Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.23490 del 26/08/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 4682/2019 r.g. proposto da:

M.C., (cod. fisc. *****), e S.R., (cod.

fisc. *****), rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dagli Avvocati Sebastiano Di Lascio, e Alessandro Santoro, con cui elettivamente domiciliano in Roma, Via Magnagrecia n. 13, presso lo studio dell’Avvocato Di Lascio.

– ricorrenti –

contro

SANITA’ s.r.l., in liquidazione (cod. fisc. e p.Iva *****), con sede in Roma, alla via Bassana del Grappa n. 4, in persona del legale rappresentante pro tempore il liquidatore Avv. Massimiliano Marotta, rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avvocato Riccardo Szemere, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, Via Girolamo da Carpi.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, depositata in data 28.11.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/5/2021 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

RILEVATO

Che:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Roma, decidendo in sede di giudizio di rinvio a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 22784/2014, ha rigettato l’appello proposto da M.C. e S.R. nei confronti della SANITA’ s.r.l. in liquidazione, avverso la sentenza emessa in data 12 settembre 2002 dal Tribunale di Roma.

La corte del merito ha ricordato, in primo luogo, la vicenda processuale, evidenziando che: i) con atto di citazione notificato in data 24 settembre 2000 M.C., Sa.Fr. e S.R. avevano impugnato innanzi al Tribunale di Roma le delibere assembleari della spa Sanità datate 11 luglio 2000, con le quali erano stati approvati i bilanci relativi agli esercizi 1992 e 1999, era stata respinta l’azione di responsabilità dei confronti degli amministratori, era stato eletto un nuovo consiglio di amministrazione e conferito l’incarico alla società di revisione Reconta Ernest & Yuong; ii) con la sentenza n. 34684/2002, il Tribunale di Roma aveva respinto le domande degli attori, rilevando che: a) la relazione dei sindaci aveva sanato i vizi relativi alla non trasparenza di due operazioni relative al bilancio 1992 (acquisizioni di partecipazioni in società operanti nel settore sanitario e cessione di partecipazioni nelle società Pejo e Recoaro); b) l’apparente sparizione del credito nei confronti della Idrominerale Romana Bagnasco era dovuta invece all’afferenza del credito all’esercizio 1998; c) la contestazione relativa ai crediti ammontanti a 32 miliardi di Lire era irrilevante, trattandosi di crediti della società Policlinico Casilino; d) era insussistente una situazione di conflitto di interessi della Banca di Roma rispetto alle delibere approvate; e) erano inoltre irrilevanti i fatti ascritti al Presidente del collegio sindacale e alla Banca di Roma; iii) avverso la sentenza del Tribunale di Roma avevano proposto appello M.C., Sa.Fr. e S.R. e la Corte di appello, accogliendo l’eccezione pregiudiziale di difetto di interesse degli appellanti per intervenuta perdita della qualità di soci della spa Sanità (stante la mancata sottoscrizione della ricapitalizzazione sociale), con la sentenza n. 3752/2007, aveva ritenuto precluso l’esame del merito con integrale compensazione delle spese di lite; iv) impugnata la sentenza della Corte di merito da ultimo indicata da M.C., Sa.Fr. e S.R. con ricorso per cassazione, la Corte di legittimità, con la sentenza n. 22784/2014, aveva accolto il ricorso limitatamente alle posizioni di M.C. e S.R., ritenendo che l’accertamento della qualità di socio era stata correttamente ancorata dalla corte territoriale, per la verifica della legittimazione all’azione di impugnazione, al momento della proposizione dell’impugnazione e anche al momento della decisione della controversia, per quanto concerne la posizione del Sa. (escludendola), ma era stata omessa per le altre due appellanti per le quali la qualità di socie emergeva dagli atti; v) il giudizio era stato pertanto riassunto innanzi alla Corte di appello di Roma da M.C. e S.R.; vi) il primo motivo di appello (riguardante la censura relativa alla riapprovazione del bilancio al 31 dicembre 1992, nonostante il già intervenuto annullamento giudiziale da parte del Tribunale di Brescia con sentenza passato in giudicato) era inammissibile per mancanza di specificità delle censure, posto che quest’ultime non avevano intaccato la ratio decidendi della sentenza emessa dal primo giudice secondo cui il vulnus relativo alla mancata chiarezza e precisione del bilancio nella descrizione delle operazioni di gestione nell’anno 1992 era stato superato attraverso il nuovo documento contabile approvato; vii) in relazione al secondo motivo di gravame, le censure erano infondate perché: 1) la pronuncia di nullità della Delib. di approvazione del bilancio di esercizio si traduceva nella nullità della Delib. di approvazione del bilancio dell’esercizio successivo, ma non anche nel caso di illiceità del bilancio se le voci oscure siano poi rese chiare nei bilanci successivi, come avvenuto nel caso in esame; 2) per il bilancio chiuso al 31 dicembre 1999, le doglianze degli appellanti non avevano censurato specificatamente l’affermazione del Tribunale secondo cui, in relazione alla partecipazione Idrominerale Romana Bognasco, la relativa omissione era stata determinata dalla circostanza che *****, controllante di *****, era stata già ceduta nel corso del precedente esercizio e, quanto al credito di 32 miliardi di Lire, la titolarità degli stessi era in capo a Policlinico Casilino; 3) le doglianze relative alle presunte false dichiarazioni del Presidente del Collegio sindacale erano assolutamente generiche e dunque non accoglibili; 4) in relazione alla questione della mancata promozione dell’azione di responsabilità sociale, le censure delle appellanti erano, anche in tal caso, generiche e comunque non idonee a contrastare l’affermazione del Tribunale secondo cui era incomprensibile la ragione del conflitto di interesse della Banca di Roma nella deliberazione sull’azione di responsabilità ovvero in quella della nomina del nuovo amministratore e della conferma della società di revisione.

2. La sentenza, pubblicata il 24.11.2018, è stata impugnata da M.C. e S.R. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui la SANITA’ s.r.l. in liquidazione ha resistito con controricorso.

La parte ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo le ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione alla regolamentazione delle spese nel giudizio di appello in sede di rinvio. Si duole la parte ricorrente del fatto che sarebbe stata condannata al pagamento anche delle spese del giudizio di legittimità nonostante fosse risultata vittoriosa in quel giudizio.

1.1 Il motivo è infondato.

Sul punto giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa corte, in materia di procedimento civile, la soccombenza, ai fini della liquidazione delle spese, deve essere stabilita in base ad un criterio unitario e globale sicché viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte come soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (v. Sez. 3, Sentenza n. 15483 del 11/06/2008; in senso conforme, v. anche: Sez. 3, Sentenza n. 17523 del 23/08/2011; Sez. 6 – L, Ordinanza n. 6259 del 18/03/2014; Sez. L, Sentenza n. 11423 del 01/06/2016; Sez. 3, Ordinanza n. 9064 del 12/04/2018).

Ebbene, sulla base dei principi sopra ricordati e qui riaffermati, il provvedimento di regolazione delle spese di lite adottato dalla corte territoriale, anche in ordine alla fase del giudizio di legittimità, è esente da possibili censure, avendo regolato le stesse sulla base del corretto principio della soccombenza secondo un criterio unitario e globale dell’esito della lite.

2. Con il secondo mezzo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti.

2.1 Il motivo è inammissibile per le ragioni che seguono.

2.1.1 Occorre ricordare in premessa che, secondo la giurisprudenza di vertice espressa da questa Corte (cfr. Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014), l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Così, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. sempre ss.uu. 5053/2014, cit. supra).

2.1.2 Ciò posto, rileva il Collegio come la parte ricorrente – nell’esteso e disarticolato motivo di doglianza qui in esame, lungi dall’indicare il “fatto storico” decisivo nel cui omesso esame sarebbe incorsa la corte territoriale intenda invece sollecitarlo ad una rilettura di merito della vicenda processuale (ed anche extraprocessuale, in molti punti) già scrutinata dai giudici del merito, attraverso una rilettura degli atti istruttori, peraltro solo disordinatamente evocati in questo giudizio di legittimità.

2.2 Più in particolare, va segnalato che gli argomenti esposti – come già sopra indicato, non in modo idoneo ad enucleare i fatti storici di cui si assuma l’omesso esame, secondo il paradigma normativo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – non si distinguono tra le tesi esposte dai ricorrenti e le affermazioni, non verificabili perché prive di indicazione agli atti di causa eventualmente acquisiti nel corso del processo, riconducibili a provvedimenti giudiziari provenienti da altre autorità giudiziarie diverse da quelle ora direttamente coinvolte nella vicenda processuale qui ancora sub iudice.

2.3 Non comprensibili risultano essere le affermazioni riconducibili alla pubblicazione “L’organizzazione criminale di C.G.” che non può certo essere ricondotto nel paradigma applicativo di cui al sopra richiamato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e che non può neanche essere considerato un documento probatoriamente rilevante ai fini del decidere di cui la corte territoriale avrebbe colposamente omesso l’esame.

2.4 Ma la valutazione di inammissibilità del motivo in esame è viepiù rafforzata dal rilievo che le doglianze così proposte dalle ricorrenti neanche censurano adeguatamente le rationes decidendi poste a sostegno del rigetto della domanda proposta dalle appellanti.

Sul punto, non può essere dimenticato, in termini generali, che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali “rationes decidendi” (cfr. Sez. U., Sentenza n. 7931 del 29/03/2013; Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14/02/2012; Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9752 del 18/04/2017; Sez. 5 -, Ordinanza n. 11493 del 11/05/2018; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16314 del 18/06/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 18119 del 31/08/2020). Ed invero, occorre evidenziare – in relazione alle singole censure proposte nel motivo qui in esame – che, per quanto concerne la Delib. di approvazione del bilancio del 1992, la corte territoriale aveva puntualmente specificato che le appellanti erano venute meno all’obbligo processuale di puntuale censura dell’affermazione già contenuta nella sentenza di primo grado secondo cui la nuova stesura del bilancio del 1992 aveva ampiamente emendato i vizi già riscontrati dal Tribunale di Brescia nella decisione di annullamento del deliberato di approvazione del predetto bilancio, con ciò rilevando l’inammissibilità del relativo motivo di gravame ex art. 342 c.p.c., ratio che non è stata espressamente censurata in questo giudizio dalle ricorrenti che neanche hanno indicato ove nell’atto di appello in riassunzione avessero espressamente sollevato doglianza sulla statuizione del primo giudice ritenuta, così solo genericamente gravata nell’atto di appello.

2.5 Del pari, analoga conclusione può essere raggiunta anche in relazione alla censura attinente le altre delibere assembleari impugnate per presunto conflitto di interesse del socio di maggioranza, in relazione alle quali la corte di merito aveva evidenziato che il relativo motivo di censura in appello non obbediva ai criteri di specificità di cui all’art. 342 c.p.c., ratio anch’essa non adeguatamente censurata in questo giudizio di legittimità.

2.6 A ciò va aggiunto che anche la statuizione relativa all’approvazione del bilancio del 1999 – secondo la quale è stata ritenuta legittima la relativa Delib. di approvazione perché le “voci oscure” del bilancio erano state chiarite nei bilanci successivi – non è stata oggetto di espressa censura nei motivi di doglianza in esame, così rendendo inammissibile le restanti censure formulate nel motivo che devo ritenersi, pertanto, del tutto decentrate rispetto alle rationes decidendi già sopra ricordate e che sembrano invece dirette a rievocare foschi episodi della vita economica e finanziaria italiana il cui accertamento deve essere invece rimesso ad altri sede giudiziarie.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento, in favore della contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472