Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.1674 del 26/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11327/2017 proposto da:

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12;

– ricorrente –

contro

Z.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DOMENICO MILLELIRE 47, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE GUARNA ASSANTI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7685/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/12/2016 R.G.N. 6490/2012.

RILEVATO

Che:

Il Tribunale di Roma rigettava la domanda proposta da Z.M.R. nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri volta a conseguire il risarcimento del danno per il tardivo recepimento delle Direttive CEE in materia di organizzazione dei corsi di specializzazione medica, nella specie oggetto di frequenza negli anni accademici 1983/84-1987/88 presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di *****.

Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte distrettuale che, con sentenza resa pubblica in data 22/12/2016, condannava la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento in favore della ricorrente, della somma di Euro 26.855,76 sul rilievo che il decorso della prescrizione (decennale) del diritto accertata dal giudice di prima istanza, fosse stato validamente interrotto con atto stragiudiziale del 15/12/2008 e con la notifica dell’atto di citazione in data 4/3/2009.

Avverso tale decisione la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha interposto ricorso per Cassazione affidato ad unico motivo cui resiste con controricorso la parte intimata.

CONSIDERATO

Che:

1. Con unico motivo si denuncia violazione dell’art. 2909 c.c., artt. 39 e 329 c.p.c., nonchè della L. n. 370 del 1999, art. 11, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Si deduce che con sentenza n. 3694/2013 la Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede (n. 17039/2005), aveva già condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri a corrispondere alla Z., l’importo di Euro 6.713,94 per ogni anno di frequenza del corso di specializzazione.

Sul rilievo che tale pronuncia – relativa a domanda avente il medesimo petitum e la medesima causa petendi di quella proposta nel presente giudizio – era passata in giudicato e che in detta materia, i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata impongono al giudice di rilevare d’ufficio, anche in sede di giudizio di legittimità, il giudicato esterno, si chiede darsi atto della inammissibilità della sentenza emessa dalla Corte distrettuale, per violazione del principio del ne bis in idem.

2. Il motivo non è meritevole di accoglimento.

Non può infatti sottacersi che la critica palesa profili di inammissibilità per violazione del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, essendo disattesi i principi affermati da questa Corte in base ai quali la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato (vedi ex plurimis, Cass. 23/6/2017 n. 15737), giacchè il principio della rilevabilità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso.

Con condivisibile approccio” questa Corte ha infatti avuto modo di rimarcare come i motivi di ricorso per cassazione fondati su giudicato esterno, debbano rispondere ai dettami di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, che del principio di autosufficienza rappresenta il precipitato normativo (cfr. Cass. 18/10/2011 n. 21560, Cass. 30/4/2010 n. 10537, Cass. 13/3/2009 n. 6184); tanto sia sotto il profilo della riproduzione del testo della sentenza passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il riassunto sintetico della stessa (cfr. Cass. 11/2/2015 n. 2617), sia sotto il profilo della specifica indicazione della sede in cui essa sarebbe rinvenibile ed esaminabile in questo giudizio di legittimità (vedi Cass. cit. n. 21560/2011).

Nella fattispecie scrutinata, i requisiti di ammissibilità della censura che consentono di assicurare al ricorso l’autonomia necessaria ad individuare, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata e pronta risoluzione delle questioni da risolvere, non sussistono. Parte ricorrente ha infatti omesso di riportare il contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 3694/2013 posto a fondamento della censura secondo l’onere sulla stessa gravante, non essendo questa Corte tenuta a ricercare, al di fuori del contesto del ricorso, le ragioni che dovrebbero sostenerlo.

3. La doglianza è in ogni caso, priva di fondamento.

E’ bene rammentare al riguardo che nel giudizio di cassazione, il giudicato esterno è, al pari del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, sicchè solo in tal caso la sua produzione non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che potevano essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato (cfr. Cass. 31/5/2019 n. 14883, Cass. 22/1/2018 n. 1534, Cass. 23/12/2010 n. 26041, Cass. S.U. 16/6/2006 n. 13916).

Si è infatti sostenuto che il giudicato non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando, quindi, della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto.

Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del “ne bis in idem”, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione.

Tale garanzia di stabilità, collegata all’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che potevano essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato, i quali, comprovando la sopravvenuta formazione di una “regula iuris” cui il giudice ha il dovere di conformarsi, attengono ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso.

Corollario di quanto sinora detto è che, essendosi il giudicato invocato a fondamento della critica (in relazione a pronuncia della quale, come già fatto cenno, non viene neanche riprodotto il tenore), formato in epoca ben anteriore alla definizione del giudizio di appello, la sua produzione non può avvenire in questa sede, stante il divieto di cui all’art. 372 c.p.c., che è, invece, operante ove la parte – come nella specie – intenda far valere l’efficacia di giudicato di una pronuncia anteriore a quella impugnata, che non sia stata prodotta nei precedenti gradi del processo (vedi Cass. cit. n. 1534/2018).

In definitiva, al lume delle sinora esposte argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono il regime della soccombenza, liquidate come in dispositivo.

Non sussistono, infine, i presupposti per il versamento, da parte, dell’amministrazione ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Il provvedimento con cui il giudice dell’impugnazione, nel respingere integralmente la stessa, ovvero nel dichiararla inammissibile o improcedibile, disponga, a carico della parte che l’abbia proposta, l’obbligo di versare – ai sensi delle norme appena richiamate – un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto ai sensi del medesimo art. 13, comma 1-bis, non può infatti aver luogo nei confronti di quelle parti della fase o del giudizio di impugnazione, come le Amministrazioni dello Stato, che siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (vedi, per tutte: Cass. 14/3/2014, n. 5955, Cass. 5/11/2014 n. 23514, Cass. 9/8/2016 n. 16667).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese nella misura di Euro 4500,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2021

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