LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 13061/2020 r.g. proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. *****), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, ope legis, dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12.
– ricorrente –
contro
C.P., (cod. fisc. *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata al controricorso, dagli Avvocati Gaetano Ciccone, e Maria Gattuso, con i quali elettivamente domicilia presso lo studio di quest’ultima in Scilla (RC), alla via Libertà, V traversa, n. 9.
– controricorrente –
e nei confronti di:
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI CATANZARO.
– intimate –
avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI REGGIO CALABRIA depositata il 22/10/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 30/11/2020 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.
FATTI DI CAUSA
1. Con nota del 12 aprile 2018, n. 15900, il Ministero dell’Interno trasmise al Presidente del Tribunale di Reggio Calabria, per le finalità di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, comma 11, la copia del D.P.R. 22 marzo 2018, con il quale era stato disposto lo scioglimento del Consiglio comunale di Scilla, ai sensi dello stesso art. 143, nonchè la copia della relazione del Ministro al Presidente della Repubblica e la relazione del Prefetto di Reggio Calabria, integranti la motivazione del suddetto provvedimento di scioglimento. Chiese, per l’effetto, dichiararsi la incandidabilità di C.P., già sindaco di quel comune.
1.1. Fissata l’udienza e nominato il relatore, con comparsa depositata il 22 giugno 2018, si costituì il C., chiedendo il rigetto dell’avversa domanda.
1.2. Con decreto del 28 dicembre 2018, il Tribunale di Reggio Calabria respinse la domanda del Ministero.
2. Il reclamo promosso da quest’ultimo contro tale decisione è stato respinto dalla Corte di appello di Reggio Calabria con sentenza del 22 ottobre 2019, la quale, per quanto qui di residuo interesse, dopo aver preliminarmente dichiarato “non oggetto di impugnazione o comunque non oggetto di impugnazione ammissibile” gli addebiti su cui il Ministero non aveva formulato alcuna specifica censura, ha opinato: i) quanto ai “Contratti pubblici”, dopo aver descritto tutte le osservazioni del tribunale su detto addebito, che “Il Ministero reclamante non ha contestato e comunque non ha offerto prove per smentire l’assunto del tribunale secondo cui: a) nell’anno 2016 è stata indetta la gara per l’appalto della manutenzione, del ripristino e della ristrutturazione della rete idrica e fognante; b) l’amministrazione ha assegnato i lavori in affidamento diretto con il rispetto del principio della rotazione”. Circa i lavori affidati all’impresa Edilman di Cr.Gi. e Fratelli s.n.c. ha evidenziato che “nel reclamo non si contesta e comunque non si offrono prove per smentire l’assunto del tribunale secondo cui i predetti lavori sono stati affidati prima del provvedimento interdittivo del 21 marzo 2017”. Circa i lavori affidati alla ditta calabrese, ha riferito che “parte reclamante non contesta e non offre elementi per smentire l’assunto del tribunale secondo cui si è trattato di un solo affidamento diretto di Euro 2.440,00 assegnato in epoca antecedente l’arresto del titolare”. Circa l’affidamento di lavori senza gara alla RDM Consolidamenti s.r.l., avvenuto quando detta società era “pulita” (circostanza rimasta incontroversa), ha esposto che “risulta che è stato corrisposto l’importo di Euro 1.616,50”. Ha concluso, dunque, nel senso che, in ragione delle predette circostanze e del modo in cui l’amministrazione aveva assegnato i lavori senza gara, “non emergono elementi gravi ed univoci idonei a dimostrare il contributo efficiente da parte del Sindaco al condizionamento dell’attività amministrativa ad opera della criminalità organizzata”; ii) quanto alla “Gestione del campo di calcio”, dopo aver riportato le considerazioni del tribunale su questo addebito, che il Ministero reclamante non aveva allegato elementi idonei a dimostrare che la sua gestione da parte dell’ASD “Oratorio *****” fosse meramente fittizia. Invero, il dato dell’utilizzo del campo da parte all’associazione sospetta non era univoco, in quanto l’uso dello stesso era stato consentito anche ad altre società (Società Soluzione 04, società Villese Calcio) nei cui confronti non erano stati prospettati elementi di sospetto; iii) quanto alla “Riscossione tributi”, che il dato, contestato in reclamo, della carenza dell’attività di riscossione era rimasto non provato, anzi smentito dalla circostanza, accertata in tribunale, che già nel luglio 2016 erano stati notificati i solleciti di pagamento per il recupero delle somme non riscosse.
In ogni caso, quand’anche fosse stata dimostrata quella carenza, non sarebbe stata ugualmente ritenuta univocamente indiziante di un contributo efficiente del sindaco al condizionamento dell’azione amministrativa da parte di associazioni mafiose, atteso che, nel reclamo, il Ministero non aveva minimamente allegato che un’eventuale carenza di riscossione fosse stata riservata a favore di esponenti della criminalità o espressione di ingerenza della stessa; iv) anche quanto al “Controllo urbanistico”, che non risultava che un’eventuale carenza nell’attività di contrasto all’abusivismo, seppure dimostrata, fosse stata riservata in favore di esponenti della criminalità organizzata. In ogni caso, il tribunale aveva riscontrato un’attività del Comune di Scilla di contrasto all’abusivismo; v) quanto alle “Frequentazioni”, che, pur essendo astrattamente condivisibile l’assunto del Ministero secondo cui la limitata estensione del Comune di Scilla favoriva la conoscenza delle dinamiche territoriali e ciò avrebbe dovuto indurre a scelte prudenziali, allo stesso tempo proprio la medesima limitata estensione determinava inevitabilmente occasioni di incontro tra cittadini, pregiudicati e non. Pertanto, il solo dato di sporadici incontri, in mancanza di ulteriori elementi che potessero, per numero degli stessi, o circostanze di tempo e luogo, attribuire un significato indiziario agli incontri medesimi, non poteva avere la valenza indiziaria richiesta dalla legge; vi) quanto ai “Precedenti penali”, che, nella valutazione complessiva degli elementi di prova, era rilevante anche il dato che l’incolpato non avesse precedenti penali di criminalità organizzata o reati comuni connotati dall’aggravante mafiosa. La Corte, quindi, ha concluso condividendo l’analogo assunto del tribunale secondo cui “non è stata riscontrata la sussistenza di rapporti tra il predetto amministratore e la malavita organizzata che presentino un minimo serio grado di significatività”.
3. Per la cassazione di questa sentenza ricorre il Ministero dell’Interno, affidandosi ad otto motivi, cui resiste, con controricorso, C.P., che ha altresì depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.. Sono rimasto solo intimati gli altri destinatari della notificazione del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via pregiudiziale, va dichiarata la tempestività dell’odierno ricorso, benchè promosso il 13 maggio 2020 contro una sentenza pubblicata il 22 ottobre 2019.
1.1. Infatti, da un lato, deve ricordarsi che la giurisprudenza di questa Corte, cui si intende dare continuità, si è consolidata nel senso che al giudizio di cassazione avente ad oggetto l’incandidabilità degli amministratori comunali nell’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, comma 11, non si applicano i termini dimidiati previsti dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 22, commi 1 ed 11 – che rinvia al rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e segg. – in ragione del richiamo contenuto nell’ultima parte dell’art. 143, medesimo comma 11, al rito camerale contenzioso previsto dagli artt. 737 c.p.c. e segg. (cfr. Cass. n. 1333 del 2017; Cass. n. 14531 del 2016; Cass. n. 11994 del 2016; Cass. n. 11579 del 2016). Ne consegue che il termine per impugnare la sentenza, in mancanza di notifica, è quello ordinario di sei mesi e non quello di trenta giorni dalla comunicazione (D.Lgs. n. 151 del 2011, art. 22, comma 10), nè quello “lungo” (dimezzato) di tre mesi.
1.2. Dall’altro, deve tenersi conto delle misure adottate dal legislatore per far fronte all’emergenza epidemiologica da Covid-19, in particolare di quanto disposto dal D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 2 (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27 del 2020), che ha sospeso, per il periodo dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020, successivamente allungato fino all’11 maggio 2020 dal D.L. n. 23 del 2020, art. 36 (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 40 del 2020), il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali.
2. I formulati motivi denunciano, rispettivamente:
I) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143, comma 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Viene contestata l’asserita mancata, specifica censura, nel reclamo, dei vari addebiti ascritti all’ex sindaco ed esclusi dal tribunale, tra cui l’avere il primo elargito una somma di denaro ai familiari di un detenuto. Si osserva, invece, che il Ministero dell’Interno aveva ivi lamentato, in via preliminare, come, nell’ampio excursus, il tribunale avesse correttamente enucleato la natura della misura della incandidabilità degli amministratori locali prevista e disciplinata dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, comma 11, senza, tuttavia, trarne le dovute conseguenze. Nello stesso errore era caduta pure la corte distrettuale “…ragionando secondo un esame parcellizzato dei singoli elementi enucleabili dalla proposta di incandidabilità, per di più completamente avulso dal contesto storico ambientale del Comune di Scilla descritto nella parte introduttiva sia della relazione del Prefetto che della relazione della Commissione”: atti nei quali era stato posto l’accento sull’esistenza, nel territorio di riferimento, di una potente cosca di ‘ndrangheta, denominata “*****”. Questo antefatto storico del provvedimento di rigore non era stato considerato nel decreto di prime cure, nè dalla sentenza oggi impugnata, sebbene costituisse, ai fini del giudizio di imputabilità richiesto dall’art. 143, comma 11, predetto, “…l’ambito generale in cui verificare se il proposto, nella qualità di sindaco, avesse posto in essere azioni concrete ed idonee a preservare la funzione pubblica incardinata nell’ente locale dal pericolo del condizionamento mafioso, ovvero, di contro, se le riscontrate carenze nell’esercizio dei poteri di indirizzo, impulso e vigilanza facenti capo al sindaco, ex art. 50 TUEL, avessero cagionato o concorso a cagionare l’esposizione dell’Amministrazione all’inquinamento mafioso, così dando causa allo scioglimento”. Si assume, inoltre, che la medesima sentenza, “redatta in maniera sintetica, manca di una pur succinta esposizione del quadro generale, sia normativo che di fatto, delle questioni trattate, sicchè non è possibile controllarne lo sviluppo logico argomentativo alla luce degli orientamenti giurisprudenziali elaborati nella materia della incandidabilità e delle complesse emergenze di fatto – compendiate nella relazione del Prefetto e nella relazione della Commissione d’accesso – a supporto del provvedimento di scioglimento che, riservato alla cognizione del G.A., ed in tale sede già positivamente vagliato (cfr. sentenza del TAR del Lazio n. 6647/2019 depositata nel secondo grado) costituisce per il G.O. il presupposto imprescindibile del giudizio di incandidabilità. Tale modus procedendi integra senz’altro quella motivazione apparente suscettibile di essere censurata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”;
II) “Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti (punto 4 della sentenza – Contratti pubblici) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Si ascrive alla corte distrettuale di non aver considerato che il dato emergente dalla relazione prefettizia ed evidenziato nel reclamo, pagg. 8 e 9, quale condotta imputabile ai fini dell’incandidabilità, non si limitava alla contestazione in sè del ricorso ad affidamenti diretti o per somma urgenza, ma era più articolato. Innanzitutto, era stato evidenziato il fatto che gli affidamenti diretti – senza gara – erano reiterati, benchè, in materia di appalti di valore inferiore ad Euro 40.000,00 il codice degli appalti (del D.Lgs. n. 50 del 2016, artt. 30 e segg.) consenta l’affidamento diretto, ma non vieti la gara anche informale; inoltre, gli affidamenti d’urgenza, anch’essi reiterati, erano stati contestati in quanto posti in essere al di fuori “di una programmazione tecnica e finanziaria”: sintomo, quello dell’assenza della programmazione, di una gestione quanto meno deficitaria della materia contrattuale, per ciò stesso resa più permeabile all’infiltrazione mafiosa. La corte aveva pure omesso di valutare che il sistema degli affidamenti diretti o di somma urgenza aveva finito, in taluni casi, col favorire imprese colpite da informativa antimafia interdittiva o considerate vicine ad ambienti contigui alla criminalità organizzata, e come, a fronte di tale punto nodale della contestazione, fosse del tutto recessiva la considerazione del giudice di prime cure che il commissario subentrato alla disciolta amministrazione avesse assegnato 50 lavori con affidamento diretto e solo 11 con gara, dal momento che non era stato dedotto o provato dal proposto che degli affidamenti disposti dal commissario avessero beneficiato imprese interdette o comunque contigue alla criminalità. La doglianza, infine, contesta le argomentazioni della sentenza impugnata riguardanti ciascuna delle imprese destinatarie degli affidamenti predetti;
III) “Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti – motivazione apparente, perplessa e illogica (punto 5 della sentenza – Gestione dei beni comunali) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Si sostiene che la motivazione fornita dalla corte reggina in ordine alla gestione dell’unico campo sportivo di proprietà comunale sarebbe del tutto apparente poichè non attiene al dato oggetto di incolpazione, contestandosi, ai fini dell’imputazione dello scioglimento, non il fatto della compresenza di una o più associazioni sportive in detto campo, quanto, piuttosto, il fatto – non contestato dal proposto – che, in via di fatto, lo stesso era stato utilizzato da un’associazione sportiva che annovera fra i dirigenti un soggetto contiguo alla locale cosca di ‘ndrangheta. In definitiva, la corte aveva omesso di valutare le contestazioni relative ai beni pubblici nella loro integralità e significatività, nonchè verificare se tali contestazioni, riguardate non atomisticamente ma nel complesso dei fatti oggetto di incolpazione, potessero assumere rilevanza ai fini dell’imputabilità al proposto dello scioglimento per infiltrazione mafiosa, avuto riguardo al settore della gestione dei beni pubblici;
IV) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143, commi 1 e 11 e art. 50, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (punto 6 della sentenza – Tributi locali) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Si contesta alla corte territoriale di aver deciso il corrispondente motivo di reclamo senza tenere conto che la situazione deficitaria sul versante della riscossione dei tributi era descritta nella relazione della Commissione d’accesso (pag. 166 e 167) ed era elemento tenuto in considerazione ai fini dello scioglimento (pag. 15 della relazione del Prefetto). Essa, inoltre, avrebbe dovuto farsi carico, nel rispetto del combinato disposto dell’art. 143, commi 1 e 11, di verificare, agli effetti della declaratoria di incandidabilità, se la gestione deficitaria della riscossione dei tributi, annoverata fra gli elementi concorrenti dello scioglimento, fosse imputabile al sindaco proposto avuto riguardo ai poteri-doveri di direzione, impulso, vigilanza indirizzo attribuitigli dall’art. 50 TUEL, come illustrato nel reclamo. Infine, l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui non vi sarebbero evidenze in base alle quali l’omessa attività di riscossione sarebbe stata effettuata in favore della criminalità era smentita dalle risultanze della relazione d’accesso, come correttamente stigmatizzato dal TAR del Lazio nella sentenza n. 6647/2019 (“nè risulta che l’opera posta in essere dall’amministrazione disciolta abbia colpito con determinazione le famiglie dei malavitosi, avendo la commissione evidenziato “che risultano morosi vari soggetti di interesse investigativo già precedentemente trattati in altri capitoli della presente relazione””);
V) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143, commi 1 e 11, e 50, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (punto 7 della sentenza – Controllo urbanistico ed abusivismo) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Il giudice del reclamo aveva omesso di considerare quanto riportato nella relazione della Commissione d’accesso (pag. 143 e 144), ove era riferito che “fra i responsabili di abusi edilizi figura N.R., elemento di spicco dell’omonima cosca, e che l’interessato non ha ottemperato motu proprio alla demolizione del manufatto abusivo, nè l’ente ha provveduto ad acquisirlo al patrimonio comunale al fine della demolizione o per utilizzo alternativo”. In ogni caso, ed in disparte da tale omissione, valeva anche per tale punto della motivazione la censura esposta a proposito del settore dei tributi locali, e cioè che, alla luce dell’art. 143, commi 1 e 11, l’inefficienza dei servizi comunali, in un contesto burocratico-amministrativo che, stando al dato presupposto, intangibile da parte del Giudice ordinario, del provvedimento di scioglimento, deve assumersi come infiltrato dalla criminalità organizzata, è di per sè rilevante. La corte avrebbe, semmai, dovuto farsi carico, nel rispetto del combinato disposto dell’art. 143, commi 1 e 11, di verificare, agli effetti della declaratoria di incandidabilità, se la gestione deficitaria del controllo urbanistico, annoverata fra gli elementi concorrenti dello scioglimento, fosse imputabile al sindaco proposto avuto riguardo ai poteri-doveri di direzione, impulso, vigilanza indirizzo attribuitigli dall’art. 50 TUEL, come illustrato nel reclamo;
VI) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143, commi 1 e 11 e art. 50, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (punto 8 della sentenza – Frequentazioni), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. La corte territoriale aveva ritenuto il dato delle frequentazioni insufficiente in assenza di elementi che, per numero di incontri e circostanze di tempo e luogo, potessero attribuire un significato indiziario ai controlli. Così opinando, però, la stessa aveva omesso: i) di esaminare la deduzione circa la presenza di soggetti affiliati o vicini alle cosche criminali fra i sottoscrittori della lista C.; ii) di collegare il predetto dato con quello delle frequentazioni; iii) di esaminare la contestazione formulata in tema di controlli nel complesso degli elementi tenuti in considerazione nel provvedimento di scioglimento, fra i quali, in primo luogo, la esistenza, nel territorio scillese, di cosca mafiosa;
VII) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143, commi 1 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; motivazione perplessa ed illogica ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (punto 9 della sentenza – Precedenti penali), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Sul punto, la corte d’appello aveva osservato che se, da un lato, era condivisibile l’assunto secondo cui la misura prescinde dall’accertamento di illeciti penali, dall’altro, nella valutazione complessiva degli elementi di prova, un rilievo poteva essere assegnato alla presenza o assenza di precedenti penali a carico. Una siffatta motivazione, però, “si appalesa, oltre che illogica, avuto riguardo alla natura preventiva della misura sottolineata dalla Corte di Cassazione, anche perplessa dal momento che la Corte, riaffermando la rilevanza dell’assenza di precedenti penali, non ha tuttavia specificato sotto quale profilo, dato il complesso degli elementi del giudizio, l’assenza di precedenti penali rilevi nel senso di escludere l’imputabilità al proposto dello scioglimento del Consiglio comunale”. Peraltro, va evidenziato che, dalla relazione della Commissione d’indagine (pp. 30 e 31) emergeva che, sebbene il reato si fosse estinto ex art. 445 c.p.p., comma 2, per il decorso di cinque anni senza che l’imputato avesse commesso un delitto della stessa indole, il C. risultava essere stato tratto in arresto con ordinanza di custodia cautelare del 29.9.1992 del GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria e successivamente condannato, con sentenza ex art. 444 c.p.p., emessa dal medesimo tribunale, divenuta irrevocabile il 26.3.1998, alla pena della reclusione di mesi 11 e giorni 20 per il reato di associazione per delinquere e truffa continuata in concorso. “Se con l’estinzione del reato si estingue ogni effetto penale, certamente la condanna può invece assumere rilevanza ai fini della valutazione del complessivo quadro ai fini del giudizio di incandidabilità dell’amministratore”;.
VIII) “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143, commi 1 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (punto 10 della sentenza), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Si sostiene che la corte distrettuale, nel reputare “condivisibile la conclusione cui è giunto il Tribunale secondo cui non è stata riscontrata la sussistenza di rapporti fra C.P. e la criminalità organizzata che presentino un minimo serio grado di significatività”, aveva evidentemente “…travisato l’oggetto e la funzione del giudizio di incandidabilità ex art. 143, comma 11, atteso che oggetto dell’accertamento affidato al G.O. non è la verifica di collegamenti fra l’ex amministratore e la criminalità, ma la verifica dell’imputabilità all’amministratore proposto delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa emergenti dal provvedimento di scioglimento, in relazione non soltanto a collegamenti diretti ed indiretti, ma anche a meri condizionamenti che si traducano, anche per colpa omissiva – nel caso di specie valutabile sulla falsariga dei compiti sindacali previsti dall’art. 50 TUEL – incapacità o quieto vivere, in una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze esterne ed asservita alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio”.
3. Ritiene il Collegio di dovere anteporre allo scrutinio delle descritte doglianze alcune considerazioni di carattere generale riguardanti: i) le tipologie di vizi (motivazione omessa o apparente o illogica o perplessa; omesso esame di fatti controversi e decisivi; violazione e/o falsa applicazione di legge) ivi concretamente prospettati; ii) il perimetro del giudizio del D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 143, comma 11 (TUEL). Tanto al fine di poter procedere, successivamente, ad una più celere decisione della lite.
3.1. Orbene, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 22 ottobre 2019), deve ritenersi ormai ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè si è chiarito (cfr. tra le più recenti, Cass. n. 9017 del 2018) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti Cass. n. 20042 del 2020 e Cass. n. 23620 del 2020).
3.1.1. In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (cfr. Cass. n. 23684 del 2020; Cass. n. 20042 del 2020; Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012). In altri termini, al fine di non incorrere nella motivazione apparente, equiparabile a difetto assoluto di motivazione, il contenuto della stessa deve comprendere il racconto sia del processo dinamico di formazione dell’atteggiamento psicologico del giudicante espresso nella decisione assunta, sia del risultato del passaggio logico dall’ignoranza, quale iniziale posizione statica, alla conoscenza sotto la specie del giudizio, quale posizione statica finale di approdo a seguito dell’attività di acquisizione della conoscenza intorno all’oggetto (cfr. Cass. 1450 del 2009). Nello spiegare questi argomenti, il giudice del merito deve compiere ed illustrare due distinte attività nel processo di formazione del proprio convincimento enunciando in modo esaustivo l’iter logico giuridico che conduce alla decisione adottata: un’attività di scienza, intesa quale conoscenza dei fatti e delle circostanze della causa, ed una di giudizio, manifestando il ragionamento e la valutazione dei fatti prospettati dalle parti, nonchè l’idoneità, o meno, dei medesimi a fungere da elementi a sostegno della corretta risoluzione della controversia dedotta in giudizio (cfr. Cass. n. 9577 del 2013). Ne deriva che è possibile ravvisare una “motivazione apparente” nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche e prive di qualsiasi riferimento ai motivi del contendere, tali da non consentire di comprendere la ratio decidendi seguita dal giudice. Un simile vizio, inoltre, deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva.
3.2. Giusta il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, precedentemente individuato, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
3.2.1. Costituisce, poi, un “fatto”, agli effetti della menzionata norma, non una “questione” o un “punto”, ma: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).
3.2.2. Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: i) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); iii) una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (cfr. Cass. n. 21439 del 2015); iv) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame.
3.2.3. Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poichè l’attributo si riferisce al “fatto” in sè, la “decisività” asserisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certezza” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015). Lo stesso deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti.
3.2.4. E’ utile rammentare, poi, che Cass., SU, n. 8053 del 2014, ha chiarito che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti” (in senso analogo, cfr., in motivazione, le più recenti Cass. n. 26893 del 2020; Cass. n. 23983 del 2020).
3.3. Questa Corte, poi, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 25444 del 2020; Cass. n. 4343 del 2020; Cass. n. 27686 del 2018), ha chiarito che: a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto, intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente (perchè, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro) ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua (pur corretta) interpretazione (cfr. Cass. n. 8782 del 2005); b) non integra invece violazione, nè falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poichè essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., Sez. U., n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); d) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015).
3.4. Va ricordato, infine, che: i) il procedimento giurisdizionale per la dichiarazione di incandidabilità ex art. 143, comma 11, TUEL è autonomo rispetto a quello penale, e diversi ne sono i presupposti, in quanto la misura interdittiva elettorale non richiede che la condotta dell’amministratore dell’ente locale integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa, essendo sufficiente che egli sia stato in colpa nella cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze ed alle pressioni delle associazioni criminali operanti sul territorio (cfr. Cass. n. 5941 del 2020; Cass. n. 3024 del 2019; Cass. n. 15038 del 2018; Cass. n. 19407 del 2017; Cass., SU, n. 1747 del 2015). E’ sufficiente, dunque, accertare la presenza di elementi di collegamento tra l’amministratore locale e l’oggetto dell’addebito, tali da essere ritenuti idonei ad influenzare e condizionare la formazione della volontà dell’ente pubblico, senza che la condotta dell’amministratore debba necessariamente assumere una connotazione penalmente rilevante (cfr. Cass. n. 5941 del 2020); ii) in relazione al provvedimento di scioglimento dell’amministrazione comunale, la dichiarazione d’incandidabilità degli amministratori non ne costituisce conseguenza automatica, ma ha carattere autonomo, essendo fondata su presupposti diversi, e segnatamente sull’accertamento della colpa degli amministratori per la cattiva gestione della cosa pubblica, che ha determinato o favorito l’apertura della stessa alle ingerenze ed alle pressioni delle organizzazioni criminali operanti sul territorio. E’ pertanto insufficiente, ai fini della dichiarazione di incandidabilità, la valutazione globale delle vicende dell’amministrazione, richiesta per il provvedimento di scioglimento, in quanto la natura personale della misura è volta a colpire esclusivamente coloro che sono responsabili del degrado dell’ente (cfr. Cass. n. 8030 del 2020). In altri termini, l’incandidabilità non è automatica, ma richiede una valutazione delle singole posizioni, in nome del diritto all’elettorato passivo, al fine di verificare che collusioni e condizionamenti abbiano determinato una cattiva gestione della cosa pubblica. Lo scopo del legislatore è, infatti, quello di arginare il pervicace fenomeno dell’infiltrazione della criminalità di stampo mafioso all’interno dell’apparato burocratico degli enti locali attraverso la predisposizione di un peculiare procedimento di verifica dell’esistenza di possibili collegamenti tra i consigli comunali ovvero tra i singoli amministratori o dipendenti dell’Amministrazione e le organizzazioni criminali (cfr. Cass. n. 15038 del 2018; Cass. n. 19020 del 2017; Cass. n. 9883 del 2016). Da ciò consegue che, ai fini della declaratoria di incandidabilità, deve considerarsi necessaria la sussistenza di risultanze concrete, fattuali, univoche e rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento, al fine di attuare una giusta ponderazione tra valori costituzionali parimenti garantiti, che nel caso specifico sono, da un lato, l’espressione della volontà popolare e, dall’altro, la tutela dei principi di imparzialità, buon andamento e regolare svolgimento dell’attività amministrativa. Solo a fronte di elementi concreti e significativi, idonei a rivelare, in maniera inequivoca, l’esistenza di forti contiguità tra l’operato dei singoli amministratori e gli interessi delle consorterie criminose, è possibile giungere ad una declaratoria di incandidabilità con riferimento alle relative posizioni. Se, pertanto, al fine della (diversa) pronuncia di scioglimento di un consiglio comunale, è possibile/doveroso/opportuno operare una valutazione complessiva delle condotte dei singoli amministratori, per giungere alla declaratoria di incandidabilità del Sindaco, non può negarsi la necessità di una valutazione pure atomistica delle condotte ascrittegli, atteso che il mero fatto di aver assunto un ruolo di vertice all’interno dell’Amministrazione Comunale non esime il giudice dal considerare se, in concreto, vi sia stata o meno, da parte del Sindaco, una condotta quantomeno agevolativa, anche attraverso un agire omissivo, degli interessi delle cosche locali.
4. Fermi i principi tutti finora riportati, deve procedersi all’esame delle varie doglianze formulate dal Ministero dell’Interno, potendosi immediatamente respingere tutte quelle, specificamente rinvenibili nei motivi primo, terzo e settimo del ricorso, afferenti un’asserita motivazione “apparente”, “perplessa” ed “illogica” adottata dalla corte distrettuale sulle corrispondenti questioni/vicende da essi attinte. Fin da ora, peraltro, va ricordato che la congruità della motivazione adottata dal giudice di appello deve essere verificata con esclusivo riguardo alle questioni sottoposte al suo esame, e dallo stesso risolte per decidere la controversia, risultando ad essa del tutto estranea la decisione eventualmente diversa del giudice di primo grado, la quale è destinata a rimanere interamente travolta ed assorbita da quella emessa, in sua sostituzione, dal giudice del gravame, che, dunque, può limitarsi ad una valutazione diretta del materiale probatorio messo a disposizione dalle parti, nell’ambito delle questioni sollevate con i motivi di impugnazione, senza essere tenuto ad una puntuale confutazione dei singoli punti della decisione impugnata (cfr. Cass. n. 15038 del 2018, in motivazione; Cass., n. 28487 del 2005; Cass. n. 9670 del 2003; Cass. n. 2078 del 1998).
4.1. Orbene, la corte territoriale, pronunciandosi sulle specifiche doglianze innanzi ad essa formulate, e con particolare riguardo a quelle in relazione alle quali oggi le è contestata una motivazione “apparente”, “perplessa” ed “illogica”, ha affermato che: a) “per quanto riguarda l’addebito relativo all’elargizione, da parte del C., di una somma di denaro ai familiari di un detenuto, addebito escluso dal tribunale, il Ministero ricorrente non ha formulato alcuna specifica critica. Ragion per cui, in questa parte, il decreto deve ritenersi non oggetto di impugnazione o comunque non oggetto di impugnazione ammissibile. Lo stesso deve dirsi in relazione agli addebiti esclusi dal tribunale e non oggetto di specifiche censure” (cfr. pag. 2-3 della sentenza impugnata); b) quanto alla “Gestione del campo di calcio”, il Ministero reclamante non aveva allegato elementi idonei a dimostrare che la sua gestione da parte dell’ASD “Oratorio *****” fosse meramente fittizia. Invero, il dato dell’utilizzo del campo da parte all’associazione sospetta non era univoco, in quanto l’uso dello stesso era stato consentito anche ad altre società (Società Soluzione 04, società Villese Calcio) nei cui confronti non erano stati prospettati elementi di sospetto (cfr. pag. 4-5 della medesima sentenza); c) quanto ai “Precedenti penali”, nella valutazione complessiva degli elementi di prova era rilevante anche il dato che l’incolpato non avesse precedenti penali di criminalità organizzata o reati comuni connotati dall’aggravante mafiosa (cfr. pag. 7-8 della citata decisione).
4.2. Essa, dunque, benchè in maniera sintetica, ha illustrato le ragioni poste a base delle soluzioni adottate per ciascuna delle corrispondenti statuizioni, spiegandoli, nella sostanza, con la seguente alternativa: o erano mancati puntuali profili di critica alle relative decisioni di primo grado, oppure gli elementi addotti a sostegno di quelli formulati comunque non presentavano un significato univoco nei sensi auspicati dall’appellante. Deve, quindi, considerarsi soddisfatto l’onere minimo motivazionale di cui si è detto, nè rileva, qui, come si è già anticipato, l’esattezza, o non, di tali giustificazioni.
5. Tanto premesso, il primo motivo, prospettando violazione e falsa applicazione di legge, nonchè omesso esame di fatto decisivo, si rivolge contro la già riportata affermazione della sentenza impugnata riguardante la ivi ritenuta assenza di qualsivoglia specifica censura formulata dal Ministero reclamante contro il rigetto, da parte del tribunale, dell’addebito, ascritto al C., relativo all’elargizione di una somma di denaro ai familiari di un detenuto, nonchè degli altri addebiti esclusi dal tribunale e non oggetto di specifiche censure. Esso si rivela complessivamente insuscettibile di accoglimento.
5.1. In proposito, giova subito ricordare che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (cfr. Cass. n. 907 del 2018; Cass. n. 17041 del 2013). Ne consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonchè il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (cfr. Cass. n. 15430 del 2018). In quest’ottica, il ricorrente ha l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo ed in secondo grado (cfr. Cass. n. 9765 del 2005; Cass. n. 12025 del 2000) 5.2. Nel caso di specie, il Ministero ricorrente non ha adeguatamente assolto al proprio obbligo di allegazione. Infatti, dopo aver esposto che il tribunale aveva correttamente enucleato la natura della misura della incandidabilità degli amministratori locali prevista e disciplinata dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, comma 11, senza, tuttavia, trarne le dovute conseguenze, ha affermato che nello stesso errore era caduta pure la corte distrettuale “…ragionando secondo un esame parcellizzato dei singoli elementi enucleabili dalla proposta di incandidabilità, per di più completamente avulso dal contesto storico ambientale del Comune di Scilla descritto nella parte introduttiva sia della relazione del Prefetto che della relazione della Commissione”: atti nei quali era stato posto l’accento sull’esistenza, nel territorio di riferimento, di una potente cosca di
‘ndrangheta, denominata “*****”. Questo antefatto storico del provvedimento di rigore non era stato considerato nel decreto di prime cure, nè dalla sentenza oggi impugnata, sebbene costituisse, ai fini del giudizio di imputabilità richiesto dall’art. 143, comma 11, predetto, “…l’ambito generale in cui verificare se il proposto, nella qualità di sindaco, avesse posto in essere azioni concrete ed idonee a preservare la funzione pubblica incardinata nell’ente locale dal pericolo del condizionamento mafioso, ovvero, di contro, se le riscontrate carenze nell’esercizio dei poteri di indirizzo, impulso e vigilanza facenti capo al sindaco, ex art. 50 TUEL, avessero cagionato o concorso a cagionare l’esposizione dell’Amministrazione all’inquinamento mafioso, così dando causa allo scioglimento”.
5.3. Una siffatta doglianza, non solo non esplicita chiaramente i termini dell’avvenuta deduzione, innanzi al giudice a quo, di specifiche censure contro il pronunciato rigetto, da parte del tribunale, dell’addebito, ascritto all’odierno controricorrente, relativo all’elargizione di una somma di denaro ai familiari di un detenuto, nonchè degli altri addebiti pure esclusi dal giudice di prime cure e non oggetto di puntuali critiche, ma, nella misura in cui sembra imputare alla corte di appello il medesimo errore, già attribuito al tribunale, di aver operato una valutazione atomistica, piuttosto che complessiva, di tali addebiti, neppure descrive compiutamente questi ultimi (quelli, cioè, diversi dall’asserita elargizione, rimasti incensurati secondo la corte reggina), così impedendo a questa Corte di valutare la rilevanza e decisività della censura stessa in parte qua, rendendola inammissibile. Si è già detto, infatti, che, diversamente dall’ipotesi della pronuncia di scioglimento di un consiglio comunale (in cui è possibile/doveroso/opportuno operare una valutazione complessiva delle condotte dei singoli amministratori), per giungere alla declaratoria di incandidabilità del Sindaco non può negarsi la necessità di una valutazione pure atomistica delle condotte ascrittegli, atteso che il mero fatto di aver assunto un ruolo di vertice all’interno dell’Amministrazione Comunale non esime il giudice dal considerare se, in concreto, vi sia stata o meno, da parte del sindaco, una condotta quantomeno agevolativa, anche attraverso un agire omissivo, degli interessi delle cosche locali.
5.4. Quanto, poi, all’asserito omesso esame “del contesto storico ambientale del Comune di Scilla descritto nella parte introduttiva sia della relazione del Prefetto che della relazione della Commissione”, nelle quali era stato posto l’accento sull’esistenza, nel territorio di riferimento, di una potente cosca di ‘ndrangheta, denominata “*****”, trattasi, a tacer d’altro, di doglianza che fuoriesce dal già descritto ambito applicativo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che non costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla menzionata disposizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).
5.4.1. Nella specie, invece, la corte di appello, con accertamento evidentemente di natura fattuale, ha comunque escluso la configurabilità di concrete condotte, poste in essere dal C., idonee a rivelarne, in maniera significativa, una sua collusione con criminalità organizzata. Non è compito di questa Corte quello di condividere, o non, la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), altresì evidenziandosi che la documentazione (rectius: il fatto da esso asseritamente desumibile) di cui oggi la ricorrente lamenta l’omesso esame, lungi dall’essere, di per sè, “decisiva”, nei sensi in precedenza ricordati (pure in relazione alla necessità che la declaratoria di incandidabilità del Sindaco postula l’accertamento della sussistenza di risultanze concrete, fattuali, univoche e rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento, diretto o indiretto, con la criminalità organizzata: ciò al fine di attuare una giusta ponderazione tra valori costituzionali parimenti garantiti, vale a dire, da un lato, l’espressione della volontà popolare e, dall’altro, la tutela dei principi di imparzialità, buon andamento e regolare svolgimento dell’attività amministrativa), al più potrebbe rappresentare un elemento indiziario ulteriore da porre a fondamento di un ragionamento presuntivo volto a giungere a conclusioni magari diverse da quelle esposte dalla corte calabrese, così procedendosi, però, a valutazioni che, impingendo nel merito, sono inammissibili nel giudizio di legittimità.
6. Il secondo motivo è proposto esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Al suo scrutinio, però, va anteposto il rigetto della corrispondente eccezione di inammissibilità, ex art. 348-ter c.p.c., u.c., sollevata dal C. (cfr. pag. 18 e ss. del controricorso).
6.1. E’ innegabile che la legittimazione attiva all’esercizio di questa azione compete al solo Ministero dell’Interno e che non sussiste la legittimazione della procura Generale presso la corte di appello a ricorrere per la cassazione contro la decisione resa da detta corte (cfr. Cass. n. 11994 del 2016). Giova, tuttavia, considerare (argomentando da Cass. n. 5520 del 2017, benchè resa in sede di ricorso contro decisione reiettiva di reclamo contro una sentenza di fallimento) che la portata restrittiva del diritto di difesa, di cui la facoltà di impugnazione è declinazione positiva, esige una lettura circoscritta dell’art. 348-ter c.p.c., al solo appello, e cioè ad un giudizio a cognizione piena connotato da vincoli di riesame cui assolvono le disposizioni di cui agli artt. 342,345 e 346 c.p.c., secondo un contesto di possibile e filtrato doppio grado sulle stesse prove. Ora, al procedimento in esame si applicano, in quanto compatibili, le procedure di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del codice di procedura civile (Disciplina dei procedimenti in Camera di consiglio), per cui il reclamo in questa ipotesi previsto sembra configurarsi come giudizio che prosegue un accertamento a cognizione piena, benchè speciale, che, però, non solo non si sovrappone all’appello del codice di rito, ma nemmeno di quello prevede le medesime cadenze, a cominciare dall’effetto devolutivo peculiare che lo connota. Il che permette di osservare che solo la disciplina compiuta dell’appello di cui agli artt. 339 c.p.c. e segg., è destinata ad ospitare la regola di cui all’art. 348-ter c.p.c., comma 5, la cui portata eccettuativa rispetto al potere di impugnazione ulteriore è non casualmente esclusa, ed ancora in modo espresso, con riguardo a casi ancora di appello, quali descritti all’art. 348-bis c.p.c., comma 2 (e nei limiti del rinvio). Neppure è ipotizzabile, infine, un’applicazione anche solo analogica di quella disciplina, posto che mancherebbe l’identità di ratio che in generale giustifica l’applicazione analogica di norme: infatti, altro è l’appello disciplinato dal codice di procedura, altro, invece, il reclamo compiutamente disciplinato dall’art. 739 c.p.c., al quale, del resto, può attribuirsi un effetto devolutivo diverso da quello proprio dell’appello.
6.2. Fermo quanto precede, la censura in esame investe innanzitutto l’affermazione della corte territoriale secondo cui, quanto ai “Contratti pubblici”, “Il Ministero reclamante non ha contestato e comunque non ha offerto prove per smentire l’assunto del tribunale secondo cui: a) nell’anno 2016 è stata indetta la gara per l’appalto della manutenzione, del ripristino e della ristrutturazione della rete idrica e fognante; b) l’amministrazione ha assegnato i lavori in affidamento diretto con il rispetto del principio della rotazione”. Secondo il ricorrente quella corte non avrebbe considerato che il dato emergente dalla relazione prefettizia ed evidenziato nel reclamo, pagg. 8 e 9, quale condotta imputabile ai fini dell’incandidabilità, non si limitava alla contestazione in sè del ricorso ad affidamenti diretti o per somma urgenza, ma era più articolato, essendosi evidenziato il fatto che gli affidamenti diretti – senza gara – erano reiterati, benchè, in materia di appalti di valore inferiore ad Euro 40.000, il codice degli appalti (D.Lgs. n. 50 del 2016, artt. 30 e segg.) consenta l’affidamento diretto, ma non vieti la gara anche informale; inoltre gli affidamenti d’urgenza, anch’essi reiterati, erano stati contestati in quanto posti in essere al di fuori “di una programmazione tecnica e finanziaria”: sintomo, quello dell’assenza della programmazione, di una gestione quanto meno deficitaria della materia contrattuale, per ciò stesso resa più permeabile all’infiltrazione mafiosa. La corte aveva pure omesso di valutare che il sistema degli affidamenti diretti o di somma urgenza aveva finito, in taluni casi, col favorire imprese colpite da informativa antimafia interdittiva o considerate vicine ad ambienti contigui alla criminalità organizzata.
6.2.1. Trattasi, però, di argomentazioni che, da un lato, non si confrontano puntualmente con la suddetta, specifica ratio decidendi; dall’altro, si risolvono, sostanzialmente, in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, cui il Ministero intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di vizio motivazionale, una sua diversa valutazione: ciò non è ammesso, però, nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè la più recente Cass. n. 8758 del 2017).
6.3. Il motivo contesta poi gli assunti della sentenza impugnata riguardanti ciascuna delle imprese destinatarie degli affidamenti predetti.
6.3.1. Anche su questo punto, però, lo stesso rivela inammissibile, posto che, da un lato, oblitera completamente che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo, indicato in precedenza, qui applicabile, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicchè sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017); dall’altro, laddove invoca nuovamente una valutazione complessiva, piuttosto che atomistica, degli elementi di giudizio, si scontra con quanto si è già precedentemente detto, sullo stesso aspetto, scrutinandosi il primo motivo, laddove si è precisato, che, diversamente dall’ipotesi della pronuncia di scioglimento di un consiglio comunale (in cui è doverosa/consentita una valutazione complessiva delle condotte dei singoli amministratori), per giungere alla declaratoria di incandidabilità del Sindaco non può negarsi la necessità di una valutazione pure atomistica delle condotte ascrittegli, atteso che, il mero fatto di aver assunto un ruolo di vertice all’interno dell’Amministrazione Comunale non esime il giudice dal considerare se, in concreto, vi sia stata o meno, da parte del Sindaco, una condotta quantomeno agevolativa, anche attraverso un agire omissivo, degli interessi delle cosche locali.
7. Parimenti insuscettibile di accoglimento è il terzo motivo, anch’esso proposto esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e volto a censurare la motivazione della sentenza impugnata nella parte concernente l’esclusione di qualsivoglia addebito al C. quanto alla gestione del campo sportivo di proprietà comunale.
7.1. Si è detto dell’infondatezza della censura laddove invoca una pretesa apparenza della motivazione suddetta. Per il resto la censura mostra di voler inammissibilmente estendere il parametro normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, all’omesso esame di argomentazioni o deduzioni difensive, nuovamente insistendo, peraltro, nell’asserita necessità di una valutazione complessiva, piuttosto che atomistica, degli elementi di giudizio, di cui si è già negata la fondatezza. La doglianza si risolve, pertanto, nella sollecitazione di un nuovo apprezzamento dei medesimi fatti, non consentito a questa Corte, cui non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato e la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, restando attribuito in via esclusiva al giudice di merito il potere d’individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e controllarne l’attendibilità e la concludenza, nonchè di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. Cass. n. 29404 del 2017; Cass. n. 19547 del 2017; Cass. 16/12/2011, n. 27197 del 2011).
8. Il quarto motivo, prospettando violazione di legge e vizio motivazionale, si rivolge contro la già descritta statuizione della sentenza impugnata riguardante la ivi ritenuta assenza di addebiti da muoversi al C. in ordine alla riscossione dei tributi. Si contesta alla corte territoriale di non aver tenuto conto della situazione deficitaria del Comune di Scilla, sul versante della riscossione dei tributi, come descritta nella relazione della Commissione d’accesso (pag. 166 e 167), oltre che elemento valutato ai fini dello scioglimento del Consiglio comunale (pag. 15 della relazione del Prefetto). Essa, inoltre, avrebbe dovuto farsi carico, nel rispetto del combinato disposto dell’art. 143, commi 1 e 11, di verificare, agli effetti della declaratoria di incandibilità, se la gestione deficitaria della riscossione dei tributi fosse imputabile al sindaco proposto avuto riguardo ai poteri-doveri di direzione, impulso, vigilanza indirizzo attribuitigli dall’art. 50 TUEL, come illustrato nel reclamo.
8.1. In relazione all’asserita violazione di legge, la doglianza oblitera totalmente il pacifico principio secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 16700 del 2020). Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007). In altri termini, la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposta, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), posto che non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (cfr., ex multis, Cass. n. 1636 del 2020; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 13954 del 2007; Cass. n. 12052 del 2007; Cass. n. 7972 del 2007; Cass. n. 5274 del 2007; Cass. n. 2577 del 2007; Cass. n. 27197 del 2006; e così via, sino a risalire a Cass. n. 1674 del 1963, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).
8.2. Nemmeno è configurabile, poi, per come ivi concretamente argomentato, il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che come si è già anticipato, non costituiscono “fatti” il cui omesso esame possa cagionare il vizio suddetto, gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato (nella specie l’esercizio dell’attività di esazione) sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014). In proposito, va qui solo ricordato che, secondo la corte distrettuale, quand’anche fosse stata ritenuta dimostrata la carenza nell’attività di riscossione denunciata dal Ministero, la stessa non sarebbe stata ugualmente considerata come univocamente indiziante di un contributo efficiente del Sindaco al condizionamento dell’azione amministrativa da parte di associazioni mafiose, visto che, nel reclamo, il Ministero non aveva minimamente allegato che un’eventuale carenza di riscossione fosse stata riservata a favore di esponenti della criminalità o espressione di ingerenza della stessa.
8.3. Deve ribadirsi, inoltre, che, in relazione al provvedimento di scioglimento dell’amministrazione comunale, la dichiarazione d’incandidabilità degli amministratori non ne costituisce conseguenza automatica, ma ha carattere autonomo, essendo fondata su presupposti diversi, e segnatamente sull’accertamento della colpa degli amministratori per la cattiva gestione della cosa pubblica, che ha determinato o favorito l’apertura della stessa alle ingerenze ed alle pressioni delle organizzazioni criminali operanti sul territorio. E’ pertanto insufficiente, ai fini della dichiarazione d’incandidabilità, la valutazione globale delle vicende dell’amministrazione, richiesta per il provvedimento di scioglimento, in quanto la natura personale della misura è volta a colpire esclusivamente coloro che sono responsabili del degrado dell’ente (cfr. Cass. n. 8030 del 2020). In altri termini, l’incandidabilità richiede una valutazione delle singola posizione, in nome del diritto all’elettorato passivo, al fine di verificare che collusioni e condizionamenti abbiano determinato una cattiva gestione della cosa pubblica, e postula, necessariamente, la sussistenza (nella specie, invece, esclusa dalla corte distrettuale) di risultanze concrete, fattuali, univoche e rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento ed idonee a rivelare, in maniera inequivoca, l’esistenza di forti contiguità tra l’operato dei singoli amministratori e gli interessi delle consorterie criminose.
9. Ragioni assolutamente analoghe a quelle finora esposte in relazione al quarto motivo conducono alla insuscettibilità di accoglimento anche dei motivi quinto, sesto e settimo, – pertanto scrutinabili congiuntamente – rispettivamente volti a censurare, prospettando violazione di legge e vizio motivazionale, le affermazioni della sentenza impugnata riguardanti la ivi ritenuta assenza di addebiti da muoversi al C. in ordine al controllo urbanistico ed all’abusivismo, alle frequentazioni intrattenute dall’odierno controricorrente e ed all’assenza di suoi precedenti penali per reati associativi.
9.1. Tutte tali doglianze, per come concretamente formulate, si rivelano assolutamente non coerenti con il principio per cui è inammissibile il (motivo di) ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019).
9.2. Le violazioni di legge ivi prospettate, infatti, lungi dal dedurre specifiche argomentazioni, intelligibili ed esaurienti, volte a dimostrare l’erroneità di affermazioni in diritto della corte calabrese, sulle corrispondenti questioni affrontate, perchè contrastanti con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con la loro interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, si risolvono in un’inammissibile (richiesta di) riconsiderazione delle risultanze istruttorie, così finendo surrettiziamente con il trasformare, affatto inammissibilmente, il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 8758 del 2017; Cass. n. 21381 del 2006).
9.3. Parimenti, i vizi motivazionali denunciati non rispettano, quanto a perimetro operativo e specifici oneri di allegazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014) previsti per il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, i corrispondenti principi di cui si è ampiamente dato conto in precedenza, risolvendosi le argomentazioni oggi riproposte, sul punto, dal Ministero ricorrente (il lamentato omesso esame di una serie di circostanze, prese, invece, sostanzialmente, in considerazione dalla corte distrettuale) in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo su ciascuno degli addebiti suddetti, cui il primo intenderebbe opporre, affatto inammissibilmente, sotto la formale rubrica di vizio motivazionale, una diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie utilizzate dalla corte calabrese (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè la più recente Cass. n. 8758 del 2017). Si è già detto, infatti, che non spetta a questa Corte il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato e la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, restando attribuito in via esclusiva al giudice di merito il potere d’individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e controllarne l’attendibilità e la concludenza, nonchè di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. Cass. n. 29404 del 2017; Cass. n. 19547 del 2017; Cass. 16/12/2011, n. 27197 del 2011).
9.3.1. Deve qui soltanto aggiungersi, quanto alle asserite frequentazioni del C. con soggetti sospetti, che, al di là dell’esiguità del concreto numero dei relativi riscontri (sei volte in un arco temporale di circa 27 anni, come accertato dal tribunale), – non potendosi dedurre la “frequentazione” da un incontro singolo, poichè essa presuppone la reiterazione dei contatti la rilevanza delle frequentazioni predette deve essere altresì corroborata dalle circostanze di tempo e di luogo in cui gli incontri/frequentazioni si sono svolti, onde collocarli in un contesto che, anche sul piano indiziario, li distingua dalla mera conseguenza di un neutro rapporto di conoscenza. D’altra parte, i rapporti, gli incontri tali da costituire “frequentazione” non possono essere considerati prescindendosi delle dimensioni della comunità locale, che, se ha dimensioni ridotte, può determinare che le occasioni di incontro tra cittadini, pregiudicati e non, rientra, più che in altri casi, in una sorta di evenienza fisiologica. Con ciò, non si intende affermare che gli incontri tra amministratori e persone supposte appartenenti alla criminalità non costituiscano un elemento indiziario di indiscutibile gravità, nè che le ridotte dimensioni territoriali dell’ente, comportando l’inevitabilità degli incontri, escludano ogni rilevanza ai medesimi. Se, dunque, la dimensione del comune non è, ex se, tale da eliminare ogni valenza indiziaria alla frequentazione, allo stesso modo, però, non assumerebbe particolare rilievo, ai fini del riscontro dei criteri di concretezza ed univocità voluti dalla legge, la considerazione secondo la quale la notoria mafiosità di taluni soggetti, ancor più nota in un piccolo centro, dovrebbe indurre coloro che hanno scelto di servire le istituzioni in qualità di amministratori o dipendenti ad evitarne possibili contatti. Al contrario, occorre affermare che, secondo le regole di buon governo delle prove e degli indizi, l’evento considerato deve essere valutato senza astrarlo dal suo contesto, di modo che grava sul valutante offrire elementi ulteriori che a quell’incontro consentano di dare un “significato” in senso indiziario, elementi che possono essere, ad esempio, l’inusualità del rapporto tra soggetti tra loro estranei, pur appartenendo alla stessa comunità locale, e che dunque non avrebbero motivo di frequentarsi, ovvero il numero degli incontri, le circostanze di tempo e di luogo del loro svolgimento. Il Collegio non ignora le difficoltà che operazioni ermeneutiche del tipo indicato possono porre in concreto, a maggior ragione nel caso di piccole comunità, che per dimensione, coesione interna ed eventuale chiusura o limitata apertura verso l’esterno, offrono elementi di difficile reperimento e, ove raccolti, di incerta o difficile decifrazione. Tuttavia, resta il dato della delicatezza di attività che coinvolgono una pluralità di valori costituzionalmente tutelati e che rendono necessario, pur in esercizio di ampia discrezionalità, un costante e concreto aggancio ad elementi rilevanti ed univoci che, pur non assurgendo al rango di prova, contribuiscono ad indicare un percorso di ragionevolezza valutativa e di proporzionalità ed adeguatezza della misura adottata. Alla luce di quanto sin qui esposto, occorre convenire con la sentenza impugnata, laddove essa, all’esito della disamina degli elementi di tipo soggettivo offerti, conclude per l’assenza di rilevanza e di univocità degli stessi ai fini dell’invocata incandidabilità del C..
9.3.2. Quanto, invece, all’addebito afferente la concreta attività svolta per contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio, va qui solo ricordato che, secondo la corte distrettuale, quand’anche ne fosse stata ritenuta dimostrata la carenza, la stessa non sarebbe stata ugualmente considerata come univocamente indiziante di un contributo efficiente del sindaco al condizionamento dell’azione amministrativa da parte di associazioni criminali, visto che, nel reclamo, il Ministero non aveva minimamente allegato che un’eventuale siffatta carenza fosse stata riservata a favore di esponenti della criminalità o espressione di ingerenza della stessa.
10. Complessivamente inammissibile, da ultimo, si rivela pure l’ottavo motivo, volto a censurare, prospettando violazione di legge e vizio motivazionale, l’affermazione finale di sintesi della sentenza impugnata secondo cui è “condivisibile la conclusione cui è giunto il Tribunale secondo cui non è stata riscontrata la sussistenza di rapporti fra C.P. e la criminalità organizzata che presentino un minimo serio grado di significatività”.
10.1. Anche questa doglianza, infatti, rimane confinata in affermazioni assolutamente generiche, nuovamente obliterando che, in relazione al provvedimento di scioglimento dell’amministrazione comunale, la dichiarazione d’incandidabilità degli amministratori non ne costituisce conseguenza automatica, ma ha carattere autonomo, essendo fondata su presupposti diversi, e segnatamente sull’accertamento della colpa degli amministratori per la cattiva gestione della cosa pubblica, che ha determinato o favorito l’apertura della stessa alle ingerenze ed alle pressioni delle organizzazioni criminali operanti sul territorio. Da ciò consegue che, ai fini della declaratoria di incandidabilità, deve considerarsi necessaria la sussistenza di risultanze concrete, fattuali, univoche e rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento, diretto o indiretto, ed idonee a rivelare, in maniera inequivoca, l’esistenza di forti contiguità tra l’operato dei singoli amministratori e gli interessi delle consorterie criminose.
11. Il ricorso, dunque, va respinto, restando le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dal solo controricorrente costituitosi regolate dal principio di soccombenza e liquidate come in dispositivo.
11.1. Posto, inoltre, che, come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 1778 del 2016, nonchè, in senso sostanzialmente conforme, la più recente Cass. n. 20682 del 2020), l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo, questo Collegio, malgrado l’adottata pronuncia di rigetto della odierna impugnazione, può esimersi (cfr. Cass., SU. n. 4315 del 2020) dal rendere l’attestazione della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento del contributo predetto.
11.2. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero dell’Interno al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dal C., liquidate in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021