Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.284 del 12/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – rel. Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

C.L., rappresentato e difeso dagli avv. Aronne Bona, bona.brescia.pecavvocati.it, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Luciano Garatti in Roma, via della Giuliana n. 63, come da procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.M., rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Alberici, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via Delle Fornaci, n. 38, in forza di procura speciale in calce all’atto;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza App. Brescia 25/05/2018, n. 893/2018, in R.G. n. 284/2016, rep. 801/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 22 dicembre 2020 dal Presidente relatore Dott. Ferro Massimo.

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. C.L. impugna la sentenza App. Brescia 25/05/2018, n. 893/2018, in R.G. n. 284/2016, rep. 801/2018, che riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Brescia n. 2578 del 04.09.2015 la quale, nel respingere la sua domanda di accertamento della società di fatto fra lo stesso C. e M. B., accertava un residuo credito dell’attore (e nei confronti di B.) per soli Euro 6.499,98, pari alla differenza tra le rispettive poste attive reciprocamente avanzate in giudizio; il giudice d’appello, adito da B. e con l’attuale ricorrente a sua volta appellante in via incidentale, riconosceva invece il credito di B. in 89.969,47 Euro e il credito di C. in 51.060,00 Euro e, operatane la compensazione, condannava C. a pagare a B. la somma di 38.909,47 Euro, oltre interessi legali dalla sentenza al saldo;

2. la corte ha premesso che: a) l’attore C. aveva chiesto accertarsi che, nel 2006, con B. aveva convenuto di “intraprendere insieme una attività d’impresa”, costituendo a tale scopo dapprima una società (Ca. Team s.r.l. di B.M.) formalmente riferibile al solo B. ed esercente carpenteria metallica, con divisione dei compiti rispettivamente operativi in capo a B. e amministrativi in capo a C.; b) C. riferiva nel frattempo di aver assunto spese in proprio per l’impresa comune fino al 2009, quando, intendendo B. procedere individualmente ed essendo dunque insorta la necessità di regolare una liquidazione, vi era controversia tra le parti sull’ammontare del dovuto, chiedendo l’attore, oltre ad un importo di 60.000 Euro già concordati a tale titolo, anche corrispettivi per 30.900 Euro per attività di consulenza; c) per il tribunale, l’attività di C. non era stata svolta uti socius, bensì alla stregua di collaboratore esterno, rientrando le varie prestazioni nell’incarico di gestione affidatogli dall’impresa, riconducibile al solo B. e, verificato un prelievo ingiustificato da parte di C. sul conto su cui poteva operare, liquidava all’attore la citata differenza rispetto al maggior compenso riconosciuto per la mera collaborazione;

3. la corte ha così ritenuto che: a) non si poteva ravvisare una società fra le due parti, difettando la necessaria partecipazione di tutti all’esercizio dell’attività in vista di un risultato unitario, secondo le regole dell’ordinamento interno, con conferimenti diretti a costituire un patrimonio comune; b) tale prova non era nel nome Ca, Team s.r.l., posto che, al di là degli acronimi riuniti, l’impresa operava in forma individuale; c) i testi avevano riferito di operare insieme e al pari di C. come collaboratori esterni della ditta individuale; d) canoni di locazione, bollette, tasse venivano pagate con denaro proveniente dal conto dell’impresa e solo movimentato da C., mentre la fidejussione era stata prestata senza rinuncia al diritto di regresso; e) conseguentemente non sussistevano i presupposti per il riconoscimento degli utili, come chiesto in appello incidentale da C.;

4. riunendo l’esame di altro motivo dell’appello incidentale e dell’appello principale la sentenza ha inoltre ritenuto che: f) era sostanzialmente non contestato il credito di C. per le fatture emesse, salvo una somma a deconto incassata in assegno, così diminuendo il dovuto a Euro 28.560; g) quanto ai prelievi dal conto corrente della s.r.l., effettuati da C. sia a propria firma sia con quella di B., non risultavano adeguate o credibili giustificazioni, derivandone l’obbligo di restituzione per 89.969,47 Euro, mentre si potevano ad essi contrapporre solo crediti di C. per il versamento iniziale sul conto per 22.500 Euro, di contro ad altre asserite spese in realtà non provate, per cui l’appello incidentale andata accolto per tale limitata somma;

5. il ricorso è su tre motivi e ad esso resiste con controricorso B.M.; con il ricorso si deduce: a) (primo motivo) violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., per errata valutazione delle risultanze della prova testimoniale volta a provare l’esistenza di una società di fatto, emergendo in modo non equivoco non solo la volontà di C. e B. di costituire una società, ma altresì la costituzione della stessa per fatti concludenti, considerati gli apporti dei soci e la suddivisione dei ruoli; b) (secondo motivo) violazione dell’art. 2697 c.c. – art. 116 c.p.c. per errata valutazione delle risultanze della prova documentale, avendo il giudice d’appello omesso di considerare che le fatture emesse dalla ditta individuale C.L. corrispondevano ad attività effettuata non dal C. quale socio di Ca. Team (che a tale diverso titolo rivendicava la quota di utili e per altre prestazioni), bensì in esecuzione di “Assistenza Vs clienti”, come recava testualmente l’oggetto di tutte i documenti; c) (terzo motivo) violazione dell’art. 2247 c.c., avendo erroneamente la sentenza escluso che la società di fatto potesse essere riconosciuta in presenza di elementi presuntivi idonei a concorrere al raggiungimento della prova degli elementi costitutivi del sodalizio; il ricorrente ha altresì depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. i motivi vanno trattati unitariamente, per l’intima connessione e sono inammissibili; costituisce consolidato orientamento della Corte di cassazione il limite alla invocazione, nella sede di legittimità, di un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso meramente difforme da quello preteso dalla parte, ove una motivazione sia stata comunque esplicitata e sia ravvisabile come tale, ancorchè non condivisa, non spettando al giudice di legittimità il potere di valutare e riesaminare il merito della causa, trattandosi di attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, all’esito di una valutazione degli elementi probatori; così “è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (Cass. s. u. 34476/2019);

2. neppure sotto il profilo della violazione dell’art. 2697 c.c. può essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla corte territoriale, poichè “una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione” (Cass. 1229/2019) e di tale censura, la sola ammissibile, non v’è traccia, nemmeno in prospettazione del ricorso;

3. con la riforma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, inoltre, “la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale che può essere eccepita, è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. s.u. 8053/2014);

4. è vero poi che, per costante indirizzo, “la esistenza di una qualunque società, semplice, di persone, di capitali, regolare, irregolare, e quindi anche di una società di fatto, richiede il concorso di un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi, con la formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di un’attività imprenditoriale. Tale comune intenzione costituisce il contratto sociale, senza del quale la società, qualsiasi società, non può esistere. Quel che caratterizza la società di fatto, e la differenzia dalla società irregolare, non è dunque la mancanza del contratto sociale, ma il modo in cui questo si manifesta e si esteriorizza; esso infatti può essere stipulato anche tacitamente, e risultare da manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo, quando esse, per la loro sintomaticità e concludenza, evidenzino l’esistenza della società” (Cass. 1961/2000, 4089/2001,4588/2010); ma ciò che il giudice di merito nella vicenda ha escluso è proprio la concludenza ex art. 2247 c.c. dei pur plurimi indizi connotativi di una forma di collaborazione economica tra le parti, non così univoci da evidenziare la esistenza della società; ed invero ognuno di essi, letto in coordinamento logico-temporale con gli altri, ha posto in luce significati diversi o ambigui o addirittura inconciliabili con un’iniziativa che non parrebbe essersi inoltrata oltre la mera progettazione di un sodalizio, senza in realtà realizzarlo in alcuno dei termini organizzativi stabili pur ipotizzati; e per i quali le forme aggregative inizialmente prescelte tra cui l’utilizzo di un’impresa individuale, cui collaboravano il ricorrente ed altri soggetti – non sono state dal giudice di merito ritenute essersi mutate in senso evolutivo per i rapporti intrattenuti dai soggetti nel corso del triennio 2006-2009, fino alla cessazione della volontà di collaborazione tout court; non sono sufficienti, infatti, condotte cooperative e sostegno economico per singole operazioni pur collegate, occorrendo, al contratto di società, quella convergente assunzione del rischio per la medesima impresa che dia conto della destinatarietà inequivoca degli apporti dei singoli (siano essi di lavoro o finanziari o patrimoniali) ad unico, ma distinto, rischio, qualificante l’attività economica e condiviso secondo regole che ne disciplinino senza equivocità la messa a fattor comune;

il ricorso è dunque inammissibile; ne consegue, oltre alla condanna alle spese regolata secondo il principio della soccombenza e liquidazione come meglio da dispositivo, la dichiarazione della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento del cd. raddoppio del contributo unificato (Cass. s.u. 4315/2020).

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità, liquidate in Euro 6.100 (di cui Euro 100 per esborsi), oltre al rimborso in via forfettaria nella misura del 15% e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021

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