LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13076/2019 proposto da:
M.Z., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALBERICO II n. 4, presso lo studio dell’avvocato MARIO ANTONIO ANGELELLI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1810/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 16/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
FATTI DI CAUSA
Con ordinanza del 28.7.2015 il Tribunale di Catanzaro rigettava il ricorso avverso il provvedimento emesso il 6.5.2014 e notificato il 14.5.2014, con il quale la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale aveva respinto la domanda di M.Z. volta al riconoscimento della protezione, internazionale o umanitaria.
Interponeva appello il M. e la Corte di Appello di Catanzaro, con la sentenza oggi impugnata, n. 1810 del 2018, rigettava il gravame.
Propone ricorso per la cassazione di tale decisione M.Z. affidandosi a cinque motivi.
Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta: da un lato, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte territoriale avrebbe valutato la storia personale del richiedente senza applicare il principio dell’onere probatorio attenuato; e, dall’altro lato, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e art. 14, lett. a) e b) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perchè il giudice di secondo grado avrebbe omesso di svolgere un ruolo attivo nell’esame della domanda di protezione.
La censura, nelle sue diverse articolazioni, è inammissibile. La sentenza indica, a pag. 6, le varie contraddizioni in cui è incorso il richiedente, e la censura non attinge in modo adeguato questo passaggio della motivazione.
In dettaglio, il M. dichiara di aver dedotto di esser stato coinvolto in una aggressione all’uscita da un bar; di esser stato accusato di lesioni gravi ad uno dei rissanti; di aver subito, per tale motivo, una condanna a dieci anni di carcere; di aver, infine, ricevuto la chiamata alla leva militare (cfr. pag. 4 del ricorso). La Corte calabrese, dopo aver evidenziato talune contraddizioni nella storia – che solo in parte vengono attinte dal motivo in esame – ritiene la storia, oltrechè non credibile, anche non idonea ai fini del riconoscimento dello status e della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), poichè il M. non aveva allegato alcun fatto di persecuzione, ma soltanto il timore di subire una condanna ingiusta, in relazione alla quale, tuttavia, egli conservava il diritto di proporre appello, sia in considerazione della sua innocenza, sia grazie alla presenza di testimoni in grado di scagionarlo (cfr. pag. 7 della sentenza). Quanto poi al timore di dover assolvere l’obbligo di leva, la Corte di merito ritiene che neppure questo fatto possa rilevare ai fini del riconoscimento della protezione invocata (cfr. ancora pag. 7).
In presenza di una duplice ratio, di non credibilità e non idoneità della storia, il ricorrente aveva l’onere di non limitare la contestazione al solo giudizio di non credibilità, ma doveva estenderla anche alla ritenuta non idoneità del racconto. In difetto, il motivo va ritenuto inammissibile poichè la seconda ratio, non attinta dalla censura, è comunque sufficiente ad assicurare la stabilità della decisione impugnata.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare la situazione di instabilità politica, di mancato rispetto delle libertà democratiche e dei diritti civili esistente in Turchia.
La censura è inammissibile. La Corte catanzarese esamina il contesto interno della Turchia (cfr. pag. 9 della sentenza), avendo cura di indicare le fonti internazionali consultate e le specifiche informazioni da esse tratte, assicurando così alle parti la possibilità di verificare, in concreto, la pertinenza e la specificità di dette informazioni rispetto alla situazione effettiva del Paese di provenienza, nel rispetto della previsione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, che 2008 impone al giudice di esaminare la domanda di protezione internazionale “… alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13449 del 17/05/2019, Rv. 653887; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13897 del 22/05/2019, Rv. 654174; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9230 del 20/05/2020, Rv. 657701; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13255 del 30/06/2020, Rv. 658130).
Il ricorrente – che a pag. 16 del ricorso fa riferimento, con un evidente errore materiale, alla situazione in Senegal – non indica neppure, nella censura in esame, fonti informative alternative a quelle richiamate dal giudice di merito, e dunque non assolve l’onere di specificità che è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte. Sul tema, va invero ribadito che “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 26728 del 21/10/2019, Rv. 655559). Ove manchi tale specifica allegazione, è precluso a questa Corte procedere ad una revisione della valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito. Solo laddove nel motivo di censura vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il predetto giudice ha deciso siano state effettivamente superate da altre e più aggiornate fonti qualificate, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede.
In definitiva, va data continuità al principio secondo cui “In tema di protezione internazionale, il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive fonti qualificate” (v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4037 del 18/02/2020, Rv. 657062).
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 8 della Convenzione E.D.U., del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza valutare in alcun modo la condizione di vulnerabilità del richiedente in relazione alla storia da quegli riferita e alla situazione di violazione dei diritti umani esistente in Turchia.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta l’apparenza della motivazione relativa al rigetto della protezione umanitaria, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Le due censure, che meritano un esame congiunto perchè attengono entrambe alla sussistenza di profili di vulnerabilità, sono inammissibili. La Corte calabrese ha ritenuto che dal racconto del M. non emergano profili idonei a dimostrare una sua vulnerabilità, nè in relazione alle condizioni di sicurezza del Paese di provenienza, nè con riferimento alla sua integrazione in Italia, escludendo quindi, all’esito della valutazione comparativa richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298) che il ricorrente possa essere esposto, in caso di rientro in patria, al rischio di subire lesioni al nucleo inalienabile dei suoi diritti fondamentali. Nell’ambito di tale apprezzamento il giudice di merito ha affermato che il richiedente non aveva allegato un idoneo percorso di integrazione in Italia (cfr. pag. 12 della sentenza). Il richiedente contesta solo genericamente tale passaggio motivazionale, limitandosi a sostenere di aver “… ampiamente documentato nel Giudizio di Primo Grado ed in Appello…” di aver appreso la lingua italiana ed “… intrapreso un percorso di integrazione in Italia estremamente virtuoso e proficuo, anche sotto il profilo dell’acquisizione di competenze professionali” (cfr. pag. 23 del ricorso), ma non indica nè quando, nè come, i predetti elementi di integrazione sarebbero stati dimostrati nel corso del giudizio di merito, nè specifica alcun dettaglio del percorso di inserimento che egli avrebbe sostenuto. Sotto questo profilo, la censura difetta quindi della necessaria specificità e si risolve nella mera critica della valutazione di fatto operata dal giudice di merito.
Con il quinto ed ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il giudice di merito rifiutato lo status di rifugiato ad un soggetto nel cui Paese di origine non è assicurato il rispetto delle libertà democratiche.
La censura è inammissibile. La giurisprudenza consolidata di questa Corte considera infatti che la protezione internazionale, articolata nelle forme dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e la protezione umanitaria esauriscano l’ambito di efficacia del diritto di asilo, escludendo, così, la configurabilità di un autonomo diritto di “asilo costituzionale” ex art. 10 Cost. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18940 del 01/09/2006, Rv. 591592; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 10686 del 26/06/2012, Rv. 623092; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16362 del 04/08/2016, Rv. 641324; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 2682 del 05/02/2018, non massimata; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 11110 del 19/04/2019, Rv. 653482).
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021