LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17232/2019 proposto da:
K.T., rappresentato e difeso dall’avvocato Altomare Ugo, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via Mercalli n. 31;
– ricorrente –
contro
Ministero Dell’interno, in persona del Ministro p.t.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2173/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 21/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/11/2020 da Dott. CONTI ROBERTO GIOVANNI.
FATTI DI CAUSA
K.T., nato in *****, ha proposto domanda di riconoscimento della protezione internazionale, sussidiaria ed umanitaria innanzi al Tribunale di Bari, impugnando la decisione di rigetto della Commissione territoriale.
Il giudice di primo grado ha respinto la domanda con sentenza impugnata davanti alla Corte di appello di Bari la quale, con la pronunzia indicata in epigrafe, ha respinto l’impugnazione. Secondo la Corte il racconto del richiedente – a cui tenore l’allontanamento del Mali era derivato dall’essere stato il richiedente rapito dai ribelli ***** per essere addestrato al combattimento e sottoposto ad addestramento militare, poi riuscendo a fuggire in Algeria grazie all’aiuto del guardiano del campo – era non credibile e contraddittorio, tenuto conto delle risposte generiche sulle modalità di addestramento e sul fatto che leggessero nel periodo di prigionia solo il Corano senza alcun altro tipo di indottrinamento e con una formazione limitata al salto della corda ed al trasporto di sacchi di sabbia. La Corte di appello individuava poi delle contraddizioni in ordine al racconto relativo alla fuga in Algeria, aggiungendo che nell’atto di appello erano state riferite ulteriori e particolari circostanze relative a persone e luoghi che non avevano trovato riscontro nel racconto del richiedente. Esclusa la ricorrenza della protezione internazionale, la Corte di appello riteneva parimenti insussistente il pericolo di violenza generalizzata derivante da conflitto armato in relazione alla zona di provenienza del richiedente – ***** – richiamando specifici rapporti desunti da varie fonti internazionali dalle quali era emersa la situazione di stabilità del sud di quel paese, ben diverse da quelle della zona settentrionale. Quanto alla richiesta di protezione umanitaria, la Corte evidenziava che l’integrazione del richiedente in Italia non costituiva elemento sufficiente per il riconoscimento del permesso umanitario non riscontrandosi una situazione di vulnerabilità, tenuto conto che il richiedente aveva in patria un lavoro ed una famiglia di riferimento, non risultando le patologie riscontrate tali da compromettere l’esercizio dei diritti umani fondamentali.
Il K. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
Il Ministero dell’Interno non si è costituito. Il ricorrente ha depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce la violazione delle disposizioni relative alla disciplina in tema di protezione internazionale specificamente riportate in rubrica. La Corte di appello, in particolare, avrebbe errato nel ritenere non credibili le dichiarazioni del richiedente, discostandosi dalla procedimentalizzazione delle modalità di verifica della credibilità fissate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e disattendendo la presunzione di veridicità delle stesse in relazione alla generale credibilità del racconto, a nulla rilevando la mancanza di riscontri oggettivi, semmai richiedendosi l’acquisizione officiosa di informazioni sulla specifica vicenda personale. La Corte di appello avrebbe altresì errato nel valorizzare l’esistenza di elementi nuovi esposti in appello, non essendo questi contraddittori rispetto a quelli precedentemente esposti, dovendo in ogni caso il giudice procedere all’ascolto per verificare gli eventuali profili di difformità.
Tale motivo è infondato.
E’ noto che secondo la giurisprudenza di questa Corte, la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Ne consegue che tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito – Cass., Sez. 1, n. 03340/2019.
Si è pure precisato che le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, devono essere sottoposte non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna, ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda (v. Cass. n. 21142/19Cass. n. 01195/2020, Rv. 658017-01).
Ora, nel caso di specie il giudice di appello ha espresso le ragioni poste a sostegno della ritenuta non credibilità del racconto, esaminato nel suo complesso, cogliendone specifici elementi dalla contraddittorietà dalla sua frammentarietà e lacunosità oltre che dall’implausibilità di taluni elementi forniti a proposito delle forme di addestramento che sarebbero state poste in essere dai ribelli *****. Tanto esclude che il giudice di appello non si sia conformato alla procedimentalizzazione delle modalità di verifica delle dichiarazioni rese dal richiedente fissate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e segnatamente del criterio di cui alla lett.c) di tale disposizione. In questa prospettiva va poi ricordato che le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Cass., Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Cass., Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224). Il che esclude la fondatezza degli ulteriori rilievi censori esposti dal ricorrente.
Quanto al rilievo della mancata audizione del richiedente sui fatti nuovi, lo stesso è inammissibile.
Occorre, infatti, muovere dai principi espressi da Cass. n. 24364/2020 che, nel richiamare i principi espressi da Cass. n. 27073/19 – a cui tenore l’esigenza che il richiedente sia sentito su tutti i fatti da lui narrati e rilevanti ai fini dell’esame della domanda trova esplicazione innanzi alla Commissione territoriale e, in caso di impossibilità, in sede giurisdizionale a seguito dell’impugnazione con l’audizione del richiedente in udienza – ha avuto modo di sottolineare la necessità che nel ricorso introduttivo (e non in appello) siano evidenziate le circostanze o i fatti nuovi che il richiedente intende chiarire; con il corollario che siffatti elementi in sede di ricorso per cassazione, debbono essere specificati nel rispetto del principio di autosufficienza.
Ora, risulta evidente che nel caso di specie tale onere non risulta assolto quanto al giudizio di primo grado, anzi risultando dalla stessa sentenza di appello che gli elementi e le circostanze nuove erano state dedotto in sede di impugnazione. Ciò che rende non pertinente il rilievo censorio prospettato.
Con il secondo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c, in quanto la Corte di appello avrebbe totalmente pretermesso di verificare d’ufficio se l’arruolamento di un ragazzo giovane nel Mali non potesse determinare il rischio effettivo di persecuzione. Questione che non risultava affrontata dalle fonti informative, in ogni caso dovendosi contestare che la situazione specifica del Mali fosse tale da escludere il presupposto per il riconoscimento della protezione sussidiaria ex lett.c) dell’art. 14 cit..
Anche tale motivo è destituito di fondamento, ove si consideri che la Corte di appello, con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede, ha escluso la veridicità del racconto ed ha accertato l’insussistenza di un pericolo di violenza generalizzata derivante da conflitto armato idonea a determinare un grave danno alla popolazione risiedente nella regione a sud del Mali, sulla scorta di dettagliati e precisi richiami a fonti informative che sono stati contestati.
Con il terzo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. La Corte non avrebbe considerato l’ingente mole di documenti attestanti il forte radicamento del richiedente nel territorio italiano, tralasciando di considerate la situazione di instabilità socio-politica del paese d’origine e la situazione di vulnerabilità correlata alla giovane età del richiedente ed all’impossibilità di esercitare alcuni diritti fondamentali in relazione alla situazione del Mali.
La censura è destituita di fondamento quanto al mancato esame della documentazione attestante il radicamento del richiedente in Italia, avendo la Corte di appello ben considerato detta documentazione, ritenendola non sufficiente al fine di dimostrare la situazione di vulnerabilità in relazione al caso specifico ed alle condizioni del richiedente nel paese di origine ed inammissibile quanto alla restante parte della censura, scontrandosi con un accertamento di fatto operato dal giudice di merito in ordine alla mancata dimostrazione da parte del richiedente di una condizione di vulnerabilità, specificamente esclusa in relazione all’esame delle condizioni del al momento di lasciare il paese di origine – attività di contadino e presenza di famiglia di riferimento.
Con il quarto motivo si deduce la violazione delle norme in tema di asilo nella parte in cui la Corte di appello aveva ritenuto di non ammettere il richiedente al patrocinio a spese dello Stato senza verificare se la mancata ammissione rispetta i requisiti della revoca di cui all’art. 136 TU spese di giustizia non potendo il rigetto dell’istanza derivare dal mero rigetto della domanda dell’attore, occorrendo la dimostrazione di un’ipotesi di responsabilità aggravata o comunque la mala fede o colpa grave.
Il motivo di ricorso è inammissibile se è vero che il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, comunque pronunciato (sia con separato decreto che all’interno del provvedimento di merito)deve essere sempre considerato autonomo e di conseguenza soggetto ad un separato regime di impugnazione ovvero l’opposizione del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 15. Contro tale provvedimento è ammesso il ricorso ex art. 111 Cost., mentre è escluso che della revoca irritualmente disposta dal giudice del merito possa essere investita la Corte di Cassazione in sede di ricorso avverso la decisione – cfr. Cass. 16117/2020.
Sulla base di tali considerazioni, idonee a superare anche i rilievi difensivi esposti in memoria dal ricorrente, il ricorso va rigettato.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021