Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.18428 del 30/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorsi iscritto al n. 5098 del ruolo generale dell’anno 2015, proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, si domicilia;

– ricorrente-

contro

Avicola Marchigiana Società cooperativa a r.l. in amministrazione straordinaria, in persona dei commissari giudiziali pro tempore, rappresentati e difesi, giusta procura speciale a margine del ricorso, dagli avvocati Claudio Lucisano e Maria Sonia Vulcano, presso lo studio dei quali in Roma, alla via Crescenzio, n. 91, elettivamente si domiciliano;

– controricorrente e ricorrente incidentale in via condizionata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale delle Marche, depositata in data 1 luglio 2014, n. 210/4/2014;

udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 26 marzo 2021 dal consigliere Dott.ssa Perrino Angelina-Maria.

RILEVATO

che:

– emerge dagli atti che la società Sant’Angelo cooperativa agricola fra allevatori, poi incorporata dall’odierna ricorrente, ha emesso nel 2005 una fattura anticipata per acconto relativa a futura consegna di merci, poi oggetto di storno nel 2006, e che l’Agenzia ha ritenuto questa condotta fraudolenta, perchè concernente operazione inesistente, volta soltanto a consentire alla destinataria della fattura di dilazionare il pagamento dell’iva;

– a questo rilievo se n’è aggiunto un altro, concernente l’emissione di note di credito per conguaglio dei prezzi di conferimento senza indicazione dell’iva, che avevano comportato per l’emittente la mancata decurtazione del debito iva pari al 2,5% o al 2,7% dell’imponibile, e per le destinatarie la mancata riduzione dell’iva detraibile concernente il medesimo imponibile; e ciò perchè l’azienda agricola emittente adottava, a differenze delle destinatarie, il regime speciale iva previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 34, che comporta una detrazione forfetizzata in misura percentuale sull’ammontare delle operazioni imponibili;

– ne è scaturito un avviso di accertamento col quale l’Agenzia delle entrate ha recuperato la maggiore iva scaturente dai due rilievi, che la società ha impugnato, senza successo in primo grado;

– di contro, la Commissione tributaria regionale delle Marche ha accolto l’appello della contribuente, pur rigettandone le censure preliminari, rispettivamente concernenti, per i profili ancora d’interesse, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, per lo sforamento della durata massima della verifica, che ha ritenuto di natura non perentoria, la violazione della medesima legge L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per l’omessa valutazione delle osservazioni proposte dalla contribuente, che ha ritenuto ininfluente, e la violazione del contraddittorio, che ha reputato insussistente;

– nel merito, a sostegno della decisione di accoglimento, per un verso il giudice d’appello ha escluso che la fatturazione anticipata per acconto corrispondesse a un’operazione inesistente, perchè le complessità di gestione della filiera produttiva, gli elevati volumi dei prodotti lavorati e l’emissione di un elevato numero di fatture rendevano amministrativamente difficoltoso un collegamento fra fatture di acconto e definitive, di modo che ha ritenuto che anche le note di credito fossero correlate a rapporti commerciali reali;

– per altro verso, la Commissione tributaria regionale ha escluso che le note di credito emesse senza iva fossero note di variazione, configurandole, invece, come documenti di mero contenuto patrimoniale, irrilevanti ai fini iva, e ha sottolineato che l’emissione di una nota di variazione costituisce mera facoltà;

– contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia delle entrate per ottenerne la cassazione, che affida a tre motivi, cui la contribuente risponde con controricorso e ricorso incidentale condizionato, anch’esso articolato in tre motivi, che illustra con memoria.

CONSIDERATO

che:

– col primo e col secondo motivo del ricorso principale, da esaminare congiuntamente, perchè concernenti la medesima censura, l’Agenzia denuncia:

a.- la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 6, comma 4, artt. 10, 19, art. 21, commi 4 e 7, e art. 26, là dove il giudice d’appello ha trascurato che le fatture in acconto non concernevano pagamenti anticipati di future cessioni, ma erano in realtà svincolate da operazioni commerciali e sempre stornate con separate note di credito, sicchè in realtà il congegno adottato, di fatturazione in acconto e successivi storni, era volto a propiziare un differimento dei tempi di assolvimento dell’iva, in occasione delle cessioni degli stabilimenti fra le cooperative e le subholding del gruppo, oppure in concomitanza di operazioni che da una parte generavano il credito d’imposta e dall’altra il debito, tra essi non compensabili (primo motivo);

b.- l’omesso esame dei fatti decisivi costituiti, per un verso, dalla cessione di immobili fra le società del gruppo, che avevano originato un credito d’imposta per alcuni e un debito per altri, che non si potevano compensare perchè le cooperative sono prive dei requisiti soggettivi per poter usufruire della liquidazione dell’iva di gruppo, e, per l’altro, dalla circostanza che i debiti/crediti emergenti a fine anno scaturenti dalle fatture di acconto erano occultati nei bilanci delle società emittenti e di quelle che ricevevano le fatture mediante apposite scritture contabili (secondo motivo);

– i motivi, che sono entrambi ammissibili, contrariamente a quanto eccepito in controricorso e ribadito in memoria, perchè rispettivamente denunciano l’erroneità in diritto delle statuizioni della sentenza impugnata e individuano in maniera adeguata ed esauriente i fatti storici pretermessi, sono fondati;

– rispetto al materiale espletamento dell’operazione, sia essa cessione di beni oppure prestazione di servizi, il rilascio della fattura o l’incasso di tutto o di parte del corrispettivo sono presupposti di esigibilità, il verificarsi dei quali può determinare l’anticipazione del momento impositivo, qualora gli Stati membri nell’esercizio della loro discrezionalità l’abbiano previsto; ciò in quanto nel caso di anticipato pagamento (come in quello di anticipata fatturazione dell’acquisto), il contenuto economico dell’operazione si considera già -in tutto o in parte- realizzato, dando vita al presupposto fiscalmente sufficiente per la sua imponibilità, sia pure limitatamente all’importo pagato o fatturato;

– occorre però, a tal fine, che tutti gli elementi rilevanti della futura operazione siano noti al committente/acquirente e che, al momento dell’emissione della fattura anticipata, sembri certa l’effettuazione della futura operazione (Cass. 22 maggio 2015, n. 10606; 29 gennaio 2020, n. 1961; 30 dicembre 2020, n. 29859; quanto alla giurisprudenza unionale, si veda in particolare Corte giust. 31 maggio 2018, cause C-660 e 661/16);

– laddove, nel caso in esame, lo stesso giudice d’appello dà conto del collegamento “amministrativamente difficoltoso” fra le fatture di acconto e quelle definitive; riconosce che la fattura anticipata era calibrata soltanto su stime dei prodotti da consegnare, tanto che l’importo della fattura in acconto (Euro 2.550.000) era notevolmente diverso da quello della fattura definitiva (Euro 664.414,40); evidenzia che, sebbene denominata di acconto, la fattura anticipata non era emessa a fronte di pagamento, il quale, invece, avveniva mediante compensazione delle partite debitorie e creditorie che “…non era direttamente collegata alle scadenze delle fatture, ma avveniva, in via normale, trimestralmente”;

– è la stessa contribuente a riconoscere poi, per un verso, che soltanto “…al termine dell’esercizio, preso atto dei prezzi applicati in acconto, venivano stabiliti i prezzi definitivi ed i relativi conguagli, tenendo conto dell’andamento economico registrato”; per altro verso, che nessun acconto era stato corrisposto in relazione alla fatturazione anticipata, nonostante fosse definita per acconto; comunque, che è “…effettivamente difficoltoso un collegamento tra le fatture in acconto e quelle definitive”;

– non emerge quindi dalla combinazione della sentenza impugnata e delle difese della contribuente che quella fattura abbia determinato l’insorgenza del presupposto impositivo;

– il che si riverbera sulla rilevanza della successiva variazione dell’imponibile, dalla quale è scaturita la posta oggetto di detrazione, mediante la nota di credito concernente l’iva assolta in relazione alla fattura definitiva (per l’importo corrispondente all’iva indicata nella fattura anticipata);

– a tanto va aggiunto che i fatti pretermessi oggetto del secondo motivo di ricorso, idonei a fondare il convincimento sulla sussistenza di un disegno fraudolento, rilevano alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza unionale (si veda Corte giust. 2 luglio 2020, in causa C-835/18, SC Terracult SRL), secondo cui “Per garantire la neutralità dell’IVA, spetta agli Stati membri contemplare, nel rispettivo ordinamento giuridico interno, la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata, purchè chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede” (punto 27; lo ribadisce da ultimo la Corte con la sentenza 18 marzo 2021, causa C-48/20);

– la giurisprudenza unionale specifica inoltre, per l’ipotesi in cui l’emittente la fattura non sia in buona fede (si veda al riguardo Corte giust. 8 maggio 2019, causa C-712/17), che la direttiva iva, letta alla luce dei principi di neutralità e di proporzionalità, non osta a una normativa nazionale che esclude la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto relativa a operazioni fittizie, imponendo al contempo ai soggetti che indicano l’iva in una fattura di assolverla, purchè il diritto nazionale consenta di rettificare il debito d’imposta risultante da tale obbligo qualora l’emittente della fattura, che non era in buona fede, abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale; il che va appunto accertato, in base alla prospettazione offerta in ricorso, in particolare mediante l’accertamento dei fatti storici pretermessi sopra indicati;

– la corretta applicazione del regime della variazione in diminuzione dell’imponibile o dell’imposta postula, infine, che emerga inequivocabilmente la corrispondenza tra l’oggetto della fattura e delle registrazioni originarie e l’oggetto della registrazione della variazione (tra varie, Cass. 13 maggio 2016, n. 9842); corrispondenza che, in base alle considerazioni che precedono, va esclusa;

– la censura in questione è quindi accolta;

– parimenti fondato è il terzo motivo del ricorso principale, col quale l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, art. 21, commi 4 e 7, art. 26, commi 2 e 3, nonchè del medesimo D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, art. 26, comma 2, e art. 24, là dove il giudice d’appello, con riguardo all’emissione delle note di credito senza iva, l’ha ritenuta irrilevante, non avvedendosi della violazione del principio di neutralità;

– il meccanismo di rettifica è, invece, proprio posto a presidio della neutralità dell’iva, che è la trasposizione, nella materia dell’iva, del principio di parità di trattamento, in modo che le operazioni eseguite allo stadio anteriore continuino a originare il diritto di detrazione soltanto nei limiti in cui esse servano a fornire prestazioni soggette a iva;

– di qui scaturisce l’art. 11, parte C, par. 1, della sesta direttiva, che disciplina la riduzione della base imponibile (di contenuto analogo a quello dell’art. 90 della direttiva 2006/112/CE), a norma del quale “In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o di riduzione di prezzo dopo che l’operazione è stata effettuata, la base imponibile viene debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri. Tuttavia, in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare a questa norma”, che fissa due ordini di presupposti di operatività della rettifica:

– uno, inderogabile, perchè ancorato alla caducazione, originaria o sopravvenuta, dell’operazione;

– l’altro, derogabile, in quanto volto a incidere sugli effetti dell’operazione, che resta ferma, in quanto “effettuata”, al cospetto dell’inadempimento, totale o parziale, dell’obbligo di pagarne il prezzo (Corte giust. 12 ottobre 2017, causa C-404/16, Lombard Ingatian Lizing Zrt., punto 40 e, nella giurisprudenza interna, tra varie, Cass. 12 maggio 2019, n. 12468);

– ed è alla luce della giurisprudenza unionale che va interpretato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, che regola i presupposti per la variazione dell’imponibile e dell’imposta e che, in particolare, prevede il ricorso alla procedura di variazione in caso di riduzione dell’ammontare imponibile dell’operazione;

– da un lato, difatti, la base imponibile dell’iva è ragguagliata al corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l’amministrazione tributaria non può riscuotere a tale titolo un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo; ma, dall’altro, la condotta del cedente/prestatore riverbera i propri effetti sulla posizione del cessionario/committente, perchè si tratta di due facce di una stessa operazione economica, che devono essere valutate in modo coerente (Corte giust. 22 febbraio 2018, causa C-396/16, T-2, punto 35, e, nella giurisprudenza interna, su piano speculare, Cass. 16 novembre 2020, n. 25896);

– erronea si rivela allora la statuizione della sentenza impugnata d’irrilevanza ai fini iva delle note di credito, poichè nel caso in esame si ha riguardo a ipotesi in cui i prezzi delle cessioni definitive sono risultati inferiori a quelli fatturati;

– il che acquista particolare pregnanza al cospetto delle considerazioni svolte in ricorso concernenti il disallineamento dei regimi iva tra emittente e destinataria, che comportano, nella prospettazione dell’Agenzia, l’impiego da parte dell’emittente di un regime forfettario di determinazione del debito iva e, d’altro canto, dai lato della cessionaria, la detrazione dell’intera imposta applicata in fattura;

– anche questo motivo va in conseguenza accolto;

– il che comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale delle Marche in diversa composizione;

– infondato è, invece, il primo motivo del ricorso incidentale, col quale si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, in ordine al mancato rispetto dei termini di durata della verifica; e ciò in base al consolidato orientamento di questa Corte (in espressione del quale si veda Cass., ord. 27 aprile 2017, n. 10481), secondo cui, in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, nè la nullità degli atti può ricavarsi dalla ratio delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo a fronte del disagio arrecato al contribuente;

– parimenti infondato è il secondo motivo del ricorso incidentale, col quale si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, là dove il giudice d’appello non ha fatto discendere dall’omessa compiuta considerazione delle osservazioni della contribuente, soltanto menzionate nell’avviso di accertamento, la nullità di quest’ultimo. E ciò ancora in base al consolidato orientamento di questa Corte, in base al quale è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo (tra varie, Cass., ord. 31 marzo 2017, n. 8378);

– inammissibile è, infine, il terzo motivo del ricorso incidentale, col quale si lamenta la nullità della sentenza e del procedimento per omessa motivazione in ordine alla dedotta violazione della L. n. 212 del 2000k, art. 10, comma 1, calibrata ancora sulle considerazioni svolte in sede procedimentale al fine di ottenere riscontri da parte dell’Agenzia: e a questo riguardo, che pur sempre coinvolge, sia pure sotto diverso angolo prospettico, il tema del contraddittorio, sempre in relazione alla presa in considerazione delle obiezioni mosse dalla contribuente, il giudice d’appello ha motivato, rinviando ad altro punto di motivazione della sentenza concernente quest’aspetto;

– il ricorso incidentale va in conseguenza respinto e, come conseguenza di tale pronuncia, va dichiarata la sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

accoglie il ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale delle Marche in diversa composizione. Rigetta il ricorso incidentale e, in relazione a tale pronuncia, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2021

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