LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 31080/2018 proposto da:
FININT REVALUE SPA, quale procuratrice di REV GESTIONE CREDITI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIBULLO N. 10, presso lo studio dell’avvocato AGNESE CASILLO, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE SOLLAZZO;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO ***** SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRIZZI, N. 7, presso lo studio dell’avvocato SIMONETTA TELLONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SABATINO BESCA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1694/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 20/09/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/11/2020 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che:
la REV Gestione Crediti s.p.a., quale cessionaria del credito di Commercio e Finanza s.p.a., proponeva ricorso per la cassazione della sentenza n. 1694 del 2017, della Corte di appello di L’Aquila, articolato in cinque motivi, esponendo che:
– la cedente del credito aveva concesso in leasing c.d. di ritorno un immobile alla *****, s.r.l.;
– aveva convenuto in giudizio l’amministrazione fallimentare dell’utilizzatrice, indicata come inadempiente, chiedendo l’accertamento della proprietà del bene e la condanna al conseguente rilascio;
– il Tribunale aveva rigettato la domanda ritenendo il contratto in violazione del divieto di c.d. patto commissorio;
– la Corte di appello aveva confermato la decisione di prime cure, osservando che era risultata una significativa sproporzione tra valore del bene ed effettivo costo di traslazione della proprietà del bene poi concesso in leasing, tenuto conto anche della marcata anticipazione canoni imputata a pagamento di quel prezzo, senza che fosse concordato un patto c.d. marciano, volto a stornare, in favore dell’originaria venditrice, che a quel tempo versava in difficili condizioni economiche, una congrua differenza in ragione del valore del bene trattenuto in proprietà dalla concedente, e anzi risultando pattuiti il trattenimento dei ratei versati e la spettanza di quelli a scadere;
resiste con controricorso il Fallimento ***** s.r.l., che, altresì, ha depositato memoria;
Rilevato che:
con il primo motivo si prospetta l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso, rappresentato dal documento di sintesi Allegato A al contratto, in cui erano contenute disposizioni che allineavano lo schema negoziale a quello valutato legittimo dal Collegio di appello evocando il patto c.d. marciano, e in particolare:
– l’art. 20 che, a differenza degli artt. 13 e 14 richiamati dalla Corte territoriale ma genericamente riferiti ai vari leasing pattuiti dalla concedente, per lo specifico contratto di leasing immobiliare prevedeva invece l’obbligazione di pagamento dei canoni scaduti;
– l’art. 21 che, disciplinando il caso della distruzione o del rilascio dell’immobile, prevedeva l’obbligazione di pagamento di un’indennità, a carico dell’utilizzatrice, salva detrazione di somme incassate a titolo di esproprio o conseguite disponendo di residue porzioni immobiliari;
– l’art. 15 con cui si stabiliva la retrocessione di somme incassate dal concedente a titolo assicurativo;
con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.c., n. 4 e degli artt. 1362 e 2744 c.c., poichè la Corte di appello, omettendo l’esame di cui alla prima censura, avrebbe mancato di motivare effettivamente e compiutamente in ordine all’ermeneutica contrattuale;
con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116,118 TUB, della Delib. CICR 4 marzo 2013 e delle circolari della Banca d’Italia del 27 maggio 2003 e del 29 luglio 2009, poichè la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che il contratto si componeva di una disciplina generale, coerente con la vigilanza amministrativa, e delle condizioni particolari relative allo specifico contratto ed effettivamente vincolanti, così come esposto nella prima censura;
con il quarto motivo si prospetta la violazione dell’art. 1322 c.c., poichè la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che:
– il contratto era funzionale all’attività d’impresa e meritevole di tutela;
– non esistevano pregresse situazioni debitorie dell’utilizzatrice nei confronti della concedente, nè conosciute difficoltà economiche;
– non vi era disallineamento tra importo dei ratei e prezzo di riscatto; con il quinto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e segg., artt. 191 e 201 c.p.c., poichè la Corte di appello avrebbe errato ritenendo provata la sproporzione tra valore del bene e prezzo di vendita sulla base della sola consulenza di parte peraltro contestata a differenza di quanto affermato nella sentenza gravata;
Rilevato che:
il primo motivo è inammissibile;
infatti:
a) si deduce una specifica questione che, come eccepito in controricorso, la ricorrente non dimostra di aver allegato e coltivato nelle fasi di merito, e dunque nuova e come tale inammissibile in questa sede;
b) non si riporta compiutamente il tenore dell’art. 21 in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 (Cass., Sez. U., 27/12/2019, n. 34469), fermo che per la parte sintetizzata (pag. 10, 2 capoverso, del ricorso) sembra parlarsi di obbligo di pagamento dei canoni a scadere anche per l’ipotesi di rilascio e non solo di distruzione dell’immobile;
c) prim’ancora, non si dimostra che le ragioni fattuali implicanti l’esame in parola siano state differenti tra primo e secondo grado, così da evitare l’inammissibilità prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, “ratione temporis” applicabile (Cass., 22/12/2016, n. 26774, Cass., 06/08/2019, n. 20994, Cass., 26/08/2020, n. 17823);
il secondo motivo è inammissibile;
la censura mira a eludere il divieto sotteso all’inammissibilità di cui al precedente motivo, rivelandosi infatti del tutto infondata, posta la manifesta sussistenza, nella sentenza oggetto di gravame, di una decifrabile motivazione, quale riportata in parte narrativa, in punto di ermeneutica contrattuale e divieto di patto c.d. commissorio;
il terzo motivo è inammissibile;
la censura prospetta questioni nuove negli stessi sensi esposti sub a) scrutinando il primo motivo;
il quarto motivo è inammissibile;
la censura è apodittica e non coglie la “ratio decidendi” fondata sul riscontro di indici della frode alla legge, quali la sproporzione tra valore del bene e prezzo di alienazione, tenuto altresì conto dell’anticipazione dei ratei imputata a prezzo di acquisto, la condizione di difficoltà economica della venditrice indicata come non contestata dalla Corte territoriale – fermo restando che il rilievo della conoscenza di tale condizione non si dimostra essere stato fatto nelle fasi di merito – e la sussistenza delle clausole contrattuali opposte al patto c.d. marciano e sopra discusse;
il quinto motivo è inammissibile;
la Corte territoriale ha affermato che la consulenza di parte non era stata specificatamente contestata e alla stessa non era stata contrapposta alla documentazione (pag. 9 della sentenza impugnata);
la censura riporta il tenore dell’appello da cui si evince la contestazione della perizia in sè ma non, specificatamente, dei suoi contenuti ricostruttivi, men che meno in uno ad altra speculare documentazione;
il motivo non incide, dunque, sulla complessiva ragione decisoria pretesamente aggredita;
quanto poi alla violazione dell’art. 2697 c.c., essa si configura solamente se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 35, e succ. conf.);
è evidente che, nel caso, alla luce di quanto sopra esposto, siamo al di fuori del perimetro ricostruito;
spese secondo soccombenza.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di parte controricorrente liquidate in Euro 13.200,00 oltre a 200,00 per esborsi, oltre a spese forfettarie e accessori legali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021