LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24810/2019 proposto da:
B.R., elettivamente domiciliato in Ascoli Piceno, Rua del Papavero n. 6, presso lo studio dell’avv.to PAOLO ALESSANDRINI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE ANCONA;
– intimata –
avverso il decreto del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositato il 09/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/04/2021 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.
RILEVATO
Che:
1. Il Tribunale Dell’Aquila con decreto pubblicato il 9 luglio 2019, respingeva il ricorso proposto da B.R., cittadino del Bangladesh, avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).
2. Il richiedente aveva raccontato di essere espatriato perché aveva una relazione con una ragazza appartenente a una famiglia benestante di casta superiore e i familiari della ragazza osteggiavano la relazione. Egli, in due occasioni, era stato picchiato su istigazione dei parenti della giovane e non voleva tornare in patria perché temeva di essere ucciso dai familiari della ragazza che non voleva sposar nessun altro.
3. Il Tribunale dopo aver richiamato le tre diverse forme di protezione internazionale riteneva non sussistere i presupposti per il riconoscimento della protezione in nessuna delle sue forme.
Il racconto del richiedente non era credibile in particolare con riferimento alle minacce subite. Pertanto, non poteva riconoscersi lo status di rifugiato, mancando i presupposti consistenti nella persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica. Secondo il Tribunale difettavano anche i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria non emergendo rischi di condanna a morte o di subire trattamenti inumani o degradanti, né il rischio di non essere protetto dalla vendetta privata, rischio peraltro non più attuale essendo il rapporto amoroso oramai cessato.
Il Bangladesh non era un paese soggetto ad una situazione di indiscriminata violenza derivante da un conflitto armato come emergeva dalle fonti consultate.
Infine, quanto alla richiesta di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari il Tribunale evidenziava che non erano stati allegati fatti rilevanti ai fini della valutazione dell’integrazione presupposto per il riconoscimento della protezione umanitaria.
3. B.R. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi di ricorso.
4. Il Ministero dell’interno si è costituito con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione o falsa applicazione della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 ratificata con L. n. 722 del 1954.
La censura attiene al fatto che le persecuzioni lamentate dal ricorrente siano state ritenute di natura privata, non costituenti motivo di persecuzione per appartenenza ad un gruppo sociale. La decisione del Tribunale sarebbe erronea, contrastante con le fonti e non corrispondente al sistema di tutela predisposto dalla convenzione di Ginevra. In Bangladesh vi sarebbe un sistema sociale diviso in caste con un forte sistema gerarchico come emergerebbe dalle fonti.
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione o falsa applicazione dell’art. 4 della direttiva 2011/95/UE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, nonché dell’art. 10 della direttiva 2013/32/UE, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27.
La censura attiene alla carenza all’apparenza della motivazione, alla violazione dei doveri di collaborazione e alla mancata valutazione della documentazione probatoria offerta. La censura attiene al criterio adottato dal giudice per ritenere non credibile il racconto nonostante fosse stata prodotta in giudizio una denuncia sporta dai genitori della ragazza nei confronti del richiedente e, inoltre, fosse stata fornita anche ampia documentazione fotografica e documentale da cui si evincerebbe chiaramente la natura delle lesioni subite dal ricorrente e il periodo di ricovero, a conferma dei pericoli cui andrebbe incontro in caso di rientro nel paese. Il richiedente aveva fatto ogni sforzo per dare credibilità al suo racconto e il Tribunale non avrebbe verificato d’ufficio la situazione del paese di provenienza, ciò anche rispetto alla situazione complessiva del paese.
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 4 direttiva della direttiva 2011/95/UE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, art. 2 Cost., in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3.
Mancata valutazione del contratto di lavoro ai fini della concessione della protezione umanitaria. Difetto di motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza di un’ipotesi del pericolo di un danno grave e, dunque, anche della vulnerabilità in capo al ricorrente determinata, sia delle persecuzioni e minacce di morte, sia dalla grave situazione di conflitto di emergenza umanitaria presente in Bangladesh.
La censura attiene alla omessa valutazione comparativa tra l’integrazione raggiunta, il percorso lavorativo avviato e la particolare situazione di criticità lasciata in Bangladesh. Il Tribunale dell’Aquila avrebbe totalmente omesso di valutare l’integrazione sociale del richiedente nel tessuto italiano come circostanza idonea a determinare una situazione di vulnerabilità personale meritevole di tutela attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il ricorrente dal rischio di essere immesso nuovamente in conseguenza del rimpatrio in un contesto sociale o politico ambientale di compromissione dei suoi diritti fondamentali.
4. I tre motivi, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.
Deve ribadirsi che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 2019).
Il giudice di merito ha effettuato una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, sufficientemente e logicamente argomentata, fondando il proprio convincimento in base alla valutazione complessiva degli elementi istruttori, sicché le censure proposte mirano ad una impropria revisione del giudizio di fatto precluso in sede di legittimità. Come si è detto la valutazione delle prove, il giudizio sull’attendibilità dei documenti e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di formare il suo convincimento utilizzando gli elementi che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova (Cfr. Cass., Sez. 1, sentenza n. 11511 del 23 maggio 2014, Rv. 631448; Cass., Sez. L, sentenza n. 42 del 7 gennaio 2009, Rv. 606413; Cass., Sez. L., sentenza n. 2404 del 3 marzo 2000, Rv. 534557).
Il Tribunale ha fatto esplicito riferimento a fonti qualificate dalle quali ha tratto la convinzione che il Bangladesh non sia una zona rientrante tra quelle di cui al D.Lgs. n. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato, benché la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito e anche non idonea, quanto ai restanti fatti rappresentati (Cass. n. 14283/2019).
Deve ribadirsi che, in tema di protezione sussidiaria, anche l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui alla norma citata, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018). Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti è stato, dunque, correttamente esercitato, benché la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile (Cass. n. 14283/2019).
Inoltre, con riferimento alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), deve evidenziarsi che il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile e che, in tal caso, non si impone l’esercizio dei poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva.
In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, anche in questo caso il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, anche alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono, la sussistenza di un percorso di integrazione e l’esistenza di una situazione di particolare vulnerabilità del ricorrente.
5. In conclusione il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 1 aprile 2020.
Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2021