Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.367 del 13/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5683/2016 proposto da:

A.M., elettivamente domiciliata in Roma, Largo Somalia n. 67, presso lo studio dell’avvocato Gradara Rita, rappresentata e difesa da sè medesima unitamente agli avvocati Aureggi Ariatta Olimpia, Colombo Emanuela, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

S.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Salaria n. 292, presso lo studio dell’avvocato Baldi Francesco, rappresentato e difeso dall’avvocato Nicolini Oretta, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3390/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/09/2020 dal Cons. Dott. MELONI MARINA.

FATTI DI CAUSA

La Corte di Appello di Milano con sentenza in data 4/6/2015, respinse la domanda di A.M. di dichiarazione di efficacia della sentenza emessa in data 31/5/2012 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo e confermata con provvedimento del 22/2/2013 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Ligure, munita del decreto di esecutività emesso in data 17 settembre 2013 dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica Regionale della Liguria, con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio da lei contratto in ***** con S.A.A..

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso in cassazione A.M. affidato a due motivi e memoria. S.A. resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha disposto che la motivazione della presente ordinanza sia redatta in forma semplificata non ponendosi nel ricorso questioni di rilevanza nomofilattica.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il giudice territoriale ha violato il principio dell’onere della prova e negato la dichiarazione di efficacia in Italia della sentenza emessa in data 31/5/2012 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo e confermata con provvedimento del 22/2/2013 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Ligure, munita del decreto di esecutività emesso in data 17 settembre 2013 dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica Regionale della Liguria, per contrarietà all’ordine pubblico interno per essere il matrimonio durato più di tre anni nonostante il coniuge S.A., sul quale gravava l’onere, non abbia provato che la convivenza era durata più di tre anni.

Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 e 2729 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il giudice territoriale ha ritenuto che la convivenza coniugale era durata più di tre anni sulla base di fatti che non integravano in alcun modo presunzioni gravi, precise o concordanti.

Espone la ricorrente che la stessa Corte territoriale aveva accertato che il periodo di convivenza tra i coniugi era inferiore a tre anni e ciò in quanto il marito aveva sempre tenuto la residenza anagrafica ben distinta da quella della moglie in ***** trasferendola in ***** nella casa di vacanza dei suoi genitori già dopo pochi mesi dalla celebrazione del matrimonio avvenuto in data *****. La nascita dei due figli avvenuta nel ***** e nel ***** inoltre era avvenuta nei limiti del triennio e pertanto non costituiva alcuna prova decisiva in ordine alla durata della convivenza.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Questa Corte ritiene infatti di condividere il contenuto del provvedimento impugnato. A tal riguardo il giudice di merito ha correttamente motivato con la considerazione che la convivenza tra coniugi non richiede necessariamente la coabitazione materiale dei medesimi ed il S. aveva giustificato la scelta di tenere separata la sua residenza con la circostanza che la moglie aveva scelto come domicilio coniugale la casa della madre alla quale era legata da un eccessivo attaccamento (“simbiosi con la figura materna” come da relazione del perito di ufficio Dott. R.). Pertanto la presenza ridotta del marito dal domicilio coniugale non escludeva la convivenza protrattasi secondo il S. fino al ***** nel mese di ***** in cui si era verificata definitivamente la rottura del rapporto.

La sentenza a Sezioni unite di questa Corte n. 16379 del 17/07/2014 in materia di delibazione di sentenze in materia matrimoniale emesse da Tribunali ecclesiastici ha stabilito il principio secondo il quale “..la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto”. Nella fattispecie risulta accertata dal giudice di merito con argomentazioni condivisibili, una seppur anomala convivenza ultratriennale “come coniugi”, precisamente al *****, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima. Pertanto tale circostanza era ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana della predetta sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico in quanto trattavasi di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali ed ordinarie di “ordine pubblico italiano”.

Il ricorso deve pertanto essere respinto nei termini di cui sopra con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.

Ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità a favore del controricorrente che si liquidano in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, ricorrono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Della Corte di Cassazione, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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