Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.198 del 11/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2122/2020 proposto da:

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI MILANO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;

– ricorrente –

contro

L.Y.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3503/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/08/2019 R.G.N. 2026/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/10/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, ha deposito conclusioni scritte.

RILEVATO

Che:

1. il Tribunale di Milano, in accoglimento del ricorso presentato da L.Y. – la quale aveva allegato di avere lasciato nell’anno 2001 la Corea del Nord per fuggire dal regime dittatoriale di K.Y.U. e di essersi stabilita in Corea del Sud dove aveva ottenuto la cittadinanza nell’anno 2006 e dalla quale era stata costretta ad allontanarsi (stabilendosi in Italia nell’ottobre 2014) in quanto condannata alla pena di otto mesi di reclusione per “false attestazioni a pubblico ufficiale al fine di accusare una persona”, per il solo fatto dell’archiviazione della denunzia contro la persona da lei incolpata riconosceva alla richiedente lo status di rifugiata rispetto alla Corea del Nord e la protezione umanitaria rispetto alla Corea del Sud;

2. la Corte di appello di Milano, con sentenza in data 20.8.2019, in parziale accoglimento del gravame del Ministero dell’Interno, ha respinto la domanda relativa allo status di rifugiata rispetto alla Corea del Nord e accertato il diritto della richiedente alla protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6;

3. ha ritenuto il giudice di appello che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata rispetto alla Corea del Nord, paese natale della richiedente ed in relazione al quale era da escludere la potestà di rimpatrio dello Stato italiano; L.Y., infatti, quale cittadina della Corea del Sud era abilitata a indicare quest’ultimo Stato come quello di respingimento;

3.1. l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria è stato fondato sulla considerazione che in caso di rientro forzoso in Corea del Sud, la L. sarebbe stata sottoposta a reclusione non solo in base ad un fatto non previsto come reato dalla legge italiana (non essendo stata accertata in modo positivo la intenzionale falsità della sua denunzia contro un terzo) ma anche in base ad un processo senza garanzie per l’imputata, tanto da essersi concluso con una sentenza priva di una vera e propria motivazione; tale accertamento è stato tratto da altra sentenza della Corte di appello che aveva negato la richiesta estradizione della L. nella Corea del Sud; la considerazione, in caso di rientro nel paese di origine, dell’ingiusto pericolo per il fondamentale diritto alla libertà personale, in una con il livello di integrazione raggiunto in Italia dalla richiedente, secondo quanto desumibile dall’attività di lavoro espletata e dalla capacità di autonomo sostentamento, configuravano secondo la sentenza impugnata i presupposti per il riconoscimento della tutela umanitaria;

4. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il Ministero dell’Interno sulla base di un unico articolato motivo; la parte intimata non ha svolto attività difensiva;

5. il PG ha depositato requisitoria scritta con la quale ha chiesto la trattazione in pubblica udienza della causa in ragione del rilievo nomofilattico delle questioni affrontate.

RILEVATO

Che:

1. con l’unico motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al riconoscimento della protezione umanitaria; si assume che il giudice di secondo grado aveva illegittimamente ancorato la condizione di vulnerabilità della richiedente alla circostanza che nel paese di origine la stessa avrebbe dovuto scontare una pena detentiva di otto mesi per un fatto non previsto dalla legge italiana come reato; in tal modo aveva mostrato di riconoscere la protezione umanitaria sulla base della sentenza della Corte di merito resa nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di estradizione, istituto fondato su presupposti diversi da quelli della protezione umanitaria ed ispirato all’autonoma finalità di repressione dei crimini nell’ambito della cooperazione internazionale; in questa prospettiva si ascrive alla sentenza impugnata di avere configurato un rapporto di pregiudizialità tra la procedura di estradizione e la procedura di protezione internazionale, rapporto privo di fondamento normativo; si assume, inoltre, l’errore del giudice di appello per avere valorizzato quale presupposto esclusivo e determinante al fine del riconoscimento della protezione umanitaria, l’inserimento sociale e lavorativo nel nostro paese e per avere attribuito esclusivo rilievo alla condanna alla reclusione di otto mesi, senza alcuna analisi in grado di configurare la medesima come violazione di un nucleo ineliminabile di diritto umani;

2. il motivo è inammissibile; le censure articolate muovono, infatti dalla non corretta lettura delle sentenza impugnata in relazione ai presupposti ai quali è stata ancorata la conferma della protezione umanitaria;

2.1. non risponde al vero, che la decisione, come assume parte ricorrente, è stata fondata su un preteso rapporto di pregiudizialità tra il procedimento relativo alla estradizione e quello in tema di protezione internazionale; il giudice di appello, infatti, ha espressamente dato atto della diversità dei presupposti vincolanti il procedimento di estradizione rispetto a quelli rilevanti in tema di protezione internazionale (v. sentenza, pag. 5, primo capoverso) e si è limitato a utilizzare l’accertamento operato in sede di estradizione (sia in merito alla inconfigurabilità del fatto per il quale la L. era stata condannata come fatto penalmente rilevante per la legge italiana, sia in merito alla circostanza dell’assoluta assenza di garanzie del procedimento penale all’esito del quale la odierna intimata era stata condannata) valutandolo nella specifica ottica dei presupposti della protezione umanitaria e cioè considerando la situazione di vulnerabilità della richiedente derivante dalla violazione, nel paese di origine, di diritti umani fondamentali, quali il diritto di difesa ed il diritto alla libertà personale;

2.2. la Corte di merito inoltre, a differenza di quanto assume il Ministero ricorrente, non si è limitata a considerare l’inserimento sociale e lavorativo quale presupposto esclusivo e determinante al fine del riconoscimento della protezione umanitaria ma ha considerato tale elemento unitamente alla prospettata, ingiusta limitazione della libertà personale in caso di rientro in patria, quale fattore che concorreva a determinare una situazione di concreta vulnerabilità personale giustificativa della protezione attribuita;

2.3. in tale contesto, considerate le specifiche caratteristiche della vicenda narrata in relazione alla ingiustificata limitazione della libertà personale, non si richiedeva, come, invece, prospettato dal Ministero ricorrente lo specifico approfondimento, mediante ricorso a fonti qualificate, della situazione delle carceri e del trattamento riservato ai detenuti nella Corea del Sud;

2.4. il riconoscimento della protezione umanitaria non è stato collegato, infatti, alle caratteristiche della esecuzione della pena detentiva nel paese di origine della richiedente ma alla intrinseca ingiustizia della condanna alla pena detentiva medesima, quale frutto di un procedimento penale non assistito da adeguate garanzie di difesa, e di una sentenza, resa all’esito dello stesso, sostanzialmente priva di motivazione; la effettiva ragione alla base del decisum, come sopra identificata, non risulta investita da specifica censura sotto il profilo della conformità alla stessa al parametro di legge, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, nel testo modificato dalla L. n. 110 del 2017, art. 3, ed in questa prospettiva non si ravvisano i presupposti per la rimessione in pubblica udienza come richiesto da P.G.;

3. non si fa luogo al regolamento delle spese di lite non avendo l’intimata svolto attività difensiva;

4. l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non trova applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (Cass. n. 1778/2016).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2021

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