Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.293 del 12/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21255/2018 R.G. proposto da:

B.C.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Federica Martini, con domicilio eletto in Roma, viale Eritrea, n. 96, presso lo studio dell’Avv. Claudia De Palma;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Milano depositato il 4 aprile 2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 ottobre 2020 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che B.C.M., cittadino del Senegal, ha proposto ricorso per cassazione, per cinque motivi, avverso il decreto del 4 aprile 2018, con cui il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;

che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la nullità del decreto impugnato per contrasto con la L. n. 46 del 2017, art. 35-bis, comma 11, lett. a), (recte: del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, introdotto dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, art. 6, (recte: del D.L. 13 aprile 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46), con gli artt. 6 e 13 CEDU, e con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, art. 47, rilevando che, nonostante l’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, il Tribunale ha omesso di procedere alla fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, con conseguente violazione dei principi del contraddittorio e del giusto processo, nonchè del diritto di difesa, trattandosi di un elemento essenziale ed indispensabile del processo in materia di protezione internazionale, non surrogabile dall’audizione da parte della Commissione, che si svolge senza la presenza di un difensore, anche alla luce della avvenuta soppressione del giudizio di appello;

che il motivo è infondato, non avendo il Tribunale affatto omesso di fissare l’udienza di comparizione delle parti, ma essendosi limitato a rigettare motivatamente l’istanza di fissazione dell’udienza per l’audizione personale del ricorrente, in ragione della ritenuta disponibilità degli elementi necessari ai fini della decisione, sulla base delle informazioni acquisite dalla Commissione territoriale in ordine ai motivi che avevano indotto il ricorrente ad abbandonare il Proprio Paese di origine, nonchè della mancata allegazione di fatti o documenti nuovi o di specifiche carenze del colloquio, superabili mediante l’audizione in giudizio;

che, ai sensi dell’art. 35-bis cit., comma 11, l’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale fa sorgere a carico del giudice l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non gli impone di procedere anche all’audizione del richiedente, purchè a quest’ultimo sia garantita la facoltà di rendere dichiarazioni davanti alla Commissione o davanti al Tribunale, sicchè, ove, come nella specie, la domanda di protezione risulti manifestamente infondata anche sulla base dei soli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione svoltasi nella fase amministrativa, la stessa può essere respinta, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (cfr. Cass., Sez. I, 19/12/2019, n. 33858; 28/02/2019, n. 5973; Cass., Sez. VI, 31/01/2019, n. 2817);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, e art. 3, comma 3, osservando che, nel rilevare la genericità e l’inattendibilità 1a vicenda allegata a sostegno della domanda, il Tribunale ha omesso di porla in relazione con le informazioni riguardanti la situazione sociopolitica e le tradizioni culturali del suo Paese di origine e di tenere conto della difficoltà di procurarsi mezzi di prova, nonchè di rivolgergli domande volte ad approfondire i punti ritenuti generici, implausibili o poco circostanziati, non avendo preso in considerazione le ragioni che lo avevano indotto ad abbandonare il proprio Paese e non avendo svolto alcuna indagine in ordine ai Paesi da lui attraversati nel corso del viaggio;

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ribadendo che il Tribunale ha omesso di valutare la sua vicenda personale e le precarie condizioni in cui egli ha vissuto nei due anni in cui ha soggiornato in Libia, prima di giungere in Italia, non avendo acquisito alcuna informazione in ordine ai fatti accaduti in Senegal ed al periodo trascorso nel Paese di transito;

che i due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono inammissibili;

che, nel rigettare la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, il decreto impugnato ha fatto ricorso ad un duplice ordine di considerazioni, non essendosi limitato a rilevare che le dichiarazioni rese dal ricorrente non soddisfacevano i requisiti prescritti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ma avendo escluso anche la riconducibilità dei fatti narrati alle fattispecie previste rispettivamente dal predetto decreto, artt. 8 e 14, lett. a) e b), in quanto riflettenti una vicenda di carattere esclusivamente familiare, costituita dall’aver assistito all’omicidio dell’amante della cognata, ed inidonei a giustificare un concreto timore di essere privato della libertà personale e sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, in considerazione della mancata adozione di provvedimenti giudiziari in suo danno;

che, nell’impugnare le predette statuizioni, il ricorrente si limita a contestare il primo rilievo, lamentando la superficialità della valutazione compiuta dal Tribunale ed il mancato approfondimento della situazione in atto nel Paese di origine, ma astenendosi dal censurare la qualificazione giuridica attribuita alla vicenda riferita, addotta in via alternativa a giustificazione della decisione;

che ove, come nella specie, il provvedimento impugnato sia sorretto da una pluralità di ragioni distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di alcune di esse ne comporta il passaggio in giudicato, rendendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle altre, il cui accoglimento non potrebbe in alcun caso condurre all’annullamento della statuizione impugnata (cfr. Cass., Sez. I, 27/07/2017, n. 18641; Cass., Sez. VI, 18/04/2017, n. 9752; Cass., Sez. lav., 4/03/2016, n. 4293);

che è parimenti inammissibile il quarto motivo, con cui il ricorrente denuncia, in subordine, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, in virtù della ritenuta insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata nel Senegal, in contrasto con le informazioni fornite da fonti ministeriali ed allegate al ricorso introduttivo, dalle quali emergeva che nella regione di Casamance, dalla quale egli proviene, era ancora in atto un conflitto interno, caratterizzato da attacchi terroristici e contrasti tra civili e Governo locale;

che, ai fini dell’esclusione della configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il decreto impugnato ha richiamato le informazioni fornite da fonti interne ed internazioni accreditate ed aggiornate, puntualmente indicate in motivazione, dalle quali ha desunto che nella regione di provenienza del ricorrente, nonostante la persistenza degli effetti di un trentennale conflitto di matrice indipendentista, non sussiste un conflitto armato d’intensità tale da esporre la popolazione civile ad un rischio grave per la vita o l’incolumità fisica, per il solo fatto di soggiornarvi;

che il predetto apprezzamento integra un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti (cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2018, n. 32064; Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105);

che tale vizio non è stato neppure dedotto dal ricorrente, il quale, nello insistere sulla configurabilità di una situazione di violenza indiscriminata, si è limitato a richiamare altre fonti d’informazione, da lui indicate nel giudizio di merito, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, una nuova valutazione del materiale probatorio acquisito, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica e la coerenza logica dell’apprezzamento compiuto dal giudice di merito, al quale sono demandati in via esclusiva l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle stesse, e la scelta, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. Cass., Sez. VI, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547; Cass., Sez. I, 23/05/2014, n. 11511);

che con il quinto motivo il ricorrente deduce, in via ulteriormente gradata, la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, rilevando che, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, il decreto impugnato si è limitato ad escludere la configurabilità di una situazione di vulnerabilità personale, senza tener conto della situazione d’instabilità politico-sociale esistente in Senegal, della mancanza di contatti tra esso ricorrente ed i suoi familiari e dell’impossibilità di riprendere l’attività lavorativa precedentemente svolta in quel Paese, nonchè del percorso d’inserimento da lui avviato in Italia, attraverso la partecipazione a corsi di apprendimento della lingua e di un mestiere e la manifestazione della disponibilità a svolgere attività di volontariato;

che il motivo è infondato, avendo il Tribunale correttamente rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, in considerazione della mancata allegazione da parte del ricorrente di fatti diversi da quelli dedotti a sostegno della domanda di riconoscimento delle altre forme di protezione, e ritenuti inattendibili dal decreto impugnato, nonchè della mancata dimostrazione che, in confronto alle condizioni di vita da lui raggiunte nel nostro Paese, il rimpatrio pregiudicherebbe in modo apprezzabile la sua dignità ed il suo diritto ad un’esistenza libera e dignitosa;

che questa Corte, nel riconoscere la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria, ha infatti affermato che l’accertamento della condizione di vulnerabilità che ne giustifica la concessione dev’essere ancorato ad una valutazione comparativa, da condursi caso per caso, tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e la situazione personale vissuta prima dell’abbandono del Paese di origine ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13079; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304);

che la mera allegazione delle criticità rilevabili nella situazione del Paese di origine, sotto il profilo del rispetto del diritti fondamentali, non può dunque ritenersi sufficiente a legittimare il riconoscimento della misura in questione, in difetto dell’attendibile deduzione di fatti specifici dai quali emerga la personale esposizione del richiedente alle conseguenze della violazione dei predetti diritti, in relazione alla vita privata e familiare da lui condotta in patria;

che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto dell’insussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021

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