LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26822/2019 proposto da:
C.C., S.A., elettivamente domiciliati in Roma, Via G.P. da Palestrina n. 63, presso lo studio dell’avvocato Contaldi Stefania, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Grego Enrico, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
S.M.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via degli Avignonesi n. 5, presso lo studio dell’avvocato Aliberti Giuliana, rappresentato e difeso dall’avvocato Capurso Maurizio, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
S.B.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1371/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, pubblicata il 05/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/11/2021 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale D0ott. DE RENZIS LUISA, che chiede il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 5.6.2019, ha rigettato il gravame avverso la sentenza impugnata che aveva dichiarato che S.M. (nato il *****) è figlio di S.G. (deceduto il *****), essendo nato da una relazione di quest’ultimo con M.M. in località ***** nello ***** ove il S. viveva.
L’azione per il riconoscimento della paternità era stata proposta da S.M. nei confronti di A. e S.B., sorelle ed eredi superstiti di S.G., dinanzi al Tribunale di Pisa, nel cui giudizio era intervenuto C.C., figlio ed erede della terza sorella ( M.T.) di S.G..
La Corte d’appello, dopo avere premesso che non era stato possibile reperire tracce di “dna” di S.G., ha fondato la decisione sulla base dei seguenti elementi di probatori risultanti dalla consulenza svolta fuori dal processo dal prof. R. (o R.) D., presso il Laboratorio di Emogenetica Forense dell’Università di Pisa, su reperti di “dna” di A. e S.B. e di un cugino, prelevati con il loro consenso, il cui esito di paternità era del 99,99%; dalla consulenza tecnica ematologica eseguita in giudizio dal prof. V. su S.B., il cui esito positivo era di “rilevante probabilità” (95,4822%);
dal rifiuto di S.A. e dall’indisponibilità di C.C. (figlio di un’altra sorella di S.G.) a sottoporsi all’esame ematologico per verificare la compatibilità del “dna” con quello di S.M.; dalle dichiarazioni testimoniali rese da M.G., coniuge di Me.Gi., autore di una missiva del 30.10.1961 inviata alla madre di S.G., nella quale si riferiva della convivenza di quest’ultimo con una giovane ragazza africana che affermava di essere in attesa di un figlio del S.; dall’interrogatorio formale di S.B. che aveva riferito del ritrovamento del bambino e di averlo adottato; dalla missiva di T.P. che informava la madre di S.G. dell’esistenza di un figlio di quest’ultimo che si trovava con sé dopo la morte del padre.
S.A. e C.C. propongono ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, resistiti da S.M. anche con memoria. S.B. non ha svolto attività difensiva.
Il Procuratore generale ha presentato requisitoria scritta chiedendo il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 228 c.p.c., artt. 2730 e 2733, per avere dato rilievo probatorio alle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale da S.B., zia e madre adottiva di S.M., in quanto pretesamente a lei sfavorevoli e opponibili, omettendo però di valutare che tali dichiarazioni non erano opponibili alle altre parti del giudizio poiché si riferivano a circostanze favorevoli alla tesi comune sostenuta un giudizio dal soggetto deferente ( S.M.) e dall’interroganda, tra i quali vi era identità di posizioni difensive.
Il motivo è in parte inammissibile per difetto di specificità riportando quali siano le dichiarazioni di S.B. di cui si contesta l’utilizzabilità e, comunque, infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’interrogatorio formale reso in un processo con pluralità di parti, essendo volto a provocare la confessione giudiziale di fatti sfavorevoli alla parte confitente e favorevoli al soggetto che si trova, rispetto ad essa, in posizione antitetica e contrastante, non può essere deferito su un punto dibattuto in quello stesso processo tra il soggetto deferente ed un terzo diverso dall’interrogando, non avendo valore confessorio le risposte, eventualmente affermative, fornite dell’interrogato, non potendo la confessione giudiziale acquisire il valore di prova legale nei confronti di persone diverse dal confitente, in quanto costui non ha alcun potere di disposizione relativamente a situazioni giuridiche facenti capo ad altri, distinti soggetti del rapporto processuale (cfr. Cass. n. 20476 del 2015, n. 4486 del 2011).
I precedenti poc’anzi richiamati precisano però che il giudice ha il potere di apprezzare liberamente le dichiarazioni rese e trarne elementi indiziari di giudizio nei confronti delle altre parti, fermo restando che tali elementi non possono prevalere rispetto alle risultanze di prove dirette.
Nella specie, i giudici di merito hanno accertato la paternità di S.G. nei confronti di M. sulla base di numerosi e univoci elementi di prova diretta (consulenze tecniche) e indiretta (dichiarazioni di testimoni, ecc.), rispetto ai quali le dichiarazioni di S.B. hanno avuto un valore indiziario meramente confermativo. Non sussiste, pertanto, violazione dei parametri normativi richiamati.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., u.c., per avere attribuito rilievo probatorio alle dichiarazioni della stessa madre naturale M., per come riferite nella missiva di Me.Gi., relative alla gravidanza della ragazza e alla sua presunta relazione con S.G., e di S.B. che ne era venuta a conoscenza indirettamente dalla lettera del Me..
Il motivo è inammissibile, essendo diretto, dietro lo schermo della denuncia di violazione di legge, a contestare apprezzamenti di fatto incensurabili in questa sede, di cui si chiede impropriamente la rivisitazione.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 101,115 e 201 c.p.c., per avere utilizzato, ai fini dell’accertamento della paternità, una perizia svolta fuori dal processo il cui esito sarebbe inattendibile, in quanto effettuata dal prof. D. senza la partecipazione di C.C., quindi in violazione del contraddittorio.
Il motivo è inammissibile nella parte in cui contesta genericamente le conclusioni di tale perizia, nel tentativo di ottenerne impropriamente il riesame nel merito, ed è infondato nella parte in cui denuncia la violazione del contraddittorio e del diritto di difesa del C., rimasto estraneo alla suddetta fase peritale svolta prima del giudizio.
A quest’ultimo riguardo, si deve considerare che la consulenza immunologica espletata da un esperto al di fuori del processo, su concorde richiesta delle parti (nel caso in esame di A. e S.B.), non può essere denunciata sotto il profilo della violazione del principio del contraddittorio, la cui assenza nella fase di formazione della consulenza stragiudiziale è ad essa consustanziale, realizzandosi il contraddittorio nel successivo giudizio, nel cui ambito ne è possibile l’acquisizione secondo la disciplina della prova documentale (cfr. Cass. n. 28649 del 2013).
Si deve inoltre considerare che sono contraddittori necessari, passivamente legittimati in ordine all’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in caso di morte del preteso genitore, esclusivamente i suoi eredi, e non anche gli eredi degli eredi di lui, o altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, ai quali è invece riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi (cfr. Cass., Sez. Un., n. 21287 del 2005; n. 10783 del 2014). Pertanto, la censura relativa alla violazione del contraddittorio svolta dal C., intervenuto nel giudizio quale erede di erede (figlio di altra sorella, deceduta, di S.G.), è infondata, tanto più che quella di non partecipare alla fase peritale svoltasi prima del processo è stata una sua scelta.
I giudici di merito hanno ricavato da tale perizia, anche se contestata, elementi probatori sostanzialmente convergenti con le conclusioni della consulenza tecnica ematologica svolta in giudizio nei confronti di S.B., dei quali hanno dato conto adeguatamente in motivazione.
La sentenza impugnata, nella parte in cui dà conto del diniego di S.A. e della indisponibilità del C. a sottoporsi all’esame ematologico disposto nella fase giudiziale tramite consulenza tecnica d’ufficio, fa corretta applicazione del principio secondo cui, nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità biologica, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile dal giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di assai elevato valore indiziario (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28886 del 2019, n. 6025 del 2015), anche con riguardo alle risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti del preteso genitore (cfr. Cass. n. 14916 del 2020, n. 1279 del 2014).
Di conseguenza è inammissibile anche il quarto motivo, ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 118 c.p.c., per avere attribuito rilievo al rifiuto di S.A. e alla mancata disponibilità di C. a sottoporsi all’esame del “dna”, avendo la sentenza impugnata deciso in senso conforme alla giurisprudenza della Corte senza offrire elementi per mutare orientamento.
Con il quinto motivo, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 111 Cost., comma 6, i ricorrenti imputano ai giudici di merito di avere trascurato i risultati dell’indagine svolta dal consulente tecnico d’ufficio, prof. V., il cui esito sarebbe stato negativo, indicando una percentuale (95,4822%) in termini di probabilità di gran lunga inferiore alla soglia minima oltre la quale l’analisi del “dna” può costituire prova autonoma e sufficiente della paternità.
Il motivo è infondato, avendo la Corte territoriale ritenuto che la percentuale accertata dal consulente d’ufficio (oltre il 95%) corrispondesse ad un giudizio di paternità molto elevata. Si tratta di una valutazione congrua e incensurabile in sede di legittimità, essendo corroborata da ulteriori e numerosi elementi probatori convergenti.
In conclusione, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, liquidate in Euro 6000,00, oltre a Euro 200,00 per esborsi.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Oscuramento dei dati personali.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2021