Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.30584 del 28/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25623-2017 proposto da:

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO N 38, presso lo studio dell’avvocato TERESA SANTULLI, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CORRIERE DELLO SPORT S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. DEPRETIS 86, presso lo studio degli avvocati FABRIZIO SPAGNOLO, e PIETRO CAVASOLA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1666/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 09/05/2017 R.G.N. 4663/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO.

RILEVATO

CHE:

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1666/2017, ravvisando il sopravvenuto difetto di interesse ad impugnare (art. 100 c.p.c.), ha rigettato l’appello proposto da B.F. nei confronti della società Corriere dello Sport avverso la sentenza in data 27 maggio 2015 del Giudice del lavoro del Tribunale di Roma. Con tale sentenza era stata rigettata la domanda del B., il quale aveva agito chiedendo che, previo accertamento del perdurare del “demansionamento posto in essere dalla società convenuta sin dal 2001, come accertato e dichiarato dalla Corte di appello di Roma con la sentenza n. 7702/2010” e previa declaratoria del “diritto del lavoratore a vedersi assegnate le mansioni proprie del 6 livello del CCNL per i dipendenti di Aziende Editrici e Stampatrici di giornali quotidiani ed agenzie di stampa”, fosse ordinato alla società Corriere dello Sport “la reintegrazione del ricorrente nelle mansioni svolte prima dell’intervenuto demansionamento (gennaio 2001) e comunque in ogni caso attribuire al B. le suddette mansioni di 6 livello e comunque mansioni superiori a quelle attualmente svolte e rimaste immutate dal gennaio 2001, ed in ogni caso ordinare l’assegnazione di mansioni compatibili con la professionalità e le conoscenze del lavoratore”.

2. La Corte di appello ha osservato – in sintesi – che:

a) in sede di gravame, il B. aveva lamentato l’omessa considerazione che le mansioni di archivista fotografico sono proprie, secondo il CCNL di settore, sia del quarto sia del sesto livello e che le mansioni in concreto attribuite dalla datrice di lavoro erano quelle elementari di inserimento delle foto nel sistema editoriale e dunque dequalificanti, in quanto proprie del livello inferiore a quello di inquadramento;

b) la società appellata aveva dedotto che il rapporto di lavoro era cessato il 30 aprile 2015, a seguito di dimissioni rassegnate dal dipendente, per cui la situazione venutasi a creare era quella della sopravvenuta carenza di interesse del B.;

c) l’art. 100 c.p.c. comporta la verifica, da compiersi d’ufficio da parte del giudice, in ordine alla idoneità della pronuncia richiesta a spiegare un effetto utile alla parte istante, dovendo l’interesse escludersi nel caso in cui la decisione risulterebbe priva di conseguenze giuridicamente apprezzabili in relazione alla situazione giuridica fatta valere in giudizio; inoltre l’interesse giuridico deve essere attuale e cioè persistente al tempo della decisione;

d) nel caso in esame, la cessazione del rapporto di lavoro in corso di causa ha determinato il venir meno dell’interesse del ricorrente sia alla pronuncia di assegnazione delle mansioni proprie del sesto livello, sia ad ottenere una pronuncia di accertamento della conformità delle mansioni in concreto svolte al quarto livello, non avendo il ricorrente proposto una domanda risarcitoria in relazione al protrarsi del demansionamento, ma solo una domanda di condanna della resistente ad attribuirgli le mansioni di sesto livello o comunque superiori a quelle assegnate dal gennaio 2001, in ogni caso con ordine di assegnazione a mansioni compatibili con la professionalità e le conoscenze del lavoratore;

e) né l’interesse ad agire potrebbe ravvisarsi in una pronuncia di accertamento del demansionamento in vista di una futura azione risarcitoria, in quanto questa sarebbe inibita dal principio di infrazionabilità della domanda;

f) neppure può accogliersi l’assunto del ricorrente secondo cui le dimissioni erano state rassegnate nella convinzione di potere accedere al trattamento pensionistico, che invece gli era stato negato dall’INPS, questione per la quale il B. aveva in corso un altro giudizio, il cui esito sfavorevole determinerebbe il ricorrente a chiedere l’annullamento delle dimissioni per vizio del consenso: allo stato attuale le dimissioni sono da ritenere valide ed efficaci e tali rimangono fino al momento di una eventuale sentenza costitutiva dell’annullamento; né possono essere prese in considerazione ad oggi eventuali e future iniziative giudiziarie;

g) neppure vi è interesse ad agire per il capo della sentenza di primo grado relativo alla condanna alle spese, poiché la riforma di tale capo viene chiesta quale conseguenza della riforma nel merito della decisione di primo grado. 3. Per la cassazione di tale sentenza B.F. propone ricorso, affidato ad un unico motivo. Resiste con controricorso la società Corriere dello Sport, che ha altresì depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

CONSIDERATO

CHE:

1. Con unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., connessa violazione dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Assume che la Corte di appello aveva erroneamente interpretato l’atto di appello nella parte relativa alla richiesta di riforma della condanna al pagamento delle spese di lite, poiché nelle conclusioni egli aveva domandato, “nella denegata ipotesi di rigetto dell’appello”, la “compensazione anche parziale delle spese di primo grado”; il capo della sentenza di primo grado era stato così autonomamente impugnato, per cui l’interesse ad agire per la sua riforma prescindeva dall’accoglimento o meno del merito dalla domanda.

“). Denuncia poi l’erroneità della declaratoria di sopravvenuto difetto di interesse ad agire in ordine alla domanda di mero accertamento, sia per non essere conferente alla fattispecie il principio di infrazionabilità della domanda, sia per essere l’interesse ad agire in mero accertamento ravvisabile ogni qualvolta vi sia incertezza circa l’esistenza o inesistenza, contenuto o modalità di un rapporto giuridico. Sostiene che, nel caso in esame, l’azione aveva ad oggetto il diritto di esso ricorrente a vedersi assegnate le mansioni proprie del sesto livello, mentre l’interesse ad una tutela risarcitoria è sorto solo più tardi rispetto alla tutela ripristinatoria, per cui l’accertamento richiesto si poneva come pregiudiziale rispetto ad una successiva, futura domanda risarcitoria.

3. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.

4. L’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire. Ne consegue che non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto, il quale può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza (v. in tal senso, Cass. 6749 del 2012; nella fattispecie ivi esaminata un lavoratore, che nel frattempo aveva rassegnato le proprie dimissioni, aveva domandato l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti deducendo il proprio interesse all’accertamento dell’inadempimento datoriale, ma non vi aveva collegato alcuna domanda di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento del danno; questa Corte, in applicazione del principio sopra esposto, ha escluso l’interesse ad agire del lavoratore, costituendo l’inadempimento datoriale solo uno degli elementi della fattispecie determinativa di danno).

5. Tale principio vale a regolare anche la presente fattispecie. La domanda proposta dal B., come interpretata dalla Corte di appello, aveva ad oggetto l’accertamento del diritto del ricorrente alla reintegra nelle mansioni corrispondenti al livello di inquadramento posseduto (6 livello). La situazione giuridica fatta valere era costituita più propriamente dall’accertamento dell’inadempimento datoriale degli obblighi derivanti dall’art. 2103 c.c. (nel testo ratione temporis vigente) in funzione del ripristino nelle mansioni proprie della qualifica di inquadramento, non contestata in giudizio. Una volta venuto meno il rapporto di lavoro, per dimissioni del lavoratore, essendo divenuto impossibile l’ordine di ripristino, il solo accertamento dell’inadempimento datoriale costituiva – come correttamente ritenuto dalla Corte di appello – uno degli elementi dell’azione proposta, non essendo stata formulata alcuna domanda risarcitoria in unione a quella ripristinatoria delle mansioni.

6. Proprio in quanto condizione dell’azione l’interesse ad agire deve sussistere al momento della decisione (cfr., Cass. S.U. n. 25278 del 2006), id est deve necessariamente avere carattere attuale, poiché solo in tal caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza, mentre resta escluso quando il giudizio sia strumentale alla soluzione soltanto in via di massima o accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche (cfr., Cass. n. 6749 del 2012 cit., Cass. n. 27151 del 2009, n. 28405 del 2008); non sono ammissibili questioni d’interpretazioni di norme, se non in via incidentale e strumentale alla pronuncia sulla domanda principale di tutela del diritto ed alla prospettazione del risultato utile e concreto che la parte in tal modo intende perseguire (Cass. n. 2057 del 2019).

7. In altre parole, l’interesse ad agire richiede non solo che si debba accertare una situazione giuridicamente rilevante, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere attivato solo in previsione di possibili effetti futuri, senza che sia precisato il concreto vantaggio che la parte intenda in tal modo conseguire. Ne discende che non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti che, pur giuridicamente rilevanti, nondimeno costituiscano mere frazioni della fattispecie costitutiva di un diritto, suscettibile di accertamento giudiziario solo nella sua interezza (cfr. Cass. n. 2051 del 2011, n. 15355 del 2010).

8. Nel caso di specie, una volta cessato il rapporto di lavoro nelle more del giudizio di appello, correttamente la Corte territoriale ha ravvisato il venir meno dell’interesse del lavoratore ad una pronuncia di illegittimità della pregressa adibizione a mansioni inferiori, pure a livello di mero accertamento di un allegato inadempimento datoriale, non essendo ad essa causalmente collegata una domanda di condanna o di accertamento del diritto al risarcimento dei danni ex art. 1218 c.c.. Il mero accertamento dell’altrui inadempimento non comporta automaticamente una pretesa risarcitoria da parte del creditore costituendo l’inadempimento soltanto uno degli elementi della fattispecie determinativa di danno; in altri termini, l’inadempimento datoriale è una frazione della situazione giuridica oggetto della domanda, insuscettibile di integrare gli estremi di una domanda autonoma.

9. Quanto alla censura che investe il capo della sentenza di appello relativo alla statuizione di primo grado sulle spese di lite, va osservato che la richiesta di riforma di tale capo della pronuncia è stata interpretata dalla Corte di appello implicitamente, ma inequivocabilmente – come istanza non supportata da uno specifico motivo di gravame e dunque come mera istanza di riforma dipendente dall’accoglimento di quella principale, non essendo ammissibile una mera sollecitazione di riforma in difetto di uno specifico motivo di impugnazione.

10. Anche sul punto il ricorso non è meritevole di accoglimento, in quanto non specifico rispetto al decisum. Come più volte affermato da questa Corte, il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Cass. n. 17330 del 2015, n. 22478 del 2018).

11. il ricorso va dunque complessivamente rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

12. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5.250,00 per compensi e in Euro200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2021

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