Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.134 del 08/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14107/2019 proposto da:

A.K., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL CASALE STROZZI n. 31, presso lo studio dell’avvocato LAURA BARBERIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BARBARA VIDOTTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 184/2019 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 25/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/11/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza del 18.9.2017 il Tribunale di Trieste rigettava il ricorso proposto da A.K., avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con il quale era stata respinta la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

Interponeva appello l’ A. e la Corte di Appello di Trieste, con la sentenza impugnata, n. 184/2019, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione A.K. affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perchè la Corte di Appello avrebbe omesso di rilevare che l’audizione svolta dinanzi la Commissione territoriale si era svolta in lingua inglese, e non nella sua lingua *****. Ad avviso del richiedente, la circostanza sarebbe decisiva perchè egli parla solo poco l’inglese e non sarebbe, quindi, stato in grado di esporre in modo compiuto e completo i termini della propria storia personale.

La censura è inammissibile. La questione non emerge dalla lettura della sentenza impugnata ed il ricorrente non specifica di averla dedotta nei precedenti gradi di giudizio: di conseguenza, si tratta di argomento nuovo.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione ed errata interpretazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7,8 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 2, 27 e 29, perchè la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto non credibile il suo racconto.

La censura è inammissibile. La Corte di Appello dà atto che il richiedente aveva riferito di essere fuggito dalla Nigeria, suo Paese di origine, perchè minacciato di morte dalla famiglia di un amico che era rimasto ucciso nel corso di una battuta di caccia (cfr. pag. 6 della sentenza). Nel ricorso, il ricorrente aggiunge anche l’ulteriore circostanza relativa al suo rifiuto di affiliarsi ad una setta, senza tuttavia curarsi di mettere in adeguato rapporto tale nuovo elemento – che non risulta dalla decisione impugnata – con il resto della storia personale. In ogni caso, la Corte di Appello afferma che l’appellante avrebbe lamentato solo genericamente l’erroneità della decisione di prima istanza, “… senza, dunque, adeguatamente contrastare l’argomentazione del Tribunale…” che aveva ritenuto inattendibile la storia (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata). La censura in esame non si confronta in modo adeguato con tale statuizione, poichè il ricorrente non dimostra di aver proposto in sede di appello una adeguata critica alla motivazione adottata dal Tribunale per pervenire al rigetto della sua domanda di protezione. In proposito, va ribadito che “La Corte di Cassazione, allorquando debba accertare se il giudice di merito sia incorso in error in procedendo, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, nè potendo la Corte ricercare e verificare autonomamente i documenti interessati dall’accertamento, è necessario che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l’emenda dell’errore denunciato” (Cass. Sez. U., Sentenza n. 20181 del 25/07/2019, Rv. 654876; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2771 del 02/02/2017, Rv. 643715 e Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1170 del 23/01/2004, Rv. 569603). Ne deriva che era onere del ricorrente riprodurre nel motivo in esame, almeno per sommi capi, le doglianze che egli aveva prospettato in appello, al fine di confrontarsi con il giudizio di non idoneità e genericità che è stato formulato dal giudice di seconda istanza. In assenza, la censura è generica e non supera il vaglio di ammissibilità.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, perchè la Corte friulana avrebbe erroneamente denegato anche il riconoscimento della protezione umanitaria.

La censura è inammissibile. La Corte di Appello ha ritenuto che il ricorrente non avesse documentato un adeguato profilo di inserimento nel tessuto socio-lavorativo italiano, poichè egli aveva dedotto soltanto la frequenza ad alcuni corsi di formazione e taluni periodi di attività lavorativa (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). Il ricorrente non contrappone a tale giudizio alcun elemento specifico a sostegno della propria integrazione, ma si limita ad allegare la pericolosità del contesto esistente in Nigeria ed il rischio che egli correrebbe, una volta rientrato in patria, di essere ucciso dai familiari dell’amico morto (cfr. pag. 16 del ricorso).

Va ribadito, sul punto, che ai fini della concessione della tutela umanitaria il richiedente deve dimostrare di essere esposto, in caso di rimpatrio, al rischio di subire una lesione al nucleo ineludibile dei suoi diritti fondamentali, nella declinazione che di tale concetto è stata affermata dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U., Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471). Tale valutazione si articola in un procedimento complesso, che parte dall’esame del contesto interno esistente nel Paese di origine del richiedente, prende in considerazione il suo livello di integrazione socio-lavorativa in Italia ed apprezza, alla luce di tali elementi, il rischio di compromissione dei suoi diritti umani che potrebbe derivare da un eventuale rimpatrio. L’integrazione, pertanto, deve essere documentata in modo preciso e, comunque, non esaurisce l’ambito della complessa ed articolata valutazione demandata al giudice di merito. Poichè nel caso specifico il ricorrente non indica in modo preciso alcun elemento concreto che il giudice di merito non avrebbe considerato o avrebbe considerato in modo non corretto, la doglianza non appare assistita dal necessario grado di specificità.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese del presente giudizio di legittimità meritano di essere compensate per intero, alla luce dell’estrema genericità delle argomentazioni contenute nel controricorso notificato dal Ministero dell’Interno, che non si confronta in alcun modo con la specifica vicenda dedotta dal ricorrente.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso. Compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021

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