Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.141 del 08/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 107-2020 proposto da:

U.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CHISIMAIO, 29, presso lo studio dell’avvocato MARILENA CARDONE, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI MILANO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 2162/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 16/05/2019 R.G.N. 3584/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/09/2020 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

RILEVATO

CHE:

1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 2162 del 2019, ha respinto il gravame proposto da U.P., cittadina della *****, avverso l’ordinanza del Tribunale della stessa sede che confermando il provvedimento emesso dalla competente Commissione territoriale, aveva negato alla richiedente il riconoscimento dello status di rifugiata nonchè della protezione sussidiaria ed umanitaria.

2. Come si legge nella gravata pronuncia, la ricorrente aveva dichiarato di non avere mai conosciuto la madre e di essere di religione *****, frequentando la scuola fino al liceo; che il padre poliziotto, con il quale viveva, era stato trasferito nel 2010 presso un comando di polizia a ***** e saltuariamente tornava a ***** per fare visita ai figli (essa richiedente ed un fratello maggiore); che nella ***** ella ed il fratello erano stati minacciati di morte mentre si trovavano in casa, da uomini con il volto coperto, che avevano loro intimato di riferire al padre di abbandonare un caso su cui stava lavorando; che nonostante il padre li avesse tranquillizzati telefonicamente, un mese dopo, mentre si trovava presso di loro, fu ucciso nella abitazione da alcuni uomini dopo un’accesa discussione; che ella ed il fratello erano fuggiti immediatamente, perdendosi di vista e non si erano mai più ritrovati; che dopo varie traversie si era trovata in Niger dove un ragazzo si era offerto di aiutarla portandola con sè in Libia dove aveva lavorato come domestica presso una famiglia libica; che il ragazzo, che pretendeva tutto il suo stipendio oltre a volere avere rapporti sessuali con lei, un giorno scomparve ed ella dovette scappare dalla famiglia presso cui lavorava ed era stata ospitata in quanto la gente del quartiere li aveva minacciati; da lì è poi scappata in Italia arrivando via mare; aveva precisato, altresì, che in caso di rimpatrio, trovandosi in una condizione di particolare vulnerabilità, in quanto sola, priva di protezione, di famiglia, di risorse economiche, di abitazione e di un contesto sociale di riferimento, avrebbe corso il rischio di entrare nell’infernale giro della prostituzione e della tratta di esseri umani.

3. La Corte di appello, a sostegno della propria decisione, ha rilevato che, quand’anche le dichiarazioni della richiedente fossero state veritiere, non integravano certamente una situazione di persecuzione a causa della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o etnico o della sua razza o della sua religione o della sua nazionalità o della sua opinione politica; che, secondo i rapporti citati di Amnesty International, non si ravvisava un situazione di minaccia grave ed individuale alla vita della richiedente derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, ravvisabile in *****; che la vicenda personale esposta, pur essendo assai dolorosa, non determinava una maggiore vulnerabilità della stessa in ***** rispetto che in Italia, in quanto, da un lato, eliminato il padre, non via era più motivo per il gruppo criminale di minacciare la figlia e, dall’altro, perchè anche in Italia, essendo una donna giovane, sola, senza famiglia e senza risorse economiche, rischiava di essere arruolata nel giro della prostituzione mente in ***** forse avrebbe potuto contare nella istituzione di polizia, dove aveva fatto parte il padre e a causa della quale era stato ucciso.

4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione U.P. affidato a tre motivi.

5. Il Ministero dell’Interno si è costituito, al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.

CONSIDERATO

CHE:

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 4, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di appello aveva fornito una motivazione meramente tautologica e contrastante con gli atti del procedimento, pur a fronte di dichiarazioni dettagliate, ribadite in tutti i gradi, in cui era stata messa in evidenza la sua sofferenza, interpretata come vaghezza e inattendibilità invece che come ritrosia a ricordare episodi che dentro di lei bruciavano ancora; inoltre, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, lamenta che la Corte non aveva considerato che ella richiedente aveva precisato che il suo rientro in patria avrebbe causato conseguenza di tipo persecutorio nonchè pericolo per la propria vita, ignorando, pertanto, che, nella fattispecie, fossero ravvisabili i requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto D.Lgs. del 2008, ex art. 8 perchè nella sentenza impugnata era mancato il dovere di cooperazione istruttoria in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al paese di origine e rispetto alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria da parte del giudice. Si sostiene che i giudici di seconde cure non avevano tenuto conto della situazione aggiornata della ***** che, invece, dai rapporti di Amnesty International, risultava avere subito un notevole peggioramento negli ultimi anni, soprattutto in merito alla posizione delle donne sole, che non avevano alcuna protezione.

4. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 4 per avere la Corte territoriale respinto la domanda della protezione umanitaria, senza operare alcuna valutazione comparativa degli elementi che concorrevano a determinare una condizione di vulnerabilità legata sia alla vicenda personale di essa richiedente, sia alle condizioni del suo paese di origine, soprattutto delle donne che subiscono violenza anche familiari.

5. Il primo motivo è inammissibile perchè non si confronta con la effettiva ratio decidendi della gravata pronuncia che, da un lato, non ha ritenuto vaghe ed inattendibili le dichiarazioni della richiedente, basandosi, invece, sulla credibilità delle stesse in quanto non vi erano motivi per dubitarne; dall’altro, perchè nella sentenza è stata analizzata compiutamente l’assenza dei presupposti per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo stati ravvisati i motivi di fuga non nelle ipotesi di persecuzione previsti dalla legge, ma in un episodio di criminalità organizzata nei confronti del padre che, una volta eliminato, non consentiva più di ritenere il concretizzarsi di ulteriori minacce per la figlia.

6. Il secondo motivo è, invece, fondato.

7. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 è dovere del giudice verificare avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente e astrattamente sussumibile in una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, con accertamento aggiornato al momento della decisione (Cass. n. 28990 del 2018; Cass. n. 17075 del 2018).

8. Il predetto accertamento va compiuto in base a quanto prescritto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e, quindi, “alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione Nazionale sulla base dei datti forniti dall’ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa”.

9. E’, quindi, onere del giudice di merito procedere, nel corso del procedimento finalizzato al riconoscimento della protezione internazionale, a tutti gli accertamenti officiosi diretti ad acclarare l’effettiva condizione del Paese di origine del richiedente, avendo poi cura di indicare esattamente, nel provvedimento conclusivo, le parti utilizzate ed il loro aggiornamento.

10. In proposito, deve ribadirsi anche che l’indicazione delle fonti di cui all’art. 8 non ha carattere esclusivo, ben potendo le informazioni sulle condizioni del Paese estero essere tratte da concorrenti canali di informazione, anche via web, quali ad esempio i siti internet delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale (quali ad esempio Amnesty International e Medici senza frontiere) che spesso contengono informazioni dettagliate e aggiornate (cfr. Cass. n. 13449 del 2019 per esteso).

11. In modo estremamente sintetico, può quindi affermarsi che il giudice deve indicare, in modo specifico e dettagliato, fonti che abbiano un certo grado di credibilità e che facciano riferimento ad una situazione sociopolitica aggiornata del Paese di origine del richiedente.

12. Più recentemente (cfr. Cass. n. 15215 del 2020) è stato affermato il principio di diritto secondo il quale: “Le informazioni relative alla situazione esistente nel paese di origine del richiedente la protezione internazionale o umanitaria che il giudice di merito trae dalle C.O.I. o dalle altre fonti informative liberamente consultabili attraverso i canali informatici vanno considerate, in ragione della capillarità della loro diffusione e della facile accessibilità per la pluralità di consociati, alla stregua del fatto notorio; il dovere di cooperazione istruttoria che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 pongono a carico del giudice, nella materia della protezione internazionale ed umanitaria, impone allo stesso di utilizzare, ai fini della decisione, C.O.I. ed altre informazioni relative alla condizione interna del paese di provenienza o rimpatrio del richiedente, ovvero della specifica area di esso, che siano adeguatamente aggiornate e tengano conto dei fatti salienti interessanti quel Paese o area, soprattutto in relazione ad eventi di pubblico dominio, la cui mancata considerazione costituisce, in funzione della loro oggettiva notorietà, violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2”.

13. Nella fattispecie, la Corte territoriale si è limitata a richiamare, per escludere ogni ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e per ritenere che la condizione attuale della *****, Paese di origine del richiedente, non fosse interessata da conflitti armati interni ed internazionali, unicamente le “i rapporti citati di Amnesty International”, senza alcuna altra precisazione.

14. Nell’assolvere all’onere imposto dalla legge i giudici di seconde cure erano, però, tenuti a spiegare in base a quali specifiche fonti avessero ritenuto inesistente il rischio di subire gravi danni, paventati dalla ricorrente, onde dare conto della puntualità e attualità della propria verifica e fare così in modo che la motivazione assumesse carattere effettivo (cfr. per tutte Cass. n. 8819 del 2020 e la giurisprudenza ivi citata).

15. Inoltre, la Corte di merito è venuta meno al dovere di accertare avvalendosi dei suoi poteri istruttori anche ufficiosi, data la ritenuta credibilità di questa parte del racconto (Cass. 16925 del 2018) – le conseguenze che la richiedente avrebbe potuto subire, stante la sua condizione di donna sola, in *****, onde stabilire se fosse meritevole di una forma di protezione internazionale o umanitaria (Cass. n. 29603/2019).

16. E’ opportuno sottolineare che, in tema di protezione internazionale dello straniero, in virtù degli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11.5.2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza delle donne e la violenza domestica, anche tali atti sono riconducibili all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sicchè è onere del giudice verificare in concreto se, pur in presenza di minaccia di danno grave ad opera di un “soggetto non statuale”, ai sensi dell’art. 5, lett. c) decreto citato, lo Stato di origine sia in grado di offrire alla donna adeguata protezione: nella specie, evitando che, quale donna priva di reddito e sola, possa entrare nel giro della prostituzione (Cass. n. 12333 del 2017).

17. La censura è, pertanto, meritevole di accoglimento.

18. La trattazione del terzo motivo resta, conseguentemente, assorbita.

19. La sentenza impugnata dovrà, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo, inammissibile il primo ed assorbito il terzo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 30 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021

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