LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28510/2014 proposto da:
A.M.A. – Azienda Municipale Ambiente s.p.a., elettivamente domiciliata in Roma, Via A. Depretis n. 86, presso lo studio dell’avvocato Pietro Cavasola, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Laura Opilio, e Gianluigi Pellegrino, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Consorzio Laziale Rifiuti Co.La.Ri, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Largo Messico n. 7, presso lo studio dell’avvocato Federico Tedeschini, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale per Notaio Dott. M.P.B.M. di Roma del *****;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2668/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 07/10/2020 dal Cons. Dott. MARCO MARULLI;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha chiesto per quanto di ragione l’accoglimento dei motivi sesto e terzo bis del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza 2668/14 del 22 aprile 2014 la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’impugnazione proposta da A.M.A. Azienda Municipale Ambiente s.p.a. ai sensi dell’art. 829 c.p.c., del lodo arbitrale che su domanda del Consorzio Laziale Rifiuti – Co.La.Ri. aveva condannato l’impugnante a tenere indenne quest’ultimo dagli oneri connessi alla gestione della discarica di ***** ed, in particolare, oltre che degli oneri sostenuti dal Consorzio per la lavorazione dei rifiuti nelle giornate festive e per fronteggiare l’incremento delle attività di raccolta notturna, degli oneri ricadenti sul Consorzio quale gestore per la gestione post mortem della discarica, che per effetto delle disposizioni attuative della Dir. Cee 26/04/1999 n. 1999/31/CE – e segnatamente degli artt. 10 e 14 di questa – recate dal D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36, era stata prolungata da dieci a trenta anni dalla sua chiusura.
Avverso la predetta decisione la soccombente proponeva ricorso a questa Corte sulla base di sei motivi, ai quali replicava l’intimato con controricorso. Il P.M. faceva pervenire le proprie requisitorie per iscritto ai sensi dell’art. 380-bis) c.p.c..
Per mezzo dei motivi declinati ai numeri 3 bis e 6 del ricorso A.M.A. si era data cura, tra l’altro, di sostenere che gli artt. 10 e 14 della Dir. CEE 1999/31 osterebbero ad una disciplina quale quella recata dal D.Lgs. n. 36 del 2003, artt. 15 e 17, qualora essa sia interpretata nel senso di estendere anche ai rifiuti già abbancati il prolungamento del termine della gestione post-operativa della discarica, di modificare i rapporti contrattuali in essere tra gestore e conferente sotto forma di modifica retroattiva della tariffa e di comportare l’addebito retroattivo dei costi relativi al prolungamento del termine anzidetto anche in relazione ai rifiuti già abbancati, in quanto, se interpretati nei termini in cui ne è stata fatta applicazione nel caso concreto, risulterebbero violati i principi del legittimo affidamento, della certezza del diritto e della irretroattività.
In esito all’adunanza camerale del 17.10.2018 questa Corte, con ordinanza interlocutoria 32743 depositata il 18.12.2018, deliberava di interpellare, in sede di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sottoponendo alla medesima le questioni ivi oggetto di rinvio.
Con sentenza 14.5.2020 in causa C-15/19 la Corte UE dichiarava che “gli artt. 10 e 14 della direttiva 1999/31/CE del Consiglio del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti devono essere interpretati nel senso che non ostano all’interpretazione di una disposizione nazionale secondo la quale una discarica in funzione alla data di recepimento di detta direttiva deve essere assoggettata agli obblighi derivanti da quest’ultima, segnatamente a una proroga del periodo di gestione successiva alla chiusura, senza che occorra distinguere in base alla data in cui i rifiuti sono stati abbancati, nè prevedere alcuna misura intesa a contenere l’impatto finanziario di tale proroga sul detentore dei rifiuti”.
La causa torna ora in discussione all’odierna udienza camerale. Successivamente alla comunicazione di essa, A.M.A. ha notificato e quindi depositato “atto di riassunzione – art. 297 c.p.c., a seguito di decisione CGUE in sede di rinvio pregiudiziale”.
Requisitorie scritte del P.M..
RAGIONI DELLA DECISIONE
2.1. Compendiati i termini delle questioni al suo esame nella considerazione che “il giudice del rinvio domanda in sostanza se gli artt. 10 e 14 della direttiva 1999/31 debbano essere interpretati nel senso che ostano all’interpretazione di una disposizione nazionale secondo la quale una discarica in esercizio alla data di recepimento di detta direttiva deve essere assoggettata agli obblighi derivanti da quest’ultima, segnatamente ad una proroga del periodo di gestione successiva alla chiusura, senza che occorra distinguere in base alla data in cui i rifiuti sono stati abbancati nè prevedere alcuna misura intesa a contenere l’impatto finanziario di tale proroga sul detentore dei rifiuti” (punto 31), la Corte UE chiarisce previamente, alla luce dell’intendimento espresso nel considerando 25 della direttiva, che le disposizioni da essa introdotte non si applicano alle discariche non più in esercizio, sicchè “solo le discariche già chiuse anteriormente alla data di recepimento della direttiva 1999/31 o, al più tardi, il 16 luglio 2001, non sono interessate dagli obblighi derivanti da tale direttiva in materia di chiusura. Non è questo il caso della discarica di *****, la quale, come è pacifico tra le parti nel procedimento principale, era ancora in funzione a tale data” (punto 35). Più in dettaglio, è poi opinione del giudice Europeo che l’art. 14 della direttiva, nella parte in cui onera le autorità competenti di predisporre un piano di riassetto per le discariche in esercizio secondo le specifiche imposte dalla direttiva, “non può essere interpretato nel senso che esso esclude le discariche preesistenti dall’applicazione di altre disposizioni di tale direttiva” (punto 40); ed in unione con gli obblighi dettati dagli artt. 13 circa i compiti di sorveglianza cui è tenuto il gestore di seguito alla chiusura e 10 circa l’estensione da dieci a trenta anni della gestione post mortem radica il convincimento – peraltro coonestabile, come non si manca di notare, alla stregua del principio “chi inquina paga” già enunciato dalla legislazione comunitaria secondo cui il costo dello smaltimento deve gravare sul detentore – che l’adempimento degli obblighi fissati dalla direttiva, in particolare per la proroga della gestione post mortem, esiga “l’adozione di misure da parte degli Stati membri al fine di garantire che il prezzo chiesto per lo smaltimento dei rifiuti mediante deposito in discarica venga determinato in modo tale da coprire l’insieme dei costi connessi con la creazione e la gestione di una discarica” (punto 44).
2.2. Da qui, in funzione della risposta da rendere al giudice del rinvio, un primo corollario secondo cui “conformemente agli artt. 10, 13 e 14 della direttiva 1999/31, il gestore di una discarica in funzione al momento del recepimento di tale direttiva deve essere tenuto a garantire, per almeno 30 anni, la gestione successiva alla chiusura della discarica” (punto 45). Quindi, con un secondo corollario, circa l’applicazione degli obblighi nascenti dalla direttiva a seconda dell’epoca di conferimento dei rifiuti, “si deve rilevare che la direttiva 1999/31 non prevede un’applicazione differenziata di detti obblighi a seconda che i rifiuti siano stati conferiti e abbancati prima o dopo la scadenza del termine di recepimento di tale direttiva… Come risulta dal tenore letterale dell’art. 10 di detta direttiva, l’obbligo di gestione successiva alla chiusura di una discarica per un periodo di almeno 30 anni concerne, in termini generali, lo smaltimento di qualsiasi tipo di rifiuti in tale discarica” (punto 47); “di conseguenza, si deve considerare, che l’obbligo di assicurare la gestione successiva alla chiusura di una discarica per un periodo di almeno 30 anni, quale previsto dall’art. 10 della direttiva 1999/31, si applica a prescindere dal momento in cui i rifiuti sono stati destinati alla discarica. Tale obbligo riguarda, quindi, in linea di principio, la discarica di cui trattasi nel suo insieme” (punto 49). Da ultimo, con un terzo corollario enunciato in risposta al quesito circa le conseguenze finanziarie connesse al prolungamento della gestione post mortem, si precisa, in ossequio al già ricordato principio “chi inquina paga”, che “le normative nazionali che disciplinano le discariche devono garantire che tutti i costi di gestione di tali discariche gravino effettivamente sui detentori dei rifiuti che li depositano nelle discariche ai fini del loro smaltimento” (punto 53); ed è perciò compito di ogni Stato membro “aver adottato le misure necessarie a garantire che i prezzi applicati per lo smaltimento dei rifiuti depositati in una discarica coprano, in particolare, l’insieme dei costi di chiusura della discarica nonchè di gestione successiva alla sua chiusura” (punto 55).
2.3. Il quadro interpretativo che così si delinea non si pone peraltro in urto con i principi della certezza del diritto e di irretroattività della legge, asseritamente violati – come si era, infatti, sostenuto da A.M.A. – dal prolungamento del periodo di gestione della discarica successivamente alla sua chiusura allorchè non si operi alcuna distinzione tra il momento di conferimento dei rifiuti e non sia prevista in sede di attuazione alcuna limitazione finanziaria a carico del detentore. “Si deve tuttavia ricordare” – osserva infatti la Corte “che una nuova norma giuridica si applica a partire dall’entrata in vigore dell’atto che la introduce e che, sebbene, non si applichi alle situazioni giuridiche sorte e definitivamente acquisite anteriormente a tale entrata in vigore, essa si applica immediatamente agli effetti futuri di una situazione sorta in vigenza della legge precedente” (punto 57), e dunque, se le disposizioni della direttiva non si applicano alle discariche già chiuse, e la direttiva non ha perciò efficacia retroattiva, non è questo il caso della discarica di *****, posto che essa “era in funzione alla data di recepimento di detta direttiva e la sua chiusura è avvenuta mentre vigeva quest’ultima” (punto 59).
3. Il conclusivo enunciato in cui si condensa il dictum del giudice Europeo – e di cui si è data contezza nella parte narrativa – rimuove dunque ogni residua riserva circa il fatto che le disposizioni recate dalla direttiva, e, di riflesso, quelle di diritto interno che ad esse hanno dato attuazione, si applicano anche alle discariche preesistenti che siano ancora in esercizio, che a tal fine non si rende necessario distinguere tra rifiuti già abbancati prima o dopo il recepimento degli obblighi comunitari e che i costi conseguenti, segnatamente, alla proroga della gestione post operativa devono far carico al detentore anche in difetto di misure atte a contenerne l’impatto finanziario sul medesimo. Indirettamente, va detto quantunque non di questo qui si discuta, che di ciò si giovano le conclusioni adottate con il lodo oggetto di impugnativa e, nei limiti propri del mezzo azionato, che com’è noto consente di sindacare solo la legittimità del provvedimento gravato, e quindi delle questioni di diritto devolutegli, anche l’impianto decisorio alla radice del pronunciamento della Corte d’Appello, dell’avviso – si osserva incidentalmente – argomentato alle pagg. 13-18 della sentenza qui impugnata, che il D.Lgs. n. 36 del 2003, “si applica, secondo quanto si evince dal testo delle norme in esso contenute, anche alle discariche già in funzione al momento della sua entrata in vigore” e che i maggiori oneri connessi al proroga della gestione post operativa fanno capo al gestore “sul presupposto, però, lo stesso gestore sia già stato compensato per tale prestazione con il prezzo da lui corrisposto per lo smaltimento dei rifiuti”.
4.1. Nè per contro legittimano una diversa chiave di lettura del riferito quadro interpretativo schiarito dalla Corte di Giustizia – e, di conseguenza, una diversa ricaduta sulla fattispecie in esame – le precisazioni che la sentenza opera ai punti 60, 61 e 62 della propria motivazione ove, esaminandosi i profili finanziari connessi al prolungamento della gestione post mortem, si coglie l’occasione per puntualizzare che “una tale valutazione deve tenere conto anche dei costi già sostenuti dal detentore e dei costi stimati per i servizi che saranno prestati dal gestore” (punto 61) e che “il livello di tale importo deve inoltre essere fissato in modo da coprire esclusivamente l’aumento dei costi di gestione connesso alla proroga di 20 anni nel periodo di gestione successiva alla chiusura della discarica” (punto 62).
4.2. Ancorchè in questa direzione si orienti il P.M. si tratta di affermazioni che non possono avere il seguito auspicato.
Occorre, per vero, intanto stimarne la portata in rapporto al sindacato demandato al giudice unionale, di talchè la loro estrapolazione non può prescindere da una previa contestualizzazione sullo sfondo di quelle che sono le finalità proprie del rinvio pregiudiziale.
La Corte di Giustizia ha già da tempo chiarito che secondo la sua costante giurisprudenza “l’art. 267 TFUE istituisce un meccanismo di rinvio pregiudiziale volto a prevenire divergenze interpretative del diritto dell’Unione che i giudici nazionali devono applicare e tende a garantire quest’applicazione, conferendo al giudice nazionale un mezzo per eliminare le difficoltà che possa generare il dovere di dare al diritto dell’Unione piena esecuzione nella cornice dei sistemi giurisdizionali degli Stati membri” (C. Giust., 21/07/2011, C-104/10, Kelly). Il giudizio che ha luogo avanti alla Corte UE ha perciò una valenza prevalentemente interpretativa, tanto più che la prassi – e la giurisprudenza di questa Corte ne è diretta testimone quando individua tra i presupposti del rinvio un dubbio interpretativo sulla norma comunitaria (Cass., Sez. U., 24/05/2007, n. 12067) – è venuta orientandosi sempre più spesso nel senso di sollecitare il giudizio Europeo a “pronunciarsi sull’interpretazione della norma dell’Unione in modo tale da chiarire un dubbio di compatibilità con essa della normativa interna, affermando più o meno espressamente se vi sia un contrasto effettivo tra le norme dei due ordinamenti”. E’ innegabile, seguendo il filo di queste considerazioni, che il giudizio che prende forma avanti alla Corte di Giustizia, allorchè sia investita di una questione interpretativa per mezzo del rinvio pregiudiziale, è un giudizio a largo spettro in cui la Corte, dovendo interpretare il diritto dell’Unione in rapporto alla sua applicazione nei singoli ordinamenti e quindi in rapporto alle norme di diritto interno che vi danno attuazione, enuncia il proprio pensiero in modo da rimuovere il dubbio sulla compatibilità di queste ultime rispetto al primo.
In questo scenario la Corte di Giustizia non si presenta come giudice del caso concreto, non già e non solo perchè di esso non ha altra cognizione che quella mediata dall’opera di filtrazione che ne compie il giudice nazionale per mezzo dell’ordinanza di rinvio, ma perchè ciò è estraneo ai suoi compiti istituzionali e non si concilierebbe con la funzione che essa incarna nell’ordinamento degli organi dell’Unione. Il caso concreto nei suoi antefatti costitutivi è infatti solo l’innesco di un problema interpretativo che si sostanzia nel porre al giudice, ordinamentalmente deputato a dirimerlo, il dubbio che la regolazione giuridica di una determinata vicenda all’esame del giudice che opera il rinvio sulla base del diritto nazionale risulti compatibile con il quadro di riferimento vigente a livello Europeo.
Questo induce a riconsiderare la portata dei dicta della Corte di Giustizia, allorchè questo sciogliendo il dubbio interpretativo esternato dal giudice del rinvio indichi la chiave di lettura delle norme nazionali secondo il diritto Eurounitario e gli restituisca gli atti per la prosecuzione del giudizio, in rapporto alla sottostante realtà processuale incisa dalla decisione del giudice unionale. Non può, cioè, non tenersi conto, nel misurare gli effetti della decisione sul giudizio sottostante, dell’andamento tipicamente sequenziale di questo; sequenza procedimentale, innanzitutto, tanto più stringente quanto più si riduce il collo di bottiglia attraverso il quale passano le fasi successive di esso e, in particolare, come suggerisce la vicenda in esame, la fase dell’impugnazione governata in generale dal principio dell’acquiescenza e, come qui accade, pure dal principio della critica vincolata; ma sequenza, non secondariamente, decisoria, dato che la sentenza è frutto di una progressione argomentativa che, nello scrutinare le questioni postegli dal giudizio secondo l’ordine logico e giuridico di esse, il giudice compie in direzione della decisione finale, dando vita al ragionamento decisorio che è compito poi della motivazione illustrare sviluppandone i diversi passaggi che danno ad esso forma e sostanza.
Orbene, se si guarda alla sentenza impugnata al lume di queste considerazioni vien fatto di notare, proprio scorrendone la motivazione, che le questioni, su cui in grazia delle richiamate puntualizzazione operate dal giudice unionale ai punti 61 e 62 della propria decisione si sollecita l’attenzione, non sono passate inosservate al vaglio del giudice del gravame, che su di esse ha avuto perciò occasione di far conoscere, ancorchè incidentalmente – ed il rilievo come si vedrà non è di poco momento – il proprio pensiero, di segno opposto a quello della ricorrente, ma perfettamente in linea con gli intendimenti formulati dalla Corte di Giustizia.
Nel declinare il terzo motivo di impugnazione del lodo – a mezzo del quale era intenzione di A.M.A. che ne fosse dichiarata la nullità, tra l’altro, per illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui gli arbitri avevano quantificato i maggiori oneri ricadenti su di essa per effetto del prolungamento della gestione post-operativa della discarica – la Corte d’Appello si dà cura di precisare che la somma a tale titolo spettante al Co.La.Ri identifica il “ristoro dei maggiori costi di gestione post-operativa della discarica a causa del suo prolungamento da 10 a 30 anni della durata di tale gestione” (pag. 19), in tal modo enunciando un’affermazione che, nell’allinearsi esattamente alla raccomandazione impartita dalla Corte di Giustizia al punto 62 del proprio deliberato, rende indiretta attestazione che anche la pronuncia arbitrale risulta conforma avendo inteso limitare il ristoro al solo prolungamento della gestione post-operativa.
Nondimeno anche la raccomandazione contenuta nel punto 61 della sentenza Eurounitaria non è rimasta senza seguito nell’argomentare espositivo della decisione qui impugnata. La Corte d’Appello, sempre declinando il medesimo motivo di gravame e ricostruendo nei dettagli l’iter seguito dagli arbitri per addivenire alla quantificazione del predetto ristoro, ha infatti colto l’occasione per annotare che, rispetto alla stima operata inizialmente dagli arbitri, la somma finale era stata determinata da costoro, tra l’altro, “dovendosi tener conto di molte altre circostanze, quale ad esempio, quella che una somma era già stata pagata in previsione della durata decennale della gestione post-operativa”, affermazione che, rispecchiando fedelmente il deliberato del giudice Europeo sul punto, suona ancora ad indiretto riscontro della conformità ad esso anche del lodo impugnato avanti a sè.
E’ dunque evidente che, neppure facendosi interpreti delle puntualizzazioni con cui la Corte di Giustizia ha ritenuto di corredare il proprio deliberato riguardo alle questioni sottopostegli dall’ordinanza di rinvio, la decisione qui impugnata si presterebbe ad essere oggetto di critica, dato che, nel motivare il proprio convincimento in ordine al dedotto motivo di impugnazione, la Corte del gravame ha mostrato di coltivare un’opinione del tutto in linea con quanto suggerito dal giudice Eurounitario. Tanto sull’una che sull’altra questione lo sviluppo impresso dalla Corte d’Appello al discorso decisorio, a cui occorre raccordare per le considerazioni dianzi espresse, le determinazioni assunte dal giudice sovranazionale, esprime, sullo sfondo dell’assenso più generalmente prestatovi, una linea di pensiero che ne recepisce e ne doppia esattamente i contenuti, offrendo anche di tali questioni una chiave di lettura che condivide e fa propri gli enunciati Eurounitari.
Ne discende che, se per effetto della pronuncia della Corte UE, le doglianze esternate dalla ricorrente con i motivi 3-bis e 6 del ricorso devono ritenersi assorbite, neppure le sollecitazioni cassatorie che la ricorrente indirizza al collegio sulla scorta delle viste puntualizzazioni operata dalla sentenza, meritano seguito, posto che la decisione impugnata, sul punto in questione, si è pienamente conformata ai deliberati UE.
E questo non senza poi dire che per il fatto di costituire un mezzo a critica vincolata l’impugnazione del lodo che ha luogo avanti alla Corte d’Appello a mente dell’art. 829 c.p.c., innescando la fase rescindente del relativo giudizio, può avere ad oggetto solo le questioni che si traducono in uno degli “errores in procedendo” specificamente previsti ovvero nell’inosservanza di norme di diritto, con la conseguenza che riguardo alle questioni non oggetto di impugnazione si determina l’effetto preclusivo proprio dell’acquiescenza parziale e di cui all’art. 329 c.p.c., nonchè la cosa giudicata formale dell’art. 324 c.p.c.. Effetti destinati, intuitivamente ad amplificarsi maggiormente in occasione del ricorso per cassazione, potendo questo avere ad oggetto, per la tassatività dei motivi di ricorso indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, solo le questioni già vagliate negativamente dalla Corte d’Appello in fase rescindente.
Orbene, ciò considerato, non può non prendersi atto, scandagliando tanto la sentenza impugnata, quanto lo stesso ricorso, che non ne fanno la minima menzione, che sulle questioni oggetto dell’odierna sollecitazione cassatoria, pure non ignorate, come visto, dallo sviluppo motivazionale illustrato dalla decisione impugnata, nessuna istanza era stata inoltrata al giudice del gravame, sicchè riguardo ad esse, in disparte da quanto osservato per l’innanzi, si è comunque formato il giudicato che è perciò intangibile e che non sarebbe, com’ è noto, suscettibile di rimozione neppure ove se ne prospettasse la sua contrarietà al diritto dell’Unione (C. Giust., 16/07/2020, C-424/19, Cabinet de avocat UR).
Tale ultimo rilievo rende peraltro irrilevanti anche le subordinate censure di incostituzionalità che A.M.A. muove alle disposizioni recata dal D.Lgs. n. 36 del 2003, poichè, dovendosene apprezzare la rilevanza prima della loro ammissibilità, il giudicato che copre le determinazioni assunte dagli arbitri priva le obiezioni al riguardo formulate dal ricorrente della necessaria rilevanza prescritta dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23.
Rigettandosi con ciò le deduzioni rassegnate con i motivi 3 bis e 6 di ricorso, il ricorso va perciò conclusivamente respinto.
Le spese di giudizio possono essere integralmente compensate, ravvisandosi nelle motivazioni allegate a suffragio del disposto rinvio pregiudiziale le gravi ed eccezionali ragioni che lo consentono secondo la corrente lezione di costituzionalità.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e compensa integralmente le spese di giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021
Codice Civile > Articolo 2020 - Leggi speciali | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 1 - Giurisdizione dei giudici ordinari | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 324 - Cosa giudicata formale | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 329 - Acquiescenza totale o parziale | Codice Procedura Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 829 - Casi di nullita' | Codice Procedura Civile