Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.132 del 08/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11900/2019 proposto da:

B.U., rappresentato e difeso dall’avv. PAOLA CHIANDOTTO, e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 107/2019 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 05/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/11/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza del 22.2.2018 il Tribunale di Trieste rigettava il ricorso proposto da B.U. avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con il quale era stata respinta la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

Interponeva appello il B. e la Corte di Appello di Trieste, con la sentenza impugnata, n. 107/2019, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione B.U. affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, ha depositato memoria ai fini della partecipazione all’udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,8,11 e 12, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonchè il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente valutato la sua storia personale, riducendola a fatto meramente privato.

La censura è inammissibile. Il richiedente aveva riferito di aver facilitato, con la propria testimonianza, la cattura di alcuni terroristi talebani, e di esser poi fuggito dal Pakistan, suo Paese di origine, per timore di ritorsioni. La Corte di Appello ha effettivamente errato nello svalutare la storia a fatto meramente privato: l’aver testimoniato in danno di alcuni terroristi, invero, e di temere per ciò solo la ritorsione del gruppo cui essi appartenevano, costituisce circostanza certamente idonea a dimostrare quantomeno un profilo di insufficienza della tutela approntata dall’apparato statale pakistano ai cittadini che, nel corretto adempimento dei propri doveri civici, cooperano con le forze dell’ordine per arginare i fenomeni criminosi. Tuttavia, la censura non appare sufficientemente specifica, sul punto, poichè il ricorrente si limita a proporre una serie di considerazioni astratte in relazione alla presenza di infiltrazioni talebane in Pakistan, ma non allega nulla di preciso in relazione al fatto storico che costituiva l’oggetto del suo racconto personale. Sotto questo profilo, pertanto, la doglianza si risolve in una inammissibile istanza di riesame del giudizio di fatto condotto dal giudice di merito.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 14, 17, ed D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo, perchè la Corte friulana avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento della protezione sussidiaria, in particolare alla luce della condizione di violenza e pericolo generalizzato esistente in Pakistan. La censura è inammissibile. La Corte territoriale esamina il contesto interno del Pakistan, indicando di aver consultato il rapporto informativo promanante dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo (cfr. pag. 6 della sentenza). Risulta di conseguenza rispettato il precetto stabilito dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, che impone al giudice di esaminare la domanda di protezione internazionale “… alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che dette informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art. 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”. La Commissione nazionale, infatti, è per precisa disposizione normativa l’organo deputato ad assicurare che le fonti informative aggiornate sui vari Paesi di provenienza dei migranti siano rese disponibili alle Commissioni territoriali che devono istruire e valutare le relative istanze di protezione.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, perchè la Corte triestina avrebbe erroneamente denegato anche il riconoscimento della protezione umanitaria.

La censura è inammissibile. La Corte di Appello dà atto che il richiedente non aveva documentato alcuna idonea forma di integrazione nel tessuto socio-ecomomico italiano e, quindi, alcun profilo di vulnerabilità. La censura si limita a contrapporre a tale statuizione la generica deduzione che il B. avrebbe ottenuto due proroghe al proprio contratto di lavoro, fino a dicembre 2019 (cfr. pag. 12 del ricorso), senza tuttavia aver cura di specificare di quale tipologia di rapporto di lavoro di tratti, quando esso abbia avuto inizio, quali siano le sue caratteristiche essenziali (durata, natura, retribuzione, ecc.), nè in quali termini il richiedente si sarebbe inserito nella comunità locale. Va ribadito, sul punto, che ai fini della concessione della tutela umanitaria il richiedente deve dimostrare di essere esposto, in caso di rimpatrio, al rischio di subire una lesione al nucleo ineludibile dei suoi diritti fondamentali, nella declinazione che di tale concetto è stata affermata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U., Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471). Tale valutazione si articola in un procedimento complesso, che parte dall’esame del contesto interno esistente nel Paese di origine del richiedente, prende in considerazione il suo livello di integrazione socio-lavorativa in Italia ed apprezza, alla luce di tali elementi, il rischio di compromissione dei suoi diritti umani che potrebbe derivare da un eventuale rimpatrio. L’integrazione, pertanto, deve essere documentata in modo preciso e, comunque, non esaurisce l’ambito della complessa ed articolata valutazione demandata al giudice di merito. Poichè nel caso specifico il ricorrente non indica in modo preciso alcun elemento concreto che il giudice di merito non avrebbe considerato o avrebbe considerato in modo non corretto, la doglianza non appare assistita dal necessario grado di specificità.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile. Nulla per le spese, in assenza di notificazione di controricorso da parte del Ministero intimato nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021

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