui esclusa la prova: al primo capoverso di pg. 3 della sentenza) e della sua credibilità in merito alla vicenda di tratta raccontata (negata agli ultimi tre capoversi di pg. 3 della sentenza);
4. la ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1 lett. e), D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. da 1 a 7 e art. 11, coordinate con le norme di diritto nazionale ed internazionale, in materia di tratta di esseri umani, del D.Lgs. n. 24 del 2014, del D.Lgs. n. 142 del 2015, del Protocollo ONU contro la tratta, della Convenzione di Istambul del 2011, della Carta dei diritti fondamentali e della Direttiva 2011/36/UE, per la mancata utilizzazione dalla Corte territoriale del suddetto quadro normativo, in funzione di una corretta lettura della credibilità della richiedente, vittima di tratta e pertanto rientrante nella nozione di rifugiata, siccome attinta dal fondato timore di essere perseguitata per la sua “appartenenza ad un particolare gruppo sociale”, ben individuabile in quello di genere (femminile), oggetto di discriminazioni concretizzantisi in soprusi, molestie, violenze, anche sessuali, in danno delle donne (secondo motivo);
5. anch’esso è fondato;
6. lo status di rifugiato può essere riconosciuto dallo Stato ad un cittadino straniero, che, per il timore fondato di essere perseguitato, con atti di persecuzione sufficientemente gravi anche di violenza fisica o psichica e compresa la violenza sessuale, in particolare per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trovi fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 1, lett. e, f, art. 7, commi 1 e 2, lett. a, art. 11);
6.1. deve poi essere riconosciuta la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, per tale dovendosi intendere qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisca le donne in modo sproporzionato (Preambolo e art. 3, lett. d Convenzione Istanbul 11 maggio 2011); così che le Parti ad essa aderenti, tra cui l’Italia, si sono impegnate ad adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’art. 1 sez. A n. 2 della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare o sussidiaria (art. 60, comma 1), pure accertandosi che un’interpretazione sensibile al genere sia applicata a ciascuno dei motivi della Convenzione, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione sia basato su uno o più di tali motivi, sia concesso ai richiedenti asilo lo status di rifugiato, in funzione degli strumenti pertinenti applicabili (art. 60, comma 2); avendo poi essa altresì stabilito la modulazione delle misure di accoglienza espressamente previste, secondo la specifica situazione delle persone vulnerabili, tra le quali le vittime della tratta di esseri umani… (D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 17, comma 1) e l’applicazione ai richiedenti protezione internazionale identificati come vittime della tratta di esseri umani il programma unico di emersione, assistenza e integrazione sociale previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 18, comma 3 bis (art. 17, comma 2 D.Lgs. cit.);
6.2. questa Corte ha chiarito che requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza a un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate; e che il relativo onere probatorio, più attenuato in funzione dell’intensità della persecuzione, incombe sull’istante, per il quale è tuttavia sufficiente dimostrare, anche in via indiziaria, la “credibilità” dei fatti allegati, i quali, peraltro, devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza (Cass. 11 luglio 2016, n. 14157; Cass. 27 novembre 2019, n. 30969; Cass. 24 giugno 2020, n. 12514);
6.3. in tale prospettiva, in tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c) D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritenga sussistere l’accadimento: dovendo l’autorità amministrativa e il giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale (Cass. 14 novembre 2017, n. 26921; Cass. 10 giugno 2020, n. 11170), con particolare approfondimento nelle ipotesi di più violenta aggressione della libertà e della dignità della donna, come nel caso in questione, di “vendita” della richiedente, di per sè integrante un trattamento di tipo schiavistico, esigente l’assunzione di specifiche informazioni sulla situazione delle donne nigeriane, anche considerato che spesso le vittime di tratta non denunciano le violenze subite per timore di ritorsioni (Cass. 14 novembre 2019, n. 29603);
6.4. la Corte felsinea, nella valutazione di credibilità della richiedente in un ambito tanto delicato e peculiarmente connotato come quello in esame, non si è attenuta a criteri coerenti con i principi di diritto enucleati dal quadro normativo come sopra ricostruito, così disattendendoli;
7. la fondatezza dei precedenti mezzi assorbe l’esame dei residui: violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17, per la condizione della richiedente di esposizione al pericolo di un grave danno, a causa del rischio elevatissimo di vendetta violenta in caso di rimpatrio, integrante presupposto di concessione della protezione sussidiaria (terzo motivo); violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 18, per la concedibilità di un permesso di soggiorno alle vittime di violenza o grave sfruttamento per sottrarsi alla violenza o ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale, senza obbligo di denuncia o di collaborazione con l’autorità giudiziaria (quarto motivo); violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, per la concedibilità della protezione umanitaria alla straniera, in condizione di vulnerabilità, a causa dell’esposizione, in caso di rientro nel Paese d’origine, alla grave compromissione dei suoi diritti fondamentali (quinto motivo);
8. pertanto i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, con assorbimento degli altri, cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 9 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2021