Allorchè il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; nè la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22773/2016 proposto da:
N.A., rappresentato e difeso dagli avvocati Stefania Girotto, e Luigi Manzi, con procura in calce al ricorso, elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio del secondo in via F.
Confalonieri n. 5;
– ricorrente –
contro
R.G., R.A., R.S. e G.P., quest’ultima in proprio e in qualità di tutore della figlia minore Ri.Sa., rappresentati e difesi dagli avvocati Antonio Romeo, e Domenico Apice, con procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliati in Roma presso lo studio del secondo in via E. Gianturco n. 1;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
avverso la sentenza n. 2014/2015 del Tribunale di Venezia depositata il 12 giugno 2015 e l’ordinanza della Corte di appello di Venezia depositata il 1 luglio 2016;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 23 settembre 2020 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato;
uditi gli Avv.ti Gaia Stivali (con delega dell’Avv.to Luigi Manzi), per parte ricorrente, e Domenico Apice per parti resistenti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione, notificato in data 9 ottobre 2012, R.G., R.A., R.S., Ri.Sa. e G.P., nella qualità di eredi di R.E., proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Venezia il 14.06.2012 su istanza di N.A. per complessivi Euro 200.000,00 erogati dall’intimante ad R.E. negli anni 2006 e 2007, oggetto di quattro ricognizioni di debito, assumendo – fra l’altro – la natura usuraria dei tassi di interesse e la violazione del divieto di patto commissorio ex art. 1963 c.c..
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dell’opposto, il Tribunale di Venezia, in accoglimento dell’opposizione, revocava il decreto monitorio, dichiarando nullo il rapporto negoziale tra N.A. ed R.E. per effetto della natura usuraria dei pattuiti interessi e della violazione del divieto di patto commissorio.
L’impugnazione interposta dal N. è stata dichiarata inammissibile dalla Corte di appello di Venezia con ordinanza ex artt. 348-bis, 348-ter c.p.c., sicchè l’appellante ha impugnato per cassazione l’ordinanza medesima e la sentenza di primo grado, in base a cinque motivi.
Gli eredi R. hanno resistito con controricorso proponendo, altresì, ricorso incidentale condizionato, affidato ad un unico motivo.
Fissata adunanza camerale in data 4 dicembre 2019 e depositata memoria illustrativa dal ricorrente, con ordinanza interlocutoria n. 24/2020, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per essere rimessa alla trattazione in pubblica udienza per la rilevanza nomofilattica di talune delle questioni poste dal ricorrente principale.
In prossimità della pubblica udienza entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 348 bis c.p.c., per avere la Corte di appello lagunare posto a fondamento dell’ordinanza di inammissibilità dell’impugnazione argomentazioni che danno conto del non approfondito esame delle censure rivolte alla sentenza di primo grado. Nel dettaglio precisa il ricorrente che la corte di merito avrebbe ritenuto invalide le pattuizioni intercorse fra il ricorrente e il R. senza tuttavia ricostruire la volontà negoziale delle parti, oltre ad avere pronunciato la nullità di asserito patto commissorio nonostante lo stesso non fosse stato esercitato dal N. e gli eredi R. non avessero manifestato interesse ad una tale pronuncia; infine, avrebbe pronunciato relativamente ad una asserita nullità di patto sugli interessi senza che il N. avesse svolto alcuna domanda al riguardo, per avere con l’ingiunzione de qua intimato la sola somma capitale, tutte circostanze che avrebbero dovuto indurre il giudice del gravame a ritenere ammissibile l’impugnazione della decisione di prime cure.
La censura è inammissibile.
Risulta decisivo osservare, per quanto di interesse, che la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’impugnazione concernente la decisione con la quale il primo giudice ha riconosciuto che la scrittura in questione contiene due patti nulli, quello commissorio e quello relativo alla previsione di interessi usurari, tra loro collegati nel prevedere due diverse modalità di pagamento e di estinzione dell’obbligazione in base a condizione meramente potestativa rimessa alla volontà del medesimo creditore, avendo ritenuto infondata ogni censura operata dall’appellante proprio a siffatte argomentazioni; ha, inoltre, rimarcato che l’appellante non aveva neppure allegato una valutazione complessiva del testo contrattuale e delle pattuizione conferenti poteri vietati dalla norma (rectius: dall’art. 2744 c.c.).
Ne consegue che le anzidette censure, in cui è articolato il primo mezzo, sono inammissibili poichè l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c., non è impugnabile con ricorso per cassazione quando, come avvenuto nel caso di specie, ha confermato le statuizioni di primo grado, non configurandosi, in tale ipotesi, una decisione fondata su una ratio decidendi autonoma e diversa nè sostanziale nè processuale (Cass. n. 23334 del 2019).
Le plurime censure, inoltre, nemmeno prospettano vizi di carattere processuale propri dell’ordinanza filtro (Cass., Sez. Un., n. 1914 del 2016; Cass. n. 15 del 2017, in motivazione), che avrebbero consentito il ricorso per cassazione.
Con i mezzi successivi il ricorrente poi svolge i motivi di impugnazione diretti avverso la sentenza di primo grado.
Con la seconda doglianza, infatti, deduce la violazione e l’erronea/falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 1419, 1420 e 1424 c.c., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ad avviso del ricorrente, egli aveva prestato al R., in diverse occasioni, delle somme di denaro in forza del loro rapporto di amicizia, come risulterebbe dalla documentazione allegata, in particolare dalla dichiarazione di R.E. del 29.11.2006, nella quale riconosce di avere ricevuto a titolo di prestito la somma di Euro 100.000,00, per un periodo di sei mesi, sulla quale avrebbe corrisposto un interesse pari al 20%. In data 06.12.2006 il dante causa dei resistenti riceve ulteriori Euro 40.000,00, per un totale di Euro 140.000,00, ancora in data 21.12.2006 acquisisce la disponibilità di aggiuntivi Euro 40.000,00, per un totale di Euro 180.000,00 e nell’occasione oltre a confermare il riconoscimento degli interessi al tasso concordato, offre in garanzia, previa conclusione di contratto preliminare, di n. 2 appartamenti siti al *****; infine, in data 03.01.2007 veniva completato il prestito con altri Euro 20.000,00, per un totale di Euro 200.000,00, con la previsione della facoltà in capo al mutuante N. di richiedere il rogito per le due unità immobiliari ovvero di ottenere la restituzione dell’intera somma corrisposta, maggiorata degli interessi per complessivi Euro 240.000,00.
Prosegue il ricorrente che il giudice non avrebbe dovuto considerare l’ultima scrittura del R., riguardante la sola somma di Euro 20.000,00, ma le precedenti tre in cui non vi era alcun riferimento alle modalità di estinzione del debito. Con la conseguenza che avrebbe errato il giudice di prime cure laddove ha rilevato un assetto economico squilibrato, per non avere considerato che la nullità al più avrebbe potuto colpire le singole clausole, quelle relative al patto commissorio e alla misura degli interessi, non certo l’intero contratto, in quanto con siffatto meccanismo gli eredi del R. si troverebbero ingiustamente liberati dall’obbligazione di restituire l’importo di Euro 200.000,00, pacificamente prestato dal ricorrente al loro dante causa.
Il motivo non può trovare ingresso.
Occorre premettere che, nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata depositata dopo l’11.09.2012 e che trova, dunque, applicazione l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore a seguito delle modifiche apportate del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale – come chiarito dall’interpretazione di questa Corte – è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), pertanto, non risulta censurabile il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053). Con la conseguenza che costituisce un fatto agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una questione o un punto ma un vero e proprio fatto in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. 5 marzo 2014 n. 5133; Cass. 4 aprile 2014 n. 7983; Cass. 8 ottobre 2014 n. 21152; Cass., Sez. Un., 23 marzo 2015 n. 5745; Cass. 8 settembre 2016 n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017 n. 29883). Non costituiscono, viceversa, fatti il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. 14 giugno 2017 n. 14802; Cass. 8 ottobre 2014 n. 21152), gli elementi istruttori, una moltitudine di fatti e circostanze, o il vario insieme dei materiali di causa (Cass. 21 ottobre 2015 n. 21439).
In altri termini, il ricorrente, il quale denunzi il vizio di motivazione relativamente all’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, ma il riferimento al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implica, invero, che il fatto riguardo al quale la motivazione sulla ricostruzione della quaestio facti è stata omessa ovvero intrinsecamente contraddittoria deve determinare una motivazione meramente apparente, nel senso che deve comportare la logica insostenibilità della motivazione resa da quel giudice.
Ciò precisato, il giudice di prime cure ha, in effetti, reputato che le risultanze di causa abbiano provato il collegamento tra le scritture private poste a fondamento della richiesta monitoria, e cioè il riconoscimento del debito avente ad oggetto l’erogazione di finanziamento di importo via via maggiore, dapprima garantito con due appartamenti (scrittura del 21.12.2006), poi con la previsione di una facoltà che consentiva al creditore di scegliere le modalità per soddisfare il proprio credito, con la stipulazione del preliminare di vendita ovvero con la restituzione della somma di Euro 240.000,00, rilevando che si trattava di operazioni determinanti un assetto economico squilibrato fra le parti, elementi sintomatici atti a evidenziare che il meccanismo negoziale era stato finalizzato ad uno scopo di garanzia, traendone, quindi, la conclusione della conseguente nullità degli atti compiuti per violazione del divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c..
Si tratta, come è evidente, di un ragionamento senz’altro idoneo a sorreggere, sul piano logico, le conclusioni esposte nella sentenza impugnata.
Le quattro scritture sottoscritte dal R. si configurano come un’operazione negoziale complessa, frequentemente applicata nella pratica degli affari poichè risponde all’esigenza degli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità di cui necessitano per investimenti, mediante la prestazione di garanzia con i propri beni, prevedendone anche l’alienazione.
L’operazione è, in concreto, attuata attraverso il collegamento tra il contratto con il quale una parte promettere di vendere un bene di sua proprietà ad un finanziatore (concedente) ed il contratto con il quale quest’ultimo, a sua volta, eroga la somma promessa. E’ evidente che sotto le spoglie di un riconoscimento di debito si celi un patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c.. Detta norma esprime un divieto di risultato, mirando a difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum.
E’ tale risultato che giustifica il divieto di legge, non i mezzi impiegati: con la conseguenza che, ove, sulla base della corretta qualificazione della fattispecie, il versamento del denaro non costituisca il pagamento del prezzo, ma l’esecuzione di un mutuo e il trasferimento del bene non integri l’attribuzione al compratore, bensì l’atto costitutivo di posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, manca la funzione di scambio tipica del contratto di compravendita e si realizza proprio il negozio vietato dalla legge (Cass. n. 1675 del 2012, in motiv.).
Peraltro, poichè il divieto del patto commissorio va interpretato non secondo un criterio formalistico e strettamente letterale, ma secondo un criterio ermeneutico e funzionale, finalizzato ad una più efficace tutela del debitore e ad assicurare la par condicio creditorum, il patto commissorio – con la conseguente sanzione di nullità – è ravvisabile anche rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora scaturisca un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere che il meccanismo negoziale attraverso il quale deve compiersi il trasferimento di un bene del debitore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere dalla natura meramente obbligatoria, o traslativa, o reale del contratto, ovvero dal momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, nonchè dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia (Cass. n. 9466 del 2004).
Nel caso in esame, il giudice unico ha accertato, con motivazione completa e coerente, la sussistenza di una situazione di credito e debito tra il R. e il N., evidenziando la stretta correlazione fra le quattro scritture private.
Nè la plausibilità di tale accertamento è scalfita dai rilievi svolti al riguardo dal ricorrente. Escluso, infatti, ogni rilievo alla qualificazione giuridica (asseritamente confessoria) delle scritture medesime contenuta nei documenti prodotti, posto che la confessione non può che avere ad oggetto il riconoscimento della verità di fatti storici e non certo un giudizio in ordine alla loro natura giuridica, la cui attribuzione spetta, infatti, solo al giudice (Cass. n. 11881 del 2003), il Tribunale osserva che non si possa tenere conto di siffatte scritture solo limitatamente agli importi indicati e singolarmente valutate senza fare alcun riferimento al collegamento negoziale sotteso.
Il ricorrente, al riguardo, si è limitato ad osservare che la clausola che prevede, dapprima, la garanzia del debito con i due appartamenti e, in seguito, la loro cessione come mezzo di estinzione dell’obbligazione pecuniaria, che sorregge la motivazione sul punto del giudice di prime cure, non avrebbe dovuto essere considerata se non ai fini della nullità parziale per avere egli richiesto il versamento della sola sorte: si tratta di doglianza inammissibile, in quanto censura l’apprezzamento in fatto, non (più) sindacabile, relativamente alla sussistenza di una situazione di credito e debito regolata in frode alla legge, salvo quanto di seguito si dirà con riferimento al quinto mezzo del ricorso principale e all’unico motivo del ricorso incidentale.
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e l’erronea/falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 1419 c.c., comma 2 e dell’art. 1815 c.c., anche in relazione all’art. 112 c.p.c., per quanto concerne la ritenuta usurarietà degli interessi. Ad avviso del ricorrente il tasso concordato dalle parti non avrebbe mai superato il tasso soglia del 19,33% essendo l’importo concordato di Euro 240.000,00 inferiore a quello evidenziato in Euro 241.064,33 per integrare un tasso del 20%. Precisa il ricorrente che comunque la questione centrale atterrebbe all’importo in concreto preteso in monitorio riguardante la sola sorte, circostanza pacifica fra le parti. In altri termini, l’accertamento relativamente agli interessi avrebbe integrato una pronuncia affetta da ultrapetizione. Insiste, inoltre, nel ribadire che l’art. 1419 c.c., comma 2, prevede che le nullità di singole clausole non importino la nullità dell’intero contratto e quando nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.
La censura è manifestamente infondata per una parte, inammissibile per altra.
E’ inammissibile laddove critica l’accertamento circa la natura usuraria degli interessi pattuiti, trattandosi di questio facti non censurabile in sede di legittimità se non come errore materiale di calcolo.
Per il resto trova applicazione il principio di diritto affermato da questa Corte (Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017 n. 24675) e così massimato: “Allorchè il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; nè la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto”. Con la conseguenza che non si verifica la nullità o l’inefficacia della sola clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi divenuto di natura usuraria ma dell’intero rapporto.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e l’erronea/falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 1419 c.c., comma 2, dell’art. 2744 c.c., in relazione alla ritenuta sussistenza di un patto commissorio di garanzia, nonchè degli artt. 100 e 112 c.p.c., per non avere mai egli richiesto ovvero azionato alcunchè con riguardo al suo credito e alle scritture private de quibus, ragione per la quale non poteva essere dichiarata la nullità del contratto cui tale patto accede.
Il motivo è privo di pregio.
Il collegamento negoziale costituito dalla esistenza di quattro scritture, introdotte nella loro complessità con il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con relativo accertamento di un’azione di impugnativa negoziale, si sottrae alla scure dello sbarramento preclusivo riservato invece tout court a domande diverse dalla questio nullitatis, ormai irrimediabilmente precluse dalle rigorose cadenze temporali imposte al processo.
La legittimità della rilevazione di una causa di nullità diversa da quella prospettata dalla parte è stata del pari affrontata e risolta dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 26242/2014, che, operando un lo radicale revirement rispetto al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (che ne predicava l’inammissibilità), ha stabilito che la domanda di nullità risulta pur sempre unica rispetto ai diversi, possibili vizi di radicale invalidità che affliggono il negozio.
La rilevazione ex officio di un diverso vizio di nullità negoziale (o, come nella specie, plurinegoziale) non contrasta, pertanto, nè con l’originario petitum nè con la causa petendi.
Al giudice cui sia stata proposta la domanda di nullità viene, pertanto riconosciuto, secondo il più recente insegnamento delle sezioni unite, il potere-dovere di accertare tutte le possibili ragioni di nullità, non soltanto quella indicata dall’attore, anche in ragione della ratio sottesa alla fattispecie invalidante (e, a più forte ragione, quella indicata, anche intempestivamente, dalla parte nel precedente grado di giudizio), salva attivazione del contraddittorio sul punto.
In tal modo, e salvo sempre il rispetto del principio del contraddittorio sulle diverse cause di nullità rilevate dal giudice, non si travalicano i limiti imposti dal principio dispositivo, poichè la domanda di nullità afferisce ad un diritto autodeterminato, ed è quindi individuata a prescindere dello specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio.
L’accertamento della nullità negoziale si presta allora, sul piano dinamico-processuale, a un trattamento analogo a quello concordemente riservato alle domande di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, anch’esse articolate in base ad un solo elemento costitutivo. Il giudizio di nullità/non nullità del negozio (il thema decidendum e il correlato giudicato) sarà, così, definitivo e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore.
Ed è quanto accertato nella specie per avere il giudice unico valutato che dal tenore delle ultime due scritture del R. emergeva la sussistenza del patto commissorio, vietato dall’art. 2744 c.c..
Con il quinto motivo il ricorrente principale lamenta la violazione dell’art. 2033 c.c., in relazione alla mancata condanna degli eredi R. alla restituzione della somma mutuata da egli mutuata al de cuius.
Quest’ultimo mezzo del ricorso principale deve essere esaminato congiuntamente all’unico motivo del ricorso incidentale degli eredi R., seppure articolato in via condizionata, per quanto di seguito si dirà, con il quale viene denunciata la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 214 e 216 c.p.c., per avere gli opponenti fin dalle prime difese disconosciuto sia ai sensi dell’art. 2719 c.c. sia ex art. 214 c.p.c., comma 2, le scritture private prodotte dal ricorrente, formulata peraltro dal N. domanda di restituzione ex art. 2033 c.c., della sorte a titolo di indebito per la prima volta con l’atto di citazione in appello.
Le due censure, infatti, investono complessivamente la questione di fondo della controversia pertinente ad identificare la ragione della pretesa restituzione, per cui, come le due facce di una stessa medaglia, rappresentano l’una l’antecedente logico dell’altra.
Sul punto è possibile affermare che, una volta dichiarata la nullità del contratto fondante la pretesa creditoria, residuano solo obbligazioni restitutorie, non essendovi spazio per interventi manutentivi del regolamento contrattuale, qual è quello costituito dal c.d. “tasso di sostituzione” (in tal senso, di recente Cass. Sez. Un. 18 settembre 2020 n. 19597). Se, dunque, ciò che residua è la posizione creditoria del N., non può tacersi il fatto che gli eredi di R.E. proprio con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo hanno contestato fin dalle prime difese la stessa esistenza della esposizione debitoria del de cuius, introducendo dinanzi al giudice unico il thema decidendum della riferibilità allo stesso delle scritture de quibus. Precisato, infatti, che la pretesa restitutoria è riferita alla dazione di somme in prestito per finanziare un investimento, in forza di accordo intercorso fra le originarie parti, le scritture private prodotte attestano come abbia lo stesso debitore riconosciuto la dazione degli importi. Allora appare preliminare l’accertamento della opzione di fondo che avrebbe dovuto caratterizzare l’iter valutativo del giudice di prime cure circa la riferibilità delle dichiarazioni allo stesso R.E., come richiesto dai suoi eredi, parti dell’odierno giudizio.
Di converso il giudice unico, legittimamente rilevata d’ufficio la nullità delle scritture per realizzazione, attraverso il collegamento negoziale, di accordo in frode alla legge, non ha poi però proceduto a dare corso all’ulteriore accertamento conseguente alle domande delle parti di valutazione delle medesime scritture sotto il profilo della esistenza del fatto materiale della dazione de qua e quindi di accertamento negativo dell’obbligazione restitutoria. Così facendo, il tribunale non ha considerato che gli elementi costitutivi delle difese degli eredi non riguardano solo la dazione del denaro, ma la stessa esistenza del titolo per la restituzione, il che comprende anche che, a norma dell’art. 1372 c.c., chi agisce per la restituzione di una somma versata a titolo di mutuo, ha l’onere di provare che il soggetto nei confronti del quale ha svolto la domanda aveva assunto, in proprio, l’obbligo di restituire la somma ricevuta.
Ne consegue che, ove l’attore (opposto – attore in senso sostanziale, come nella specie) fornisca la prova del fatto costitutivo così inteso, vale a dire non solo la dazione di denaro ma anche l’impegno dell’accipiens alla sua restituzione, e quindi il titolo (e cioè il mutuo) a fondamento della stessa, la domanda proposta per la restituzione in suo favore della somma così versata (o del suo residuo) deve essere accolta a meno che la controparte (opponenti – convenuti in senso sostanziale) non deduca e dimostri in giudizio, com’è suo onere, la sussistenza, rispetto a tale pretesa, di fatti estintivi, modificativi o impeditivi, come occorso nella specie fin dalle prime difese con il disconoscimento delle sottoscrizioni apposte dal loro dante causa alle scritture de quibus.
Le due censure vanno quindi accolte, con conseguente rinvio della causa alla Corte di appello di Venezia ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 1, vertendosi in ipotesi di rinvio prosecutorio per il completamento del giudizio ai fini della decisione sul merito della domanda di accertamento negativo (e non solo) delle pretese restituzioni, in applicazione del principio di diritto sopra enunciato da questa Corte (cfr Cass., Sez. Un., n. 5087 del 2008; Cass. n. 11844 del 2016).
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il quinto motivo del ricorso principale e l’unico motivo del ricorso incidentale, rigettati gli altri motivi del ricorso principale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 23 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2021