LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17494-2020 proposto da:
S.M., S.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI, 25, presso lo studio dell’avvocato PAOLA MANGANARO, rappresentati e difesi dall’avvocato GERARDO VILLANACCI;
– ricorrenti –
contro
L.M., rappresentata e difesa dagli avvocati VALERIO FREDA e BARBARA PAGLIUCA,;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 158/2020 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 18/02/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
La Corte d’appello di Ancona, per quanto ancora interessa in questa sede, decidendo in sede di rinvio nella controversia riguardante la successione di S.E., iniziata dal coniuge in seconde nozze L.M. nei confronti di S.M. e S.R., figli nati dal primo matrimonio del de cuius con Sa.Ag., negava la configurabilità di una comunione universale fra i coniugi Sa. e S.. La sussistenza della comunione universale era stata fatta valere dai figli nati dal primo matrimonio, al fine di sostenere che i beni acquistati dal de cuius nel periodo compreso fra il 1959 e il 1971, benché intestati formalmente solo a quest’ultimo, erano anche di proprietà della loro madre Sa.Ag..
Secondo la Corte d’appello non ricorrevano i presupposti dell’istituto richiesti dall’art. 2140 c.c. nel testo applicabile ratione temporis.
Per la cassazione della sentenza S.M. e S.R. hanno proposto ricorso affidato a un unico motivo, con il quale denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 215 c.c. nel testo vigente prima della riforma del diritto di famiglia. Essi rimproverano alla Corte d’appello di avere definito la lite non in applicazione dell’art. 215 c.c., ma in applicazione dell’art. 2140 c.c. nel testo previgente. Si sostiene che tale norma riguardava la comunione tacita familiare, mentre gli attuali ricorrenti avevano sostenuto la diversa ipotesi della comunione universale prevista dall’art. 215 c.c. Fuorviata da tale errore di prospettiva giuridica, la Corte di merito non ha ammesso le prove dedotte dagli attuali ricorrenti, prove che avrebbero consentito di fare luce sulla sussistenza dei presupposti dell’istituto. Infatti, il de cuius aveva potuto operare quegli acquisti solo grazie al fatto che ai bisogni della famiglia furono destinati i ricavati della vendita dei beni di proprietà della sola Sa..
L.M. ha resistito con controricorso.
La causa è stata fissata dinanzi alla Sesta sezione civile della Suprema Corte cu conforme proposta del relatore di manifesta infondatezza del ricorso.
Il ricorso è inammissibile.
Il coniuge che affermi (con riferimento alla disciplina anteriore alla riforma del diritto di famiglia di cui alla L. 19 maggio 1975, n. 151), il diritto di comproprietà su un bene immobile intestato all’altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare, idoneo ad estendersi ipso iure agli acquisti fatti da ciascun partecipante senza bisogno di mandato degli altri né di successivo negozio di trasferimento, ha l’onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali (Cass. n. 7872/2021; n. 4330/1986; n. 1688/1986). E’ stato anche chiarito che la comunione dei beni tra coniugi (artt. 215 e segg. c.c.) può essere anche tacita e, come tale, non risultare dal contratto matrimoniale, ma è comunque condizionata al conferimento di un apporto da parte di ciascuno dei coniugi, con esclusione degli acquisti derivanti da donazioni e successioni, e deve essere provata da chi ne deduce l’esistenza (Cass. n. 1816/1963; n. 2120/1961). E’ stato anche precisato che, nella disciplina previgente alla riforma del diritto di famiglia di cui alla L. 19 maggio 1975, n. 151, il coniuge che reclami la comproprietà di un bene immobile, anche in una situazione di comunione tacita familiare, non potrebbe avvalersi della prova testimoniale, stante la necessità dell’atto scritto (art. 1350 c.c.) (Cass. n. 1062/1989).
La Corte d’appello, nell’esaminare la fattispecie, dopo avere richiamato i principi della materia, ha posto l’accento sul fatto che i beni, della cui proprietà si discuteva, erano stati acquistati dal de cuius prima che la Sa. vendesse a sua volta i beni di cui era proprietaria esclusiva, “con la conseguenza che il ricavato di tali cessioni non poteva essere destinato a costituire il corrispettivo delle alienazioni già perfezionate ed eseguite; peraltro gli stessi appellanti (…) hanno affermato che gli acquisti effettuati dallo S. avrebbero reso necessario reperire soltanto “in seguito” denaro “per soddisfare i bisogni della famiglia e ricoprire le spese affrontate in occasione dei vari acquisti sopramenzionati”, avvalorando, in tal modo, la tesi secondo cui “le successive vendite della Sa. sarebbero servite non a finanziare l’acquisto di beni da parte del de cuius, ma unicamente a soddisfare altre finalità”.
Tali considerazioni consentono di affermare, senza che sia necessario indagare se i riferimenti all’art. 2140 c.c. operati nella sentenza impugnata siano realmente non appropriati, che la Corte d’appello ha comunque valutato la vicenda in applicazione di parametri pertinenti alla fattispecie della comunione universale fra coniugi secondo la disciplina previgente, negandone motivatamente la sussistenza nel caso concreto. In quanto all’ulteriore doglianza, riguardante la mancata ammissione della prova per testimoni, essa allude a un vizio della decisione diverso dalla violazione di legge, formalmente proposta con il ricorso, e la cui deduzione richiedeva in primo luogo l’illustrazione del carattere decisivo del mezzo istruttorio in rapporto ai principi di cui sopra (Cass. n. 9748/2010; n. 8204/2018). Il ricorso, sul punto, si limita invece a sottolineare l’ammissibilità, anche in questa materia, della prova per testimoni in linea di principio. Ora, in disparte la considerazione che la stessa ammissibilità della prova, ove si tratti di immobili, non può darsi per scontata, è decisivo il rilievo che la Corte d’appello ha giustificato il diniego non perché abbia ritenuto la prova orale inammissibile. La prova non è stata ammessa perché ritenuta irrilevante ai fini della decisione, in rapporto agli elementi già acquisiti. E’ quasi superfluo ricordare che spetta, in via esclusiva, al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. n. 19547/2017; n. 28404/2017; n. 331/2020). Costituisce principio altrettanto acquisito che il giudice del merito non è tenuto a dare ingresso ad ulteriore attività istruttoria richiesta dalle parti quando, in base agli elementi già acquisiti, si sia formato un sicuro convincimento contrario a quanto si vorrebbe dimostrare, convincimento nella cui motivazione è implicita quella circa l’irrilevanza dei mezzi di prova non ammessi (Cass. n. 3297/1975).
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con addebito di spese.
Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida nell’importo di Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021