LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 7710/2014 R.G. proposto da:
G. IMMOBILIARE & C. S.a.s., G.S., G.M. e B.N., rappresentati e difesi dall’Avv. Maria Luisa Pazzaglia, presso il cui studio (Avv. Domenico Bonaiuti) sito in Roma, Via R. Grazioli Lante, n. 16, sono elettivamente domiciliati (p.e.c. marialuisa.pazzaglia.avvocatiperugiapec.it) fax 075.8521220;
– ricorrenti –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;
– intimata –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Umbria n. 161/03/2013, pronunciata il 26.9.2013 e depositata il 2.10.2013;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 ottobre 2020 dal consigliere Dott. Saieva Giuseppe.
RILEVATO
che:
1. La Commissione tributaria provinciale di Perugia accoglieva il ricorso proposto dalla S.a.s. G. Immobiliare & C., da G.S., da G.M. e da B.N. avverso gli avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate, relativamente all’anno 2006, aveva imputato un maggior reddito d’impresa di 248.791,00 Euro alla società anzidetta ed ai singoli soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione, rideterminando maggiori ricavi conseguenti a vendite di immobili, desunti dai prezzi di vendita dei preliminari, nonchè dai valori dei mutui e dalle relative perizie.
2. La Commissione tributaria regionale dell’Umbria, con sentenza n. 161/03/2013, pronunciata il 26.9.2013 e depositata il 2.10.2013, accoglieva l’appello interposto dall’Agenzia delle Entrate, ritenendo che i contribuenti non avessero “fornito elementi idonei a mettere concretamente in discussione i maggiori valori accertati dall’Ufficio”.
3. Avverso tale decisione la s.a.s. e i soci hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui l’Agenzia non ha contrapposto alcuna difesa.
4. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 21 ottobre 2020, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c..
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dello Statuto dei contribuenti, art. 7 e art. 12, comma 7, di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212 anche in relazione al disposto di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 3 per mancata allegazione del processo verbale di constatazione all’avviso di accertamento, nonchè mancata notifica del processo verbale di constatazione, nonchè mancato richiamo dello stesso all’avviso di accertamento notificato nei confronti della società G. immobiliare s.a.s., nonchè dei soci G.M. e B.N. e mancata allegazione dell’avviso di accertamento notificato alla G. Immobiliare s.a.s. agli avvisi di accertamento notificati al soci e mancata redazione di un processo verbale di constatazione autonomo nei confronti dei soci”
Il motivo è inammissibile e comunque infondato.
La C.T.R. ha correttamente ritenuto inammissibile la censura introdotta dai contribuenti per la prima volta in appello, essendo il relativo esame precluso dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, che ha esteso al processo tributario il divieto di nuove eccezioni in appello, introdotto per il giudizio contenzioso ordinario con la L. 26 novembre 1990, n. 353, tramite la riforma dell’art. 345 c.p.c..
Questa Corte ha avuto modo di affermare che il processo tributario è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio e da un oggetto del giudizio rigidamente delimitato dai motivi specificamente dedotti dal contribuente nel ricorso introduttivo in primo grado – con l’unico temperamento, costituito dalla possibilità di introdurre con memoria nuovi motivi nel corso del giudizio. La deduzione di un nuovo motivo di illegittimità dell’avviso di accertamento risulta pertanto inammissibile, in quanto il contenzioso tributario ha un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni comprese nei motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo dedotti col ricorso introduttivo (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 18 e 24), i quali costituiscono la causa petendi rispetto all’invocato annullamento dell’atto e la cui formulazione soggiace alla preclusione stabilita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, comma 2, (cfr. Cass. Sez. 5, 24/10/2014 n. 22662 che richiama 18/06/2003, n. 9754). Invero, la formulazione attuale della disposizione prevede un appello chiuso ai nova, in virtù del quale devono essere considerate inammissibili eventuali domande, eccezioni non rilevabili d’ufficio e prove che siano qualificabili come nuove. Tale divieto, peraltro, secondo l’orientamento di questa Corte, non comprenderebbe solo quanto espressamente previsto dalla lettera del codice, ma anche le contestazioni in fatto nuove, ovvero quelle non esplicate in primo grado, le quali comunque implicano una modifica dei temi di indagine (v. in tal senso Cass., 13/11/2015, n. 20502, nonchè Cass., 28/02/2014, n. 4854).
Tale interpretazione secondo questa Corte sarebbe imposta dalla natura dello stesso giudizio di appello quale mera revisio prioris instantiae (qualificazione questa, confermata dalle Sez. Un., 16/11/2017, n. 27199), posto che ove si ammettessero nuove contestazioni l’appello si trasformerebbe in un novum judicium.
La doglianza dei ricorrenti è comunque infondata atteso che questa Sezione tributaria ha ribadito che l’obbligo di porre il contribuente in condizione di conoscere le ragioni dalle quali deriva la pretesa fiscale è soddisfatto dall’avviso di accertamento dei redditi del socio che rinvii per relationem a quello riguardante i redditi della società, ancorchè solo a quest’ultima notificato, in quanto, da un lato, l’obbligo di motivazione è assolto anche mediante il riferimento ad elementi di fatto offerti da atti nella conoscibilità del destinatario e, dall’altro, il socio ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società ex art. 2261 c.c. e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi (cfr. Cass. Sez. 5, 18/10/2017 n. 24537; nonchè Sez. 5, 12/03/2014, n. 5645 e Sez. 6-T, 28/11/2014, n. 25296).
2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3, per aver ritenuto sussistenti delle presunzioni con carattere di gravità, precisione e concordanza ai fini dell’accertamento del maggior valore imponibile rispetto a quello dichiarato, individuandoli in elementi privi di tali requisiti, in tal modo incorrendo anche nel vizio di inadeguatezza o illogicità e insufficienza della motivazione della sentenza impugnata per erronea valutazione degli elementi presuntivi forniti dall’Ufficio.
Anche tale motivo è infondato in relazione a ciascun ordine di censure proposto e va rigettato.
Questa Corte ha chiarito che “nell’ipotesi di contestazione di maggiori ricavi derivanti dalla cessione di immobili, la reintroduzione, con effetto retroattivo, della presunzione semplice, ai sensi della (legge comunitaria 2008) L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che ha modificato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del prezzo della compravendita al valore normale del bene, introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, conv. in L. n. 248 del 2006, non impedisce al giudice tributario di fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purchè dotato dei requisiti di precisione e gravità”; a tal fine si è ritenuto che esso può essere integrato dal rilievo dello scostamento tra l’importo dei mutui erogati ai terzi acquirenti ed i minori prezzi di cessione indicati dalla parte venditrice nell’atto di vendita, non comportando ciò alcuna violazione delle norme in tema di onere probatorio (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 5, 23/10/2019 n. 27097; Cass. Sez. 5, 25/01/2019, n. 2155; Cass. Sez. 5, 09/06/2017, n. 14388).
Nella fattispecie in esame, la sentenza impugnata ha indicato gli elementi presuntivi idonei a fondare la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo, specificando, in particolare, come, tra gli atti di cessione, particolarmente significativa si manifestasse la divergenza tra i prezzi dichiarati di negli atti di cessione da quelli indicati nei preliminari oltre che dagli importi dei mutui concessi dagli istituti di credito e le relative perizie disposte ai fini dell’erogazione dei mutui stessi.
Quanto poi alla lamentata carenza motivazionale, irritualmente dedotta nell’ambito del vizio di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non risulta che i ricorrenti abbiano addotto elementi di prova, anche di natura presuntiva, idonei a superare l’accertamento analitico – induttivo, che la sentenza impugnata non abbia adeguatamente esaminato, talchè anche censura si appalesa del tutto infondata oltre che inammissibile.
3. Ne consegue che il ricorso dei contribuenti deve essere rigettato. Nulla sulle spese in assenza di attività difensiva da parte dell’Agenzia delle Entrate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso dei contribuenti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 21 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021