Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.22755 del 12/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – rel. Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21256-2014 proposto da:

D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TEVERE 46, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO BIANCA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALDO D’AULA;

– ricorrente –

contro

COMUNE VARESE, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI 47, presso lo studio dell’avvocato PIO CORTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ELIO CARRASI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2156/2014 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA, depositata il 22/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2021 dal Consigliere Dott. ANNA MARIA FASANO;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. STANISLAO DE MATTEIS che ha chiesto che la Corte rigetti il ricorso. Conseguenze di legge.

FATTI DI CAUSA

D.A. impugnava dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Varese cinque avvisi di accertamento relativi alle annualità 2007-2008-2009-2010-2011, notificati in data *****, relativi a parziale versamento TIA. Il ricorrente lamentava la violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, atteso che gli atti impositivi non contenevano alcun riferimento volto a spiegare come mai la superficie calpestabile dell’immobile adibito a studio, pur essendo catastalmente di mq. 65, era stata invece quantificata dal Comune in mq. 118. Predicava anche la violazione dell’art. 23 Cost., in quanto l’Ufficio aveva erroneamente inserito nella superficie tassabile i posti auto situati nel seminterrato del complesso immobiliare. La Commissione Tributaria Provinciale di Varese, con sentenza n. 39/11/13, annullava gli avvisi per carenza di motivazione ed in ogni caso per insussistenza dei presupposti impositivi. Il Comune di Varese proponeva appello dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che, con sentenza n. 2156/38/2014, accoglieva il gravame. I giudici di appello ritenevano gli atti impositivi adeguatamente motivati, rilevando che la diversa superficie accertata ai fini TIA riguardava la rilevazione delle superfici degli immobili dalle schede catastali da cui risultava che il contribuente era proprietario sia dell’alloggio di mq. 65 che dei tre posti auto nel seminterrato del medesimo condominio. La Commissione Tributaria Regionale, inoltre, evidenziava che era priva di rilievo la circostanza che i tre posti auto non erano “veri e propri box”, atteso che dalla documentazione fotografica si rilevava che le tre unità immobiliari erano poste al piano interrato del condominio di via Sempione 4 ed erano dotate di allacciamento alla rete elettrica. D.A. ricorre per la cassazione della sentenza svolgendo sei motivi, illustrati con memorie. Il Comune di Varese si è costituito con controricorso ed ha presentato memorie. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha concluso, D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, (inserito dalla L. di conversione n. 176 del 2020), con memorie scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Il ricorso, fissato all’udienza pubblica del 4 maggio 2021, è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, inserito dalla L. di conversione n. 176 del 2020, non avendo nessuna delle parti interessate fatto richiesta di discussione orale.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 125 c.p.c., comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 3, del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 6, comma 2, artt. 50 e 107, nonché dello Statuto del Comune di Varese, art. 45, per inammissibiltà dell’atto di appello in quanto proposto da un difensore privo di valida procura.

Il ricorrente lamenta di avere eccepito l’invalidità della procura alle liti posta in calce all’atto di appello, con la quale, in virtù della delibera di Giunta n. 14 del 28.6.2006, il Sindaco di Varese aveva conferito al difensore la rappresentanza e difesa nel presente giudizio. I giudici dalla Commissione Tributaria Regionale avrebbero errato nel ritenere la validità di tale procura atteso che, in data 1.6.2011, a seguito di tornata elettorale e di proclamazione dei nuovi eletti, si era verificato il rinnovo di tutti e tre gli organi comunali, con sostituzione del sindaco e della Giunta comunale, che mutava sia nella composizione, che nella maggioranza politica, con la conseguenza che la delibera n. 14 del 2006 era da ritenersi superata ed inefficace.

1.1.I1 motivo è infondato. Questa Corte, con indirizzo condiviso, ha affermato che: “Ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto da un Comune, sotto il profilo della sussistenza della procura speciale in capo al difensore iscritto nell’apposito albo, è essenziale che la procura sia stata rilasciata dal soggetto munito dei poteri di conferire mandato (nella specie il Sindaco pro-tempore), in epoca successiva alla sentenza oggetto dell’impugnazione ed anteriormente alla notificazione del ricorso, mentre non rileva che la momento della proposizione del ricorso il Sindaco sia persona fisica diversa da quello che ha rilasciato la procura, dovendo ritenersi che il potere conferito nell’interesse del Comune resti integro nel suo esercizio, a prescindere dal mutamento della persona in carica” (Cass. S.U. n. 11531 del 2009).

2. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, (Statuto del contribuente), con riferimento alla assoluta carenza di motivazione dell’atto impugnato, nonché violazione dell’art. 2697 c.c., e dei principi di diritto comunitario in ordine all’obbligo del contraddittorio. Il ricorrente deduce che la motivazione degli avvisi di accertamento si era fondata essenzialmente sulla affermazione secondo cui: “…eseguita la misurazione della superficie calpestabile dei locali occupati siti in via Sempione 4, adibiti ad uso ufficio, per i quali è stata determinata la base imponibile per la Tariffa di Igiene Ambientale in mq. 118”, sicché tale motivazione non era idonea a dare conto, sia pure sinteticamente, dell’iter logico seguito dall’Ufficio. Il ricorrente lamenta, inoltre, che non sarebbe stato promosso un contraddittorio preliminare volto ad appurare la natura e la destinazione delle aree e la loro idoneità a produrre rifiuti. La sentenza impugnata sarebbe palesemente fuorviante, atteso che il Comune richiama impropriamente una sentenza della Cassazione riferita a locali (box, garage, e locali deposito) allacciati ai servizi di rete, mentre i posti auto, oggetto di accertamento, sarebbero del tutto sprovvisti di utenze. Si argomenta, altresì, che nel corso dei giudizi di merito sarebbe stato appurato che: a) le aree semiscoperte oggetto della ripresa a tassazione non avevano natura di “locali”, ma erano delimitate da sole righe bianche apposte sul pavimento e sovrastate da un’ampia grata; b) non erano mai stata adibite ad uso ufficio, né avrebbero potuto esserlo catastalmente o realmente, essendo adibite a parcheggio; c) non erano mai state oggetto di sopralluoghi, coerenti con l’asserita misurazione della loro superifice calpestabile.

2.1. Le critiche oltre che inammissibili, sono infondate.

L’inammissibilità deriva dalla violazione del principio di autosufficienza, tenuto conto che il ricorrente omette di riportare in ricorso il contenuto dell’atto impugnato, di cui si denuncia il vizio di motivazione. E’ stato, in più occasioni, ribadito che: “In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi” al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso” (Cass. n. 16147 del 2017; Cass. n. 9536 del 2013).

Le critiche sono, altresì, infondate.

La giurisprudenza di questo giudice di legittimità, a cui si vuole dare seguito (non essendoci motivi per discostarsene), ritiene in tema di TARSU, ma il principio è applicabile anche con riferimento alla TIA in ragione della identità di “ratio” del trattamento impositivo, che: “la verifica di adeguate.ua della motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica va condotta in base alla disciplina dettata, per l’accertamento dei tributi di competenza degli enti locali, dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, sicché, ove la rettifica venga effettuata sulla base della variazione della superficie tassabile o della tariffa o della categoria, deve ritenersi sufficiente l’indicazione nell’atto della maggiore superficie accertata o della diversa tariffa o categorie divenute applicabili, in quanto tali elementi, integrati con gli atti generali (quali i regolamenti o altre deli-bere comunali), sono idonei a rendere comprensibili i presupposti della pretesa tributaria, senta necessità di indicare le fonti probatorie e le indagini effettuate per rideterminare la superficie tassabile, potendo ciò avvenire nell’eventuale successiva fase contenziosa”(Cass. n. 20620 del 2019).

Nella fattispecie, l’Ufficio ha adeguatamente adempiuto all’obbligo motivazionale, sulla base di una maggiore superficie accertata oggetto di trattamento impositivo, e delle delibere comunali o altri regolamenti comunali, senza che sia necessario provvedere alla indicazione di alcuna fonte probatoria o di eventuali indagini per rideterminare l’area oggetto di tassazione, bene potendo essere chiarite tali circostanze nella successiva fase contenziosa.

Il ricorrente denuncia, inoltre, l’invalidità dell’atto impositivo, emesso in difetto di contraddittorio preventivo e/o di un sopralluogo.

La necessità di un generale principio che imponga il contraddittorio preventivo in tema di tributi locali non è prevista da alcuna norma dell’ordinamento nazionale o Eurounionale.

Tale principio, di derivazione comunitaria, è unanimanente riconosciuto solo per i tributi “armonizzati”, e solo se espressamente previsto dalla legge per i tributi non armonizzati: nel nostro ordinamento ciò avviene solo in caso di accessi, ispezioni o verifiche presso la sede del contribuente. Le Sezioni Unite, con sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito come l’ambito di applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, è circoscritto agli accertamenti con accessi, ispezioni o verifiche presso i locali del contribuente: al di fuori di tali ipotesi l’Ufficio non ha alcun obbligo di contraddittorio preventivo o redazione di PVC. Per i tributi armonizzati, come l’IVA, invece, l’assenza del contraddittorio endoprocedimentale comporta invece la nullità del conseguente atto impositivo, sempreché il contribuente fornisca elementi idonei a superare la c.d. “prova di resistenza” (Cass. n. 9496 del 2020).

Questa Corte, in più occasioni, ha ribadito il principio secondo cui per i tributi locali non sussiste alcun obbligo di attivare il contraddittorio preventivo endoprocedimentale per effettuare l’attività di accertamento (Cass. n. 2348 del 2021; Cass. n. 29376 del 2020), sicché va esclusa la sussistenza di tale obbligo generalizzato (Cass. n. 33931 del 2019).

3. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e/o violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ordine al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, e al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, con riferimento alla nozione di rifiuto. Il giudice di appello avrebbe rilevato dalla foto prodotta dal ricorrente un interruttore elettrico su un pilastro portante dello stabile, posto sul perimetro esterno dei posti auto di che trattasi, ma ciò non sarebbe idoneo ad integrare l’autonomo allacciamento alla rete richiesto dalla giurisprudenza per legittimare l’equiparazione dei posti auto ai box e garage. I giudici della Commissione Tributaria Regionale avrebbero errato nell’equiparare, ai fini della tassazione, i posti auto ai box o alle autorimesse su base esclusivamente presuntiva e senza svolgere alcuna considerazione in merito alla concreta produttività di rifiuti.

4. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del Regolamento Comunale, art. 13 e 22, per l’applicazione della tariffa rifiuti. Il ricorrente argomenta che i due articoli stabiliscono, secondo una sequenza logico-giuridica ben determinata, due momenti precisi della tassazione, di cui il primo (art. 13) è propedeutico al secondo (art. 22). L’art. 13 stabilisce che: “non sono soggetti a tariffa e dunque non rientrano nella determinazione della superficie utile: i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la loro natura o per il particolare uso a cui sono destinati”, mentre il successivo art. 22, dispone che, nel caso in cui un bene abbia le caratteristiche per essere assoggettato a TIA ed in esso si esplicano “attività distintamente classificate, svolte nell’ambito degli stessi spazi soggetti a tariffa, per le quali non sia possibile distinguere in modo preciso le parti di superficie rispettivamente utilizzate, si fa riferimento all’attività principale svolta”. Il Comune, avvalendosi dell’art. 22, dopo aver escluso l’applicazione dell’art. 13, ha applicato l’art. 11 (riferito ad uffici commerciali, agenzie, studi professionali, ambulatori, laboratori di analisi) ed assimilato arbitrariamente i posti auto alla superficie destinata a studio legale teorizzando una improbabile “perinenzialità” delle anzidette aree.

5. Con il quinto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 6 e 49 e ss., con riferimento all’erronea equiparazione ai fini della tassa rifiuti dei box, garage e autorimesse ai posti auto aperti e scoperti, atteso che le superfici oggetto di tassazione, esposte alle intemperie come aree scoperte, come i posti auto situati lungo la pubblica via, non potrebbero essere utilizzate se non per la temporanea sosta delle auto e, quindi, non soggette a tassazione.

6. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione logica.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata lamentando che i giudici di appello avrebbero omesso qualsiasi pronuncia con riguardo alla asserita inidoneità dei posti auto scoperti a produrre rifiuti, incorrendo anche nei denunciati vizi di violazione di legge.

Si sostiene, invero, la non assimilabilità, ai fini della TIA idei posti auto scoperti ai box e garage.

6.1. Le prediche sono prive di rilievo.

Non è contestato, per essere stato riferito dal ricorrente nello sviluppo illustrativo dei motivi, che i posti auto oggetto di accertamento sono situati all’interno di un piano seminterrato e che trattasi di aree semi-coperte, delimitate da righe bianche apposte sul pavimento e sovrastate da un’ampia grata.

Il presupposto della tassa di smaltimento dei rifiuti ordinari solidi urbani, secondo il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti: l’esenzione dalla tassazione di una parte della aree utilizzate perché ivi si producono rifiuti speciali, come pure l’esclusione di parti di aree perché inidonee alla produzione di rifiuti, sono subordinate all’adeguata delimitazione di tali spazi ed alla presentazione di documentazione idonee a dimostrare le condizioni dell’esclusione o dell’esenzione; il relativo onere della prova incombe al contribuente. L’art. 62, pone, quindi, a carico dei possessori di immobili una presunzione legale relativa di produzione di rifuti. Ne consegue che l’impossibilità dei locali o delle aree a produrre rifiuti per loro natura o per il particolare uso, prevista dall’art. 62, comma 2, non può essere ritenuta in modo presunto dal giudice tributario, essendo onere del contribuente indicare nella denuncia originaria o di variazione le obiettive condizioni di inutilizzabilità, le quali devono essere “debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione” (Cass. n. 11351 del 2012; Cass. n. 16858 del 2014; Cass. n. 9731 del 2015; Cass. n. 1722 del 2016; Cass. n. 8581 del 2017).

6.2. Ciò premesso, questa Corte ha chiarito, in tema di TARSU, che mentre nel caso di autorimesse scoperte esterne, le stesse costituiscono pertinenza dell’abitazione e, quindi, sono automaticamente escluse dal tributo (anche dalla TARI e mente della L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 641), nell’ipotesi di garage siti all’interno dei locali è applicabile la tassa sui rifiuti, siano essi autonomamente accatastati come unità immobiliari o siano essi semplici posti auto assegnati in via esclusiva ad un occupante dell’immobile. Il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 65, comma 1, come costituito dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 68, nello stabilire che la tassa può essere commisurata a determinati parametri, quantità e qualità dei rifiuti prodotti, costi di smaltimento, teorici o effettivi a seconda della popolazione comunale, consente di conformare la tariffa anche ad altri parametri, reperibili entro i limiti della logica e dell’equità contributiva, ossia della legittimità dell’atto amministrativo. Perciò, secondo questa Corte “non è priva di logica giuridica l’affermazione secondo cui i garage sono soggetti a tarsie perché anche i garage producono rifiuti apprezzabili ” (Cass. n. 4961 del 2018 conf. Cass. n. 22124 del 2017). Gli enunciati principi espressi da questa Corte in tema di TARSU sono certamente applicabili alla fattispecie in esame che riguarda l’imposizione ai fini TIA.

7. Con il sesto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del principio comunitario “chi inquina paga” recepito dalla Dir. n. 75/442, art. 11, nonché violazione del principio comunitario di proporzionalità. Il ricorrente deduce che la Dir. n. 2006/12/CE, art. 15, (poi sostituita dalla Dir. n. 2008/98/CE) stabilisce che la responsabilità finanziaria per lo smaltimento dei rifiuti ricade sul detentore/produttore che consegna i suoi rifiuti ad un raccoglitore o ad un impresa di smaltimento. Nella fattispecie sarebbe inverosimile l’applicazione della tassa rifiuti in misura abnorme e, in ogni caso, certamente sproporzionata rispetto alla produzione del rifiuto complessivamente prodotto anche nelle suddette superfici.

7.1. Il mezzo non può trovare accoglimento, atteso che con specifico riferimento alla tassabilità dei box auto, si è affermato che: “La disciplina della Tarsu contenuta nel D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, sulla individuazione dei presupposti della tassa e sui criteri per la sua quantificazione, non contrasta con il principio comunitario “chi inquina paga”, sia perché è consentita la quantificazione del costo di smaltimento sullà base della superfice posseduto, sia perché la detta disciplina non fa applicazione di regimi presuntivi che non consentano un’ampia prova contraria, ma contiene previsioni (v. artt. 65 e 66) che commisurano la tassa ad una serie di presupposti variabili o a particolari condizioni in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che aveva disapplicato la disciplina nazionale sulla TARSU, ritenendola in contrasto con il principio comunitario “chi inquina paga”, nella parte in cui prevedeva il pagamento del tributo per un box auto adibito ad autorimessa”. (Cass. n. 2202 del 2011, Cass. n. 11351 del 2012).

8. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 1000,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello pagato, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’udienza pubblica effettuata da remoto, il 4 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021

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