LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. GIAIME GUIZZA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 25611-2019 proposto da:
D.R.P., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’Avvocato MARIA DI ROCCO;
– ricorrente –
contro
B.L., G.A., entrambi eredi di Gi.Al., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’Avvocato STEFANO NANNI;
– controricorrenti –
contro
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato GIOVANNI COLLA;
– controricorrente –
e contro
ALLIANZ SPA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1283/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 28/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO.
RITENUTO IN FATTO
– che D.R.P. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1283/19, del 28 maggio 2019, della Corte di Appello di Firenze, che – respingendo il gravame principale dalla stessa esperito contro la sentenza n. 378/12, del Tribunale di Prato (nonchè, per quanto qui ancora di interesse, il gravame incidentale di A.A., in punto spese di lite) – ha rigettato l’opposizione dalla stessa proposta al decreto ingiuntivo concesso in favore di Gi.Al. (dante causa “iure hereditatis” di B.L. e G.A.), quale titolare dell’omonima impresa individuale, per l’importo di Euro 65.489,49, in ragione di lavori edili eseguiti su incarico dell’odierna ricorrente;
– che, in punto di fatto, la ricorrente riferisce di aver incaricato la predetta impresa individuale dell’esecuzione di un appalto di opere edili, la cui direzione era stata affidata all’ A., costatando, però, subitaneamente, la presenza di alcuni vizi, tanto da richiedere all’autorità giudiziaria l’espletamento di un accertamento tecnico preventivo;
– che all’esito dello stesso si riscontrava l’effettiva ricorrenza di alcuni danni, senza però potersi procedere alla loro quantificazione, in ragione della disciplina allora applicabile, “ratione temporis”, al procedimento di istruzione preventiva;
– che a dispetto di tale accertamento, l’impresa edile conseguiva il ricordato provvedimento monitorio, con cui ingiungeva alla D.R.
il pagamento dell’intero importo, pari a Euro 65.489,49, delle opere eseguite, senza alcuna diminuzione in ragione dei pur acclarati vizi;
– proposta, su tali basi, opposizione ex art. 645 c.p.c. dalla D.R., che chiedeva ed otteneva la chiamata in causa dell’ A. (a sua volta autorizzato a chiamare in causa il proprio assicuratore, R.A.S.-Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.a., poi divenuta Allianz S.p.a.), il Tribunale la rigettava, condannando la D.R. al pagamento della somma suddetta, con decisione confermata dal giudice di appello, che respingeva il gravame principale dell’attrice in opposizione, nonchè -per quanto (lui ancora di interesse – quello incidentale dell’ A., in relazione alla condanna a rifondere le spese del primo grado di giudizio al proprio assicuratore;
– che avverso la sentenza della Corte fiorentina la D.R.P. ricorre per cassazione, sulla base – come detto – di tre motivi;
– che il primo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), art. 118 disp. att. c.p.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui si è limitata confermare la decisione del Tribunale “in punto di difetto di prova in ordine alla domanda di riduzione del corrispettivo di appalto”, la Corte territoriale ritenendo non essere “emerso inequivocabilmente che i vizi denunciati fossero effettivamente tali”, risolvendosi, invece, “in irrilevanti imperfezioni che si sarebbero potute migliorare nel corso dei lavori da ultimare e non ultimati per cause non imputabili alla stazione appaltante”;
– che, in primo luogo, l’odierna ricorrente assume di aver dedotto, anche in appello, che il motivo principale dell’opposizione al provvedimento monitorio consisteva nel fatto che il credito oggetto del ricorso per ingiunzione risulterebbe di importo superiore (Lire 198.684.333) rispetto a quello “indicato e suggerito dall’Arch. F. quale CTU in sede di ATP” (Lire 193.290.093), secondo quanto risulterebbe dalla “contabilità finale”, dallo stesso “allegata alla sua prima perizia depositata il 17.04.2003”;
– che, di conseguenza, la Corte territoriale, nel respingerlo, avrebbe errato, laddove afferma che, a fronte di un corrispettivo pattuito dalle parti di Lire 224.652.000, quello “finale quantificato dal CTU è stato pari a Lire 193.290.093”, sicchè, detratti gli acconti, si perviene alla somma “finale di Euro 65.489,49”;
– che, inoltre, i difetti delle opere eseguite – secondo la ricorrente -sarebbero emersi sia da una “prova documentale” (ovvero, la “fattura del lavori edili che erano stati necessariamente dovuti eseguire a causa dell’operato dell’impresa Gi.”), sia dall’espletata CTU, non potendo, dunque, essere “giustificati” dalla Corte di Appello tramite una mera motivazione “per relationem” alla sentenza di primo grado;
– che la nullità della sentenza, infine, sarebbe configurabile anche in relazione all’omessa motivazione sia sul rigetto del quarto motivo di appello, concernente la responsabilità del direttore dei lavori, sia sulle ragioni che hanno portato la Corte a decidere, nel merito, in maniera completamente contraria a quanto affermato in sede di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado;
– che il secondo motivo di ricorso denuncia “contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”, nella parte in cui ha escluso la presenza di nuove infiltrazioni nel novembre del 2003, e ciò sul rilievo che la loro eventuale presenza sarebbe stata menzionata nei chiarimenti del CTU, i quali, tuttavia, furono resi – osserva la ricorrente – in data 3 novembre 2003, e dunque quando il nuovo fenomeno infiltrativo ancora non si era verificato;
– che il terzo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, lamentando la ricorrente che tutte le proprie deduzioni risultavano supportate da prove documentali, in relazione alle quali veniva richiesta una (2"113 volta a quantificare il minor valore dell’opera realizzata, in ragione dei vizi che la inficiavano, istanza, tuttavia, respinta con “mere formule di rito”;
– che ha resistito all’impugnazione, con controricorso, la B., chiedendo che lo stesso venga dichiarato inammissibile o infondato;
– che ha resistito all’impugnazione, con controricorso, pure l’ A., rassegnando identiche conclusioni;
– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio per il 15 ottobre 2020;
che la ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie censure.
CONSIDERATO IN DIRITTO
– che il ricorso è inammissibile;
– che l’inammissibilità, in particolare, del primo motivo – con il quale è ipotizzata la ricorrenza del vizio di motivazione apparente -dipende da varie ragioni, non risultando, viceversa, idonee ad escludere tale esito le considerazioni svolte, sul punto, dalla ricorrente, nella memoria ex art. 380-bis c.p.c.;
– che inammissibile è, innanzitutto, la censura basata sul fatto che risulterebbe errata la somma al cui pagamento l’odierna ricorrente, detratti gli acconti versati, è stata condannata (f. 65.489,49), giacchè la sentenza impugnata è pervenuta alla determinazione della stessa ponendo a raffronto la somma pattuita dalle parti come corrispettivo dei lavori (Lire 224.652.000) e il valore effettivo degli stessi, valore, tuttavia, stabilito dal CTU – nella “contabilità finale” dallo stesso “allegata alla sua prima perizia depositata il 17.04.2003” – non nella somma oggetto del provvedimento monitorio (Lire 198.684.333), bensì in altra minore (Lire 193.290.093);
– che la censura è inammissibile, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, giacchè, “in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, qualora sia dedotta la omessa o viziata valutazione di documenti” (nella specie, la “contabilità finale” dal CTU “allegata alla sua prima perizia depositata il 17.04.2003”, come testè indicato), “deve procedersi ad un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto” (qui, viceversa mancato, avendo la ricorrente omesso di riprodurre, anche solo “in parte quà la perizia e la tabella suddette, neppure allegati al ricorso), “nonchè alla specifica indicazione del luogo in cui ne è avvenuta la produzione, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza sulla base del solo ricorso, senza necessità di fare rinvio od accesso a fonti esterne ad esso” (Cass. Sez. 1, cent. 7 marzo 2018, n. 5478, Rv. 64774701);
– che nel medesimo senso, del resto, anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che “sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito” (nella specie, nuovamente, la perizia e la tabella ad essa allegata, documentazione, peraltro, anche per individuare la misura degli acconti che la ricorrente afferma di aver corrisposto), e ciò “qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso”, ovvero, laddove riprodotti, “senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. Sez. Un., seni. 27 dicembre 2019, n. 34469, Rv. 656488-01);
– che tali carenze inficiano, dunque, la presente censura, rendendo impossibile lo scrutinio demandato a questa Corte, specie se si considera che la differenza tra la somma indicata nel provvedimento monitorio (Lire 198.684.333), quale compenso pattuito dalle parti per i lavori edili da eseguire, e quella (Lire 193.290.093) stimata dal consulente tecnico, quale effettivo valore degli stessi, ammonta a 31.361.907, e dunque ad Euro 60.723,39, sicchè individuare con esattezza quale fosse la misura degli acconti effettuati avrebbe permesso di stabilire l’effettiva congruità dell’importo che – come attesta la sentenza impugnata – è indicato a titolo di “sorte” (ovvero Euro 59.535,90), al cui pagamento l’odierna ricorrente è stata condannata, ed al quale sono stato aggiunti Euro 5.935,59 per IVA al 10% oltre interessi e accessori;
– che il medesimo profilo di inammissibilità connota anche la censura con cui è lamentata la mancata considerazione dei vizi dei lavori eseguiti, sostenendosi che gli stessi emergerebbero sia da “prova documentale” (ovvero, la “fattura del lavori edili” che fu necessario eseguire per porre riparo all’operato dell’impresa Gi.), sia dall’espletata CTU, giacchè, anche in questo caso, la ricorrente avrebbe dovuto riprodurre, nell’atto di impugnazione, il contenuto di tale documento, ciò che non ha fatto;
– che, d’altra parte, neppure merita accoglimento la censura in esame, nella parte in cui stigmatizza quella che viene indicata come “acritica conferma” della decisione del primo giudice;
– che, difatti, deve ribadirsi il principio secondo cui “la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata “per relationer” ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame” (così da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 8 novembre 2018, n. 28139, Rv. 651516-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. Lav., sent. 23 agosto 2018, n. 21037, Rv. 650138-01; Cass. Sez. 1, sent. 19 luglio 2016, n. 14786, Rv. 64075901);
– che, del pari, l’esito dell’inammissibilità s’impone anche per la censura con cui è dedotta “omessa motivazione di rigetto del motivo di appello in relazione alla responsabilità del Direttore dei lavori”, giacchè è “inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2015, n. 17049, Rv. 636133-01);
– che, per concludere nell’esame del primo motivo di ricorso, inammissibile è pure la censura che ipotizza il mancato assolvimento del dovere del giudice di appello di motivare le ragioni che lo hanno portato a decidere, nel merito, in maniera completamente contraria a quanto affermato in sede di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado;
– che siffatta doglianza trascura di considerare che quelli resi dal giudice di appello sulla provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado sono “provvedimenti di natura processuale con contenuto non decisorio, che producono effetti temporanei, destinati ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio d’impugnazione” (Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2015, n. 13774, Rv. 635916-01), sicchè nessun vincolo essi pongono a carico del giudice di appello, non tenuto a motivare le ragioni per cui, all’esito di una valutazione non più sommaria del gravame, qual è quella effettuata a fini sostanzialmente cautelali ai sensi dell’art. 351 c.p.c. (cfr., in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 8 marzo 2005, n. 5011, Rv. 581470-01), abbia ritenuto di rigettarlo;
– che il secondo motivo di ricorso – nell’evocare il vizio di “contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia” – è inammissibile già solo per il fatto di riferirsi ad un’ipotesi non più contemplata dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che dà rilievo solo all’omesso “esame” di un “fatto” che sia decisivo per la controversia, potendo, pertanto, la motivazione della sentenza impugnata essere, ormai, Oggetto di sindacato solo in caso di “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero perchè connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01);
– che a dispetto di quanto afferma la ricorrente, nessuna contraddizione – men che mai, “irriducibile” – sussiste nella motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto non provate le lamentate infiltrazioni;
– che, infatti, la circostanza – enfatizzata dalla ricorrente – per cui la richiesta di convocazione a chiarimenti del C111 (ma non il deposito delle sue osservazioni al riguardo, essendo esso avvenuto nel dicembre 2003) sarebbe anteriore all’epoca, ovvero il novembre dello stesso anno, cui risalirebbe il lamentato fenomeno infiltrativo, non appare idonea a inficiare la motivazione contenuta nella sentenza impugnata;
– che essa, infatti, ha evidenziato che la prova delle infiltrazioni “non è stata raggiunta in nessun modo”, e ciò sia in assenza di “un riscontro fotografico”, sia in considerazione del fatto che “i testi non hanno dato univoca e certa conferma della circostanza, rimanendo vaghi sul tempo in cui si sarebbe verificata e sul punto di provenienza” delle stesse, non risultando neppure confermato “il luogo in cui si sarebbe verificato il gocciolamento di acqua piovana”;
– che, infine, il terzo motivo di ricorso, teso a stigmatizzare l’omessa motivazione in ordine alla richiesta di svolgimento di una nuova C’FU, in aggiunta a quella effettuata nel procedimento di accertamento tecnico preventivo, incombente asseritamente imposto, secondo la ricorrente, da non meglio precisate “prove documentali”, oltre ad essere inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per le ragioni già sopra illustrate (ovvero, perchè, come detto, neppure vengono indicati i documenti in questione), si infrange contro il principio secondo cui, “in tema di consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, cent. 29 settembre 2017, n. 22799, Rv. 645507-01);
– che il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile;
– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
– che in ragione della declaratoria di inammissibilità del ricorso, va dato atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello stabilito per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
PQM
La Corte dichiara il ricorso inammissibile, condannando D.R.P. a rifondere, a B.L. e G.A., nonchè ad A.A., le spese del presente giudizio, che liquida – per i primi due congiuntamente, e per il terzo separatamente – nella medesima misura di Euro 4.100,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè 15% per spese generali, più accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021