LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PERRINO Angel – M. –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –
Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –
Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al numero 23286 del ruolo generale dell’anno 2014, proposto da:
Restelli Devillers s.r.l. in liquidazione (già Vafir s.r.l.), in persona del legale rappresentate pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv.to Giuseppe Marini, elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore in Roma, Via dei Monti Parioli n. 48;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore;
– resistente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 972/28/2014, depositata in data 14 febbraio 2014, non notificata;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 settembre 2020 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido di Nocera.
RILEVATO
che:
– con sentenza n. 972/28/2014, depositata in data 14 febbraio 2014, non notificata, la Commissione tributaria regionale del Lazio, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di Vafir s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 245/38/12 della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva accolto il ricorso proposto dalla suddetta contribuente avverso l’avviso di accertamento n. ***** con il quale l’Ufficio aveva contestato a quest’ultima, un maggiore reddito di impresa imponibile ai fini Ires, Irap e Iva, per l’anno 2004, sulla base di una riscontrata grave incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore nonchè di una reiterata incongruenza dei ricavi, inferiori rispetto al parametro stimato, per tre periodi consecutivi (2004, 2006, 2007) su quattro annualità considerate;
– in punto di diritto, la CTR ha osservato che: 1) l’accertamento in oggetto, già ritenuto legittimo in primo grado, per l’inottemperanza della contribuente all’invito al contraddittorio, era stato corroborato, rispetto alla mera presunzione semplice data dallo scostamento dei ricavi dai parametri da studi di settore, dalla rilevata reiterata incongruenza dei ricavi, inferiori al parametro stimato, per tre periodi di imposta su quattro considerati (2004,2006-2007); 2) al di là del fatto che la contribuente avesse negato la veridicità dell’incongruenza dei ricavi almeno per il 2007, la metodologia accertativa utilizzata dall’Ufficio, in quanto arricchita di ulteriori elementi idonei a suffragare la presunzione semplice di cui ai parametri, era legittima con inversione dell’onere probatorio a carico della società; 3) le prove fornite dalla contribuente a giustificazione dello scostamento – diversamente da come ritenuto dal giudice di prime cure – non erano tali da determinare l’annullamento, nel merito, della pretesa erariale; 4) in particolare, non costituivano idonee circostanze a contrario nè la coerenza formale della contabilità aziendale, nè la dedotta impossibilità di realizzare accordi di sottofatturazione con “aziende di una certa caratura” – non contenendo il prodotto elenco delle società quotate in borsa alcun elemento di riscontro certo, in mancanza, peraltro, della produzione di copia delle fatture emesse nei confronti delle dette predette società nè tantomeno la dedotta incomprensibile esposizione debitoria – non dovendo la contribuente, per lo svolgimento della sua attività di prestazione di servizi, acquistare materiale destinato alla rivendita e, dunque, sostenere importanti investimenti che potessero comportare significative esposizioni debitorie;
– avverso la sentenza della CTR, Restelli Devillers s.r.l. in liquidazione (già Vafir s.r.l.), ha proposto ricorso per cassazione affidato a nove motivi, cui resiste, con “atto di costituzione” l’Agenzia delle entrate;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.
CONSIDERATO
che:
– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, per avere la CTR – a fronte della deduzione da parte della società contribuente in primo grado, quale argomento a sostegno della infondatezza della pretesa impositiva, dello svolgimento della propria attività con una certa tipologia di clientela (imprese di dimensioni medio-grandi o soggetti istituzionali) che non avrebbe accettato di pagare “in nero” e della mancata contestazione di tale circostanza da parte dell’Agenzia nelle controdeduzioni in primo grado – ritenuto legittimo l’avviso di accertamento sulla base della contestazione sollevata dall’Agenzia in grado di appello ex novo – che il contribuente non avrebbe dimostrato la veridicità dell’elenco dei clienti indicati (nel documento n. 5 allegato al ricorso di primo grado) in quanto non erano state depositate le fatture emesse nei confronti di tali clienti – benchè si trattasse di una eccezione inammissibile citato ex art. 57, in quanto nuova;
– il motivo è inammissibile in quanto non coglie il decisum, dato che la decisione della CTR, sotto questo profilo, si basa non già sulla rilevata mancata veridicità dell’elenco dei clienti – che sarebbe stata eccepita, ad avviso della ricorrente, dall’Agenzia ex novo in appello – ma sulla ritenuta mancata prova della dedotta impossibilità di realizzare accordi di sottofatturazione “con aziende di una certa caratura” in mancanza della produzione almeno delle fatture, dato che l’elenco delle società quotate in borsa prodotto – che in quanto tale (quanto alla tipologia di clientela) non risulta messo in discussione dal giudice di appello – non conteneva “alcun elemento di riscontro certo” e, dunque, non integrava una sufficiente prova contraria per superare la presunzione di maggiori ricavi non dichiarati da studi di settore;
– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per avere la CTR omesso di valutare la rilevanza probatoria del fatto – peraltro incontestato- che la società avesse quali clienti quelli indicati nel documento n. 5 allegato al ricorso in primo grado, ritenendo (accogliendo la nuova eccezione sollevata dall’Agenzia in appello) erroneamente che la società non avesse provato di avere effettivamente avuto i soggetti indicati quali clienti;
– il motivo si espone ugualmente al profilo di inammissibilità non cogliendo la ratio decidendi in quanto – come peraltro già osservato in ordine al motivo n. 1) – la CTR ha fondato la decisione di legittimità della pretesa tributaria non già sulla riscontrata non effettivitàdell’elenco dei clienti depositato in giudizio- che ad avviso della ricorrente non sarebbe stata oggetto di esame da parte del giudice di appello e che, invero, costituisce circostanza incontestata – ma sulla ritenuta inidoneità del detto elenco – in mancanza almeno delle fatture emesse dalla contribuente nei confronti di dette società – a dimostrare l’inesistenza di accordi di sottofatturazione e, dunque, a superare la presunzione basata sugli studi di settore;
– con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per non avere la CTR preso in considerazione il fatto – dedotto dalla contribuente in primo grado e non contestato dall’Agenzia – della regolarità della contabilità aziendale e bancaria e della incoerenza della stessa rispetto al maggiore reddito accertato;
– va ribadito che il vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 14 febbraio 2014) concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015). Nella specie, il motivo è inammissibile, in quanto la ricorrente non ha assolto il suddetto onere, essendo stato, peraltro, dedotto l’omesso esame non già di un “fatto storico”, ma bensì di profili attinenti alle risultanze probatorie- avendo la CTR escluso espressamente che, in conformità con la giurisprudenza di legittimità, la coerenza formale della contabilità aziendale costituisse idonea prova a contrario- la rivalutazione delle quali è preclusa a questa Corte;
– con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, per non avere la CTR considerato, quale elemento istruttorio, il sito internet (*****) indicato dalla contribuente, sin dal ricorso introduttivo, a dimostrazione del fatto che le prestazioni di servizio rese dalla società nel campo del marketing e delle strategie di posizionamento del brand erano dirette non già a privati ma ad imprese di dimensioni medio-grandi o a soggetti istituzionali che, secondo l’id quod plerunque accidit, pagavano dietro fatturazione;
– il motivo è inammissibile, in quanto sebbene la ricorrente denunci la violazione dell’art. 116 c.p.c., – in base al quale il giudice deve valutare le prove secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti – tende ad una inammissibile rivisitazione dell’apprezzamento di fatto – insindacabile in sede di legittimità- operato dal giudice di appello circa la mancata dimostrazione da parte della contribuente della dedotta impossibilità di realizzare accordi di sottofatturazione, non contenendo il prodotto elenco delle società quotate in borsa – in mancanza almeno di copia delle fatture emesse nei confronti di dette società – alcun elemento di riscontro certo;
– con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per non avere la CTR considerato il fatto che l’incongruenza dei risultati economici dichiarati rispetto a quelli risultanti dagli studi di settore fosse dovuta a un cattivo andamento dell’attività di impresa – come si evinceva dalla introduttiva al bilancio 2004 – essendo stata la società posta successivamente in liquidazione, con interruzione dell’attività;
– con il sesto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per non avere la CTR valutato che la percezione di ricavi inferiori a quelli risultanti dagli studi di settore fosse giustificabile con la situazione finanziaria difficile della società e con l’obiettivo di risanamento della stessa anche attraverso la diversificazione della clientela con aumento delle commesse;
– i motivi quinto e sesto – da trattare congiuntamente per connessione
– sono inammissibili in quanto – premesso che la CTR ha ritenuto, con un accertamento non sindacabile in sede di legittimità, non costituire idonea prova a contrario la dedotta esposizione debitoria in quanto la società, per lo svolgimento della propria attività di prestazione di servizi, non era tenuta ad acquistare materiale destinato alla rivendita per cui non doveva sostenere importanti investimenti – le deduzioni relative alla mancata considerazione da parte del giudice di appello delle difficoltà economiche e, in particolare, dello stato di liquidazione sono generiche, non essendo stato precisato dalla ricorrente nè l’entità e la asserita significatività delle esposizioni debitorie nè precisamente quando sarebbe subentrato detto stato di liquidazione (dalle controdeduzioni in appello, come trascritte alle pagine 23-24 del ricorso si evince soltanto la sopravvenienza della circostanza nella “pendenza del giudizio” e dunque successivamente all’accertamento fiscale);
– con il settimo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la CTR – decidendo in merito all’effettività del debito iscritto al bilancio del 2004 e andando a vagliare l’origine dell’indebitamento della società- pronunciato su una questione che non era mai stata posta in contestazione tra le parti e che era, dunque, fuori dei limiti di cui all’art. 112 c.p.c.;
– il motivo è inammissibile in quanto non coglie il decisum; invero, dalla sentenza si evince che la CTR ha vagliato la dedotta esposizione debitoria non già sotto il profilo dell'”effettività” e dunque “dell’origine dell’indebitamento” medesimo ma sotto il profilo della non significatività dello stesso e, dunque, della inidoneità a costituire valida giustificazione dello scostamento dagli studi di settore;
– con l’ottavo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 132 c.p.c., nella parte in cui la CTR ha rigettato il motivo di ricorso (riproposto dalla contribuente in sede di controdeduzioni in appello) relativo al difetto di motivazione della pretesa impositiva – per essere la rettifica basata solo sulla assunta divergenza tra i redditi dichiarati dalla contribuente e quelli derivanti dall’applicazione degli studi di settore – senza indicare quali sarebbero stati gli ulteriori elementi idonei a suffragare la presunzione semplice di cui ai parametri;
– il motivo è infondato;
– va precisato, in particolare, che costituisce ius receptum (in termini, Cass. n. 2876 del 2017) il principio secondo cui il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; invero, l’obbligo del giudice “di specificare le ragioni del suo convincimento”, quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte e precisamente alla sentenza delle Sezioni unite n. 1093 del 1947, in cui la Corte precisò che “l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità” e che “le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti”. Pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata; v. da ultimo Cass. 22949 del 2018). Come da ultimo precisato da questa Corte, “ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 9105 del 07/04/2017; Cass. 25456 del 2018); nella specie, la CTR ha chiaramente basato la propria decisione di rigetto della censura di difetto di motivazione dell’avviso sul rilievo del fondamento della rettifica oltre che sullo scostamento, per il 2004, dei ricavi dai parametri da studi di settore anche sulla reiterata incongruenza dei ricavi, inferiori al parametro stimato, per tre periodi di imposta (2004,2006-2007) su quattro considerati;
– con il nono motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la CTR omesso di pronunciare sulla censura proposta dalla contribuente in primo grado e riproposta nelle controdeduzioni in appello di illegittima irrogazione delle sanzioni con l’avviso di accertamento in questione, per carenza dell’elemento soggettivo, essendo stato il comportamento della contribuente ispirato alla più totale buona fede;
– il motivo è infondato;
– va, al riguardo, ribadito che “nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (ex multis, Sez. 5, n. 21968 del 28/10/2015); ora, nel caso di specie, la questione (pretermessa) riproposta in sede di controdeduzioni in appello, circa l’assunta illegittima irrogazione delle sanzioni per carenza dell’elemento soggettivo non poteva trovare comunque accoglimento; e ciò sulla base del consolidato principio di diritto secondo cui” In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. E’ comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza.” (ex plurimis, Cass., sez V, 30 gennaio 2020, n. 2139);
– in conclusione, il ricorso va rigettato;
– nulla sulle spese del giudizio di legittimità essendo rimasta intimata l’Agenzia delle entrate.
PQM
La Corte rigetta il ricorso;
Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021