LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24063/2018 R.G. proposto da:
T.K., rappresentato e difeso dall’Avv. Silvana Guglielmo, con domicilio eletto in Roma, via Asiago, n. 9, presso lo studio dell’Avv. Edoardo Spighetti;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso il decreto dei Tribunale di Catanzaro depositato il 25 giugno 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 ottobre 2020 dal Consigliere Guido Mercolino.
RILEVATO
che T.K., cittadino del Ghana, ha proposto ricorso per cassazione, per quattro motivi, avverso il decreto del 25 giugno 2018, con cui il Tribunale di Catanzaro ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;
che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO
che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, osservando che il Tribunale ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria senza avvalersi dei propri poteri istruttori ufficiosi per verificare la situazione in atto nel suo Paese di origine, ed in particolare l’esistenza di concrete possibilità di difesa, in caso di sottoposizione a processo per omicidio, in relazione alla sua condizione di analfabeta ed all’indisponibilità di mezzi economici;
che il motivo è infondato, avendo il Tribunale giustificato il rigetto della domanda da un lato con la sostanziale inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda, in quanto caratterizzata da lacune ed incongruenze, e dall’altro con la mancata prospettazione da parte del ricorrente del timore di essere condannato a morte o assoggettato a tortura o a trattamenti inumani o degradanti;
che tale decisione si pone perfettamente in linea con l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di protezione internazionale, secondo cui l’accertamento del giudice di merito deve avere ad oggetto innanzitutto la credibilità soggettiva delle dichiarazioni rese dal richiedente in ordine alla sua esposizione ad una minaccia grave alla vita o alla persona, con la conseguenza che, ove i fatti narrati siano considerati inattendibili alla stregua degl’indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (cfr. Cass., Sez. I, 19/12/2019, n. 33858; Cass., Sez. VI, 12/11/2018, n. 28826; 27/06/2018, n. 16925);
che è altresì infondato il secondo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 11, lett. a) e c), introdotto dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, art. 6, (recte: del D.L. 13 aprile 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, degli artt. 12, 14, 31 e 46, della Dir. n. 2013/32/UE e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, art. 47, rilevando che il Tribunale ha immotivatamente rigettato l’istanza di audizione proposta da esso ricorrente, nonostante l’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale e la stringatezza del relativo verbale;
che, ai sensi dell’art. 35-bis cit., comma 11, l’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale fa sorgere a carico del giudice l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non gl’impone di procedere anche all’audizione del richiedente, purchè a quest’ultimo sia garantita la facoltà di rendere dichiarazioni davanti alla Commissione o davanti al Tribunale, sicchè, ove, come nella specie, la domanda di protezione risulti manifestamente infondata anche sulla base dei soli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione svoltasi nella fase amministrativa, la stessa può essere respinta, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (cfr. Cass., Sez. I, 19/12/2019, n. 33858; 28/02/2019, n. 5973; Cass., Sez. VI, 31/01/2019, n. 2817);
che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 9, (recte: del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 9, introdotto dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. n. 46 del 2017), per aver escluso il pericolo di un danno grave alla vita o alla persona, senza tener conto del timore, da lui prospettato, di essere arrestato e sottoposto a processo in caso di rimpatrio, e delle informazioni riguardanti il rispetto dei diritti umani nel suo Paese di origine;
che il motivo è infondato, avendo il Tribunale per un verso rilevato la mancata prospettazione da parte del ricorrente del rischio di essere sottoposto alla condanna a morte o a tortura o a trattamenti inumani e degradanti, e per altro verso escluso la credibilità dell’omicidio che il ricorrente aveva riferito di aver commesso in danno del figlio della propria matrigna, in quanto non era stato neppure chiarito se egli fosse stato denunciato e se fosse stata aperta un’indagine nei suoi confronti;
che il rilievo in tal modo conferito alla mancata allegazione da parte del ricorrente di un danno grave, nel senso di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), trova conforto nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la domanda di riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (cfr. Cass., Sez. I, 31/01/2019, n. 3016; Cass., Sez. VI, 29/10/2018, n. 27336; 28/09/ 2015, n. 19197);
che, nel contestare la predetta affermazione, il ricorrente si limita ad insistere sulla grave situazione in atto nel Ghana, sotto il profilo del rispetto dei diritti umani, riportando a tal fine le informazioni desunte da un’accreditata fonte internazionale, senza però corredare la propria censura con la trascrizione dei passi del ricorso introduttivo in cui avrebbe allegato il timore di subire gl’indicati trattamenti, con la conseguenza che il motivo risulta privo di specificità;
che con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, dell’art. 2 Cost., e degli artt. 3 e 8CEDU, censurando il decreto impugnato nella parte in cui, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, si è limitato a dare atto della mancata dimostrazione dell’inserimento sociale di esso ricorrente in Italia, senza tener conto dell’insussistenza in Ghana di condizioni di vita sufficienti ad assicurare un’esistenza dignitosa;
che il motivo è infondato, avendo il Tribunale correttamente rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, in considerazione della mancata allegazione da parte del ricorrente di fatti diversi da quelli dedotti a sostegno della domanda di riconoscimento delle altre forme di protezione, e ritenuti inattendibili dal decreto impugnato, nonchè di elementi idonei a comprovare l’integrazione sociale del ricorrente in Italia;
che questa Corte, nel riconoscere la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria, ha infatti affermato che l’accertamento della condizione di vulnerabilità che ne giustifica la concessione dev’essere ancorato ad una valutazione comparativa, da condursi caso per caso, tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e la situazione personale vissuta prima dell’abbandono del Paese di origine ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13079; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304);
che la mera allegazione delle criticità rilevabili nella situazione del Paese di origine, sotto il profilo del rispetto del diritti fondamentali, non può dunque ritenersi sufficiente a legittimare il riconoscimento della misura in questione, in difetto dell’attendibile deduzione di fatti specifici dai quali emerga la personale esposizione del richiedente alle conseguenze della violazione dei predetti diritti, in relazione alla vita privata e familiare da lui condotta in patria;
che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2021