LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –
Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12825-2014 proposto da:
S.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA SONIA VULCANO;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 28/2013 della COMM. TRIB. REG. Della Lombardia depositata il 14/03/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/09/2020 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI.
Il contribuente ha depositato memoria del 29.7.2020.
CONSIDERATO
che:
Preliminarmente, va rilevato che un unico ricorso contro sentenze diverse è ammissibile alla luce di quanto affermato anche da questa Corte (sez. V, n. 33895 del 2019) secondo cui:
L’impugnazione di una pluralità di sentenze con un unico atto è consentita solo quando queste siano tutte pronunciate fra le medesime parti e nell’ambito di un unico procedimento, ancorchè in diverse fasi o gradi (come nel caso della sentenza non definitiva oggetto di riserva di impugnazione e della successiva sentenza definitiva; della sentenza revocanda e di quella conclusiva del giudizio di revocazione; della sentenza di rinvio e di quella di rigetto della istanza di revocazione, allorchè le due impugnazioni siano rivolte contro capi identici o almeno connessi delle due pronunzie, ovvero di sentenze di grado diverso pronunciate nella medesima causa, che investano l’una il merito e l’altra una questione pregiudiziale), mentre è inammissibile il ricorso per cassazione proposto, contestualmente e con un unico atto, contro sentenze diverse, pronunciate dal giudice del merito in procedimenti formalmente e sostanzialmente distinti, che concernano soggetti anch’essi parzialmente diversi.
Nel merito l’analisi del ricorso deve distinguere tra i motivi attinenti alla sentenza del procedimento di revocazione ed i motivi attinenti alla sentenza di secondo grado.
Quanto ai primi:
Con il primo motivo di ricorso contro la sentenza n. 1690/49/14 sulla richiesta di revocazione il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La CTR ha errato affermando che l’errore revocatorio deve risultare dagli atti o documenti di causa e non dalle affermazioni delle parti.
Con il secondo motivo di ricorso contro la sentenza n. 1690/49/14 sulla richiesta di revocazione il contribuente deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, inerente il rapporto tra il ricorrente ed il concessionario Cogetech spa.
La CTR ha omesso di pronunciarsi su quanto il contribuente aveva dedotto come errore di fatto con il ricorso per revocazione, e cioè che tra lui e la Cogetech esisteva un rapporto di collaborazione che avrebbe reso l’attività esente da iva.
I motivi sono infondati.
La sentenza della CTR in sede di revocazione si occupa del rapporto tra il contribuente e Cogetech, affermando che, in sostanza, non è determinante, perchè la decisione del giudice di appello, per qualificare l’attività del S., “è incentrata sulla complessiva attività svolta dal S.D. e non sulla semplice insussistenza di un rapporto con il concessionario”.
In altre parole, secondo la sentenza può anche ritenersi che il contribuente avesse effettivamente un rapporto col concessionario, ma questo non è ritenuto elemento decisivo.
Se è così, questo collegio non ravvisa tanto un omesso esame, ma eventualmente un giudizio sulle risultanze processuali, che, tra l’altro, non è motivo di revocazione.
Questa Corte (sez. V, n. 26890 del 2019, Rv. 655451) ha affermato al riguardo che:
L’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a costituire motivo di revocazione, consiste in una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa, purchè non cada su un punto controverso e non.
RITENUTO
che:
Il contribuente S.D. esponeva di avere ricevuto un avviso di accertamento con cui gli veniva attribuito maggior reddito e contestata maggiore iva per l’anno 2005 in relazione alla sua attività di raccolta di giocate quale gestore di apparecchi che consentono vincite in denaro, funzionando a moneta o gettone, di cui egli era proprietario, in base a contratto di collaborazione con la Cogetech spa.
Il contribuente ricorreva alla CTP contestando la decadenza dal potere accertativo, il difetto di contraddittorio, l’illegittimità della verifica iniziale della Guardia di Finanza, l’erronea applicazione dell’iva, atteso che la sua attività era esente, in quanto svolta per mandato del concessionario Cogetech, essendo l’attività soggetta a prelievo unico erariale (PREU).
La CTP di Milano annullava l’avviso in relazione all’iva, confermandolo per irpef ed irap.
L’ufficio proponeva appello, ed il contribuente, costituendosi, proponeva appello incidentale.
La CTR della Lombardia, con sentenza n. 28/13/13 del 14.3.2013, accoglieva l’appello dell’ufficio, confermando interamente l’accertamento, rigettando l’appello incidentale del contribuente. Contro tale sentenza il contribuente proponeva ricorso per revocazione, che la CTR rigettava con sentenza n. 1690/49/14 del 1.4.2014.
Ricorre a questa Corte il contribuente per impugnare, con unico atto, sia la sentenza della stessa CTR n. 1690/49/14 sulla richiesta di revocazione, sulla base di due motivi, sia la sentenza della CTR Lombardia n. 28/13/13 sul merito della controversia, sulla base di sei motivi.
Si costituisce l’ufficio con controricorso.
Attenga a un’errata valutazione delle risultanze processuali.
Ed inoltre, secondo sez. I, n. 9527 del 2019, Rv. 653687:
Ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, richiamato per le sentenze della Corte di cassazione dall’art. 391-bis c.p.c., rientra fra i requisiti necessari della revocazione che il fatto oggetto della supposizione di esistenza o inesistenza non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciarsi; pertanto, non è configurabile l’errore revocatorio qualora l’asserita erronea percezione degli atti di causa abbia formato oggetto di discussione e della consequenziale pronuncia a seguito dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dal giudice.
E, nel caso di specie, il punto non può considerarsi non controverso perchè, anche solo per escluderne la rilevanza, la CTR lo ha trattato.
Non vi è stata, pertanto, l’omissione denunciata e, comunque, allargando l’analisi, per ragioni di economia processuale al merito del problema, non si ravvisano gli estremi dell’errore revocatorio, cosicchè ciò comporta l’assorbimento del primo motivo, diventando irrilevante l’asserito vizio denunciato in esso.
Quanto ai motivi attinenti alla sentenza di merito:
Con il primo motivo di ricorso contro la sentenza di merito n. 28/13/13 (rubricato come terzo motivo nel ricorso, atteso che in esso la numerazione tra i motivi attinenti alla revocazione ed il merito è continua) il contribuente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in relazione agli artt. 139,148 e 149 c.p.c., nonchè della L. n. 890 del 1982, art. 3, comma 1, in riferimento alla nullità della notifica dell’avviso di accertamento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La CTR avrebbe errato nell’affermare che la mancanza di relata non rende viziata la notifica, vizio che nella specie sarebbe non sanabile perchè nel frattempo era maturato il termine di decadenza per l’esercizio del potere impositivo.
Il motivo è infondato.
Nella specie è pacifico (pag. 3 del ricorso del contribuente) che la notifica è avvenuta a mezzo posta.
In tal caso la giurisprudenza di questa Corte (si veda, tra le altre, sez. V n. 29642 del 2019) è nel senso che:
In caso di notificazione a mezzo posta dell’atto impositivo eseguita direttamente dall’Ufficio finanziario ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicchè non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, senza necessità dell’invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione.
Con il secondo motivo di ricorso contro la sentenza di merito n. 28/13/13 (quarto motivo) il contribuente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 6, comma 1, in relazione alla L. n. 212 del 2000, artt. 10 e 12, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento all’obbligo dell’ufficio di convocare il contribuente in contraddittorio.
Il motivo è infondato.
Questa Corte (sez. V n. 31472 del 2019, Rv. 656009) ha affermato che:
In tema di accertamento con adesione, la presentazione di istanza di definizione da parte del contribuente, ai sensi del D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 6, non comporta l’inefficacia dell’avviso di accertamento, ma solo la sospensione del termine di impugnazione per un periodo di 90 giorni, decorsi i quali, senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, l’accertamento diviene comunque definitivo, in assenza di impugnazione, anche se sia mancata la convocazione del contribuente, che costituisce per l’Ufficio non un obbligo, ma una facoltà, da esercitare in relazione ad una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare la contestazione giudiziaria.
Ed ancora (sez. V ord. n. 474 del 2018, Rv. 646691).
In tema di accertamento con adesione, la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza del D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 6, non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge.
Sul tema si sono anche pronunciate le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. un., n. 3676 del 2010) secondo le quali:
In tema di accertamento con adesione, la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza del D.Lgs. 16 giugno 1997, n. 218, ex art. 6, non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge.
In tema di tributi armonizzati, poi, questa Corte (sez. V, n. 428 del 2020) ritiene, sulla scia della giurisprudenza unionale, che la violazione dell’obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, laddove non previsto dalla normativa nazionale, comporta l’invalidità dell’atto solo nel caso in, cui il contribuente assolva all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere (cfr. Cass., sez. un., 9 dicembre 2015, n. 24823; vedi, successivamente, Cass. 15 gennaio 2019, n. 701).
Il principio è richiamato anche dal contribuente, ma il motivo non evidenzia in che modo il procedimento avrebbe potuto avere diversa definizione in base alle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere in quella sede, non essendo le stesse riportate in esso.
Con il terzo motivo di ricorso contro la sentenza di merito n. 28/13/13 (quinto motivo), il contribuente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, nonchè della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, in riferimento all’obbligo dell’ufficio di motivare il mancato accoglimento delle osservazioni presentate, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La CTR ha errato nell’affermare che l’ufficio non aveva alcun obbligo di motivare sulle osservazioni del contribuente.
Il motivo è infondato.
Lo stesso è, in primo luogo, equivoco perchè non emerge con chiarezza se si riferisce ad osservazioni del contribuente in sede di accertamento con adesione, quello in cui il contribuente non è stato convocato, o ad osservazioni in altra fase, peraltro non esplicitata nello svolgimento dei fatti.
Peraltro, la frase della CTR che il contribuente contesta in questo motivo (pag. 2 “nè conseguentemente vi è un obbligo dell’ufficio di motivare nel successivo atto il rigetto dell’istanza”), appare riferirsi all’accertamento con adesione, (l'”istanza” cui si riferisce la frase, è chiaramente l’istanza di accertamento con adesione), nel quale si è già affermato che non vi è sanzione per l’omessa convocazione, e tanto più per l’omessa risposta alle osservazioni.
Ancora, il motivo non chiarisce il contenuto di queste informazioni.
Inoltre, secondo lo stesso ricorso (pag 3-4) questo vizio procedimentale non era stato dedotto in primo grado, a meno che esso non si riferisca appunto alla procedura di accertamento con adesione.
Il motivo appare, quindi, da respingere alla luce delle suddette considerazioni, che superano anche il fatto che l’accertamento coinvolga l’iva.
Peraltro, poichè l’accertamento in questione riguardava anche l’iva, questa Corte (sez. V, n. 1778 del 2019 e sez. V, n. 34519 del 2019) ha, comunque, affermato, anche con riferimento a tale tributo, che:
“In tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo (v, per tutte, Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 8378 del 31/03/2017 Rv. 643641 – 01, Sez. 5, Sentenza n. 3583 del 24/02/2016 Rv. 639031 – 01), mentre la nullità dell’accertamento è prevista solo nel caso di omesso rispetto del termine di 60 giorni per la emanazione dell’accertamento, e, comunque, anche in quest’ultimo caso, Sez. Un. 24823 del 2015, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia, ha precisato che è onere del contribuente indicare le specifiche ragioni che avrebbe fatto valere nell’omesso contraddittorio.
Nè appare venire in soccorso della tesi del contribuente la decisione di questa Corte n. 11650 del 2011, da lui citata in ricorso a sostegno della propria tesi, atteso che essa accoglie il ricorso dell’Agenzia e cassa la sentenza impugnata, affermando che, a fronte della presunzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, sui movimenti bancari, il contribuente deve fornire idonea prova contraria, cosicchè è errata la sentenza che, in mancanza di tale prova, annulli l’accertamento.
Con il quarto motivo di ricorso contro la sentenza di merito (sesto motivo), il contribuente deduce omesso esame di un fatto decisivo della controversia in ordine alla dedotta nullità della verifica subita dal ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il ricorrente, nell’appello incidentale, aveva impugnato la sentenza di primo grado deducendo un vizio dell’ordine di accesso rilasciato ai verificatori e la sentenza impugnata ha tralasciato l’analisi di questo aspetto.
Il motivo è infondato, per difetto di decisività dello stesso.
In ricorso il contribuente dà atto di avere dedotto il motivo fin dal primo grado, e la CTP lo avrebbe respinto con le parole: “non si ravvisa nessuna violazione di legge nell’attività ispettiva”; il contribuente aveva quindi dedotto in appello il vizio di motivazione omessa sul punto.
La CTR in effetti non si è pronunciata su di esso.
Il contribuente cita anche una sentenza della CTR Milano in caso connesso relativo allo stesso contribuente per il 2006, in cui si evince che il vizio dedotto era la mancata indicazione delle annualità oggetto di accertamento e l’informativa sull’oggetto della verifica. Non emerge, però, se tale sentenza è passata in giudicato, non precisandolo il ricorso.
Come risulta da pag. 4 del ricorso (per quanto il vizio denunciato avrebbe dovuto essere riprodotto specificamente anche nel motivo), il motivo originariamente dedotto già in primo grado riguardava l’illegittimità della verifica perchè nell’autorizzazione di accesso rilasciata agli ispettori dal comandante della tenenza della GdF non erano specificamente indicate le annualità oggetto di verifica.
Tuttavia, è dubbia la decisività che giustificherebbe la cassazione con rinvio, e questa Corte può compiere tale valutazione, che non richiede ulteriori accertamenti di fatto, in base al principio (sez. V, n. 28664 del 2018) secondo cui:
nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (così Cass. n. 21968 del 28/10/2015; conf. Cass. 16171 del 28/06/2017; Cass. n. 21257 del 08/10/2014).
Nel caso di specie, l’accesso era stato condotto dalla Guardia di Finanza e non dall’Amministrazione finanziaria; ora, questa Corte (sez. V, n. 16661 del 2011) ha affermato – in un caso in cui la verifica della Guardia di Finanza, iniziata al solo scopo di controllare l’osservanza delle disposizioni sull’IVA comunitaria per una annualità, era stata estesa anche ad altre annualità e tributi, a seguito delle gravi irregolarità riscontrate -, che, ai sensi della L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 35, la Guardia di Finanza, in quanto polizia tributaria, può sempre accedere negli esercizi pubblici e in ogni locale adibito ad azienda industriale o commerciale ed eseguirvi verificazioni e ricerche, per assicurarsi dell’adempimento delle prescrizioni imposte dalle leggi e dai regolamenti in materia finanziaria, non necessitando, a tal fine, di autorizzazione scritta, richiesta per il diverso caso di accesso effettuato dai dipendenti civili dell’Amministrazione finanziaria.
Ai fini che rilevano in questa sede, quindi, secondo tale pronuncia la Guardia di Finanza non doveva essere munita di un’autorizzazione per ogni singola annualità, avendo il potere di verificare annualità non menzionate espressamente nell’autorizzazione.
Sul fatto che la verifica sia stata estesa ad annualità diverse (che è come dire che il contribuente non è stato informato delle annualità oggetto di verifica), questa Corte (sez. V n. 28664 del 2018) ha affermato:
“l’atto di autorizzazione dell’accesso ai locali dell’impresa, reso ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, in esito a valutazione della necessità di incidere sull’andamento e sulla riservatezza della gestione imprenditoriale al fine di riscontrare eventuali evasioni ed infrazioni alla disciplina dell’IVA, non circoscrive l’ambito dell’ispezione all’epoca del verificarsi dei fatti apprezzati per detta valutazione; l’ispezione medesima resta rivolta a scoprire violazioni, non solo a fornire conforto dimostrativo alle inosservanze al momento conosciute o sospettate, di modo che non subisce, sotto il profilo temporale, limitazioni diverse da quelle attinenti al potere di accertamento, e, una volta che sia autorizzata sulla scorta dei dati a disposizione, può investire anche circostanze diverse, influenti per la revisione delle posizioni del contribuente, nell’arco di tempo in cui è esercitabile detto potere” (Cass. n. 18155 del 07/08/2009; Cass. n. 429 del 14/01/2015).
La sentenza delle SSUU del 2002 che il contribuente cita in ricorso, poi, si riferisce al sindacato sul contenuto dell’autorizzazione del procuratore, se cioè la stessa possa fare riferimento anche solo ad una denuncia anonima, quindi appare riferirsi ad un problema diverso ed ad un atto diverso, l’autorizzazione del procuratore, che nel presente caso non viene in rilievo perchè è pacifico che l’accesso fu eseguito presso la sede e non l’abitazione.
Questa Corte ha anche affermato (Sez. V, n. 1301 del 2020):
Altresì, si è precisato che, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’inosservanza degli obblighi informativi determina la nullità degli atti della procedura nei casi in cui l’effetto invalidante sia espressamente previsto dallà legge, mentre, negli altri casi, occorre valutare, anche alla luce dell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza Europea che impone di verificare se la prescrizione normativa si riferisca ad una formalità o circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato, se la violazione di legge abbia comportato la mera irregolarità dell’atto (o della procedura) ovvero sia idonea a determinare l’invalidità dello stesso.
Oltretutto, a differenza di quanto sostenuto dalle Sezioni Unite sui vizi dell’autorizzazione del procuratore e sul sindacato dei suoi presupposti, che è caso diverso dal presente, Sez. V n. 19344 del 2019 ha ricordato che:
questa Corte ha già chiarito che non esiste nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, sicchè “l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai – fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso” (Cass. n. 8344/2001; conf. Cass. n. 13005/2001, n. 1343/2002 e n. 1383/2002, n. 1543/2003 e n. 10442/2003). E tanto anche con riferimento all’attività della Guardia di Finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerche ed acquisizione di notizie, non osservando la disciplina processual-penalistica, avendo carattere amministrativo – con conseguente inapplicabilità dell’art. 24 Cost..
Con il quinto motivo di ricorso (settimo motivo) deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 6, in combinato disposto con la L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 497, in riferimento all’imponibilità ad iva dell’attività del ricorrente, ex art. 360 c.p.c., punto 3.
La CTR ha ritenuto dovuta l’iva, pur mancandone i presupposti, perchè l’attività compiuta dal ricorrente non è di noleggio, ma si basa su un rapporto con il concessionario.
Il motivo è essenzialmente inammissibile.
L’interpretazione delle norme che vengono in rilievo nella specie (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, e L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 497) fornita dalla CTR è corretta, perchè la stessa ha affermato che, in una fattispecie, quale ha ritenuto essere la presente, in cui non è provato alcun rapporto contrattuale diretto tra il contribuente ed il concessionario della rete, non sussistono i presupposti per l’esenzione dell’iva, come del resto l’Agenzia aveva chiarito in passato nella circolare n. 21 del 2005, e di recente nella risposta ad interpello n. 226 del 2019.
Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 6, ha affermato costantemente, nelle varie versioni che si sono succedute negli anni, per la parte che rileva ai fini di causa, che sono esenti iva “le operazioni relative alle giocate”.
La L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 497, afferma, per parte sua, che:
L’esenzione di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, comma 1, n. 6), si applica alla raccolta delle giocate con gli apparecchi da intrattenimento di cui al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, art. 110, comma 6, di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, anche relativamente ai rapporti tra i concessionari della rete per la gestione telematica ed i terzi incaricati della raccolta stessa.
Il contribuente sostiene, però, che l’errore è nel presupposto della decisione su questo punto, perchè la CTR non ha rilevato che un rapporto contrattuale diretto con il concessionario, in realtà, esisteva, come evidenziato dalla stessa sentenza impugnata che, in altra parte, ha fatto riferimento a compensi per il contribuente erogati dal concessionario.
In questo senso, deduce il vizio come “falsa applicazione di legge” ex art. 360 c.p.c., n. 3.
Tuttavia, questa Corte (sez. IV, n. 20210 del 2019) ha avuto modo di affermare sul tema che:
Il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
Nella specie, il vizio che viene dedotto dal ricorrente attiene alla fattispecie concreta, lamentando egli che la CTR abbia compiuto una erronea ricognizione della stessa, della situazione di fatto del caso specifico, non avendo la CTR riconosciuto, in base agli elementi fattuali, che l’attività svolta dal contribuente non era di noleggio, ma si basava su un rapporto contrattuale diretto con il concessionario.
In tale contesto, il percorso logico compiuto dalla CTR, di cui si duole il ricorrente, consiste nell’avere ritenuto che la fattispecie concreta non rientrasse nell’ambito delle norme sull’esenzione iva, e quindi l’errore consisterebbe, in realtà, nella lettura della fattispecie concreta, non nell’interpretazione della norma, lamentando egli la diversità, rispetto a quanto affermato dalla CTR, della fattispecie concreta in via di fatto (il rapporto era di collaborazione con il concessionario, e non di noleggio, per cui non era imponibile iva). L’errore lamentato non è quindi sulla norma, ma sul fatto, come, del resto, lo stesso ricorrente esplicita a pag. 36 del ricorso, trattando il motivo in questione. In tal senso, il lamentato errore si pone al di fuori del perimetro della norma (art. 360 c.p.c., n. 3) che enuncia il vizio denunciato.
Con il sesto motivo di ricorso (ottavo motivo) deduce omesso esame di un fatto decisivo, inerente l’attendibilità dei dati forniti dalla Cogetech spa ai verificatori, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
La CTR non ha tenuto conto del fatto che la Cogetech era stata condannata dalla Corte dei Conti perchè i suoi apparecchi non erano collegati a quelli dello Stato e quindi trasmetteva dati inesatti sugli incassi.
Il motivo è infondato.
Lo stesso, in particolare, non è completamente autosufficiente, perchè non emerge con chiarezza la decisività del fatto.
Dall’esposizione sembra dedursi che il contribuente avesse dedotto in primo grado un errato funzionamento della rete telematica del concessionario che, verosimilmente, non avrebbe fatto risultare allo Stato incassi effettivamente realizzati, tanto che il motivo espone che il concessionario, insieme ad altri, era stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire allo Stato 255 milioni di Euro.
Tuttavia, il fatto in sè, sebbene introdotto probabilmente per indicare l’inattendibilità della presunzione si cui si fondava l’accertamento, va oltre lo scopo che si prefigge, perchè si profila quasi a sfavore del contribuente, secondo la sequenza dei fatti da egli compiuta in ricorso, in quanto la prospettazione, di fatto, del conseguimento di maggiori incassi da parte del concessionario per tale difetto dovrebbe comportare, come conseguenza nello svolgimento dei fatti esposto dal ricorrente, un accertamento di maggior reddito anche a carico di quest’ultimo.
In realtà, l’eventuale dimostrazione della inattendibilità dei dati relativi agli incassi del concessionario non equivale a prova contraria a favore del ricorrente, idonea a vincere la presunzione su cui si fonda l’accertamento, ma configura, piuttosto, un fatto che, anzi, legittima l’uso delle presunzioni quale unico mezzo per l’accertamento del reddito.
L’omissione o erronea affermazione della CTR sul punto non si rivela, pertanto, decisiva.
Il ricorso deve, in conclusione, essere respinto.
La spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico del ricorrente e, considerato il valore della causa, si liquidano in Euro 8.000.
Trattandosi di ricorso del 2014, si dà atto, ai sensi D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 8.000, in favore di parte ricorrente.
Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021