Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.434 del 13/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19829-2017 proposto da:

ACCIAIERIE BERTOLI SAFAU S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MAINETTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati STEFANIA PATTARINI, VANNI MARCO RIBECHI;

– ricorrente –

contro

B.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio dell’avvocato SAVINA BOMBOI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ADRIANO VIRGILIO, BRUNO COSSU;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 268/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 22/05/2017 r.g.n. 212/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/09/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario.

RILEVATO

CHE:

1. B.R. convenne in giudizio la Acciaierie Bertoli Safau s.p.a. per ottenere l’accertamento dell’avvenuta violazione dell’art. 2103 c.c. e del demansionamento subito configurante, per le modalità con le quali era stato attuato, un comportamento mobbizzante in suo danno finalizzato ad indurlo a risolvere il rapporto di lavoro. Dedusse inoltre di essere stato costretto a godere di ferie e permessi e quindi di essere stato collocato in cassa integrazione guadagni. Chiese perciò che, accertato quanto sopra, la società fosse condannata a reintegrarlo nelle mansioni di controller ed a risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto.

2. Il Tribunale di Udine accolse in parte le domande ed accertò che le mansioni assegnate al lavoratore, eccezion fatta per il periodo luglio 2003 ottobre 2004, non erano adeguate rispetto a quelle per le quali era stato assunto. Ritenne accertato l’impoverimento della capacità professionale del B. e che questi ne avesse riportato un danno alla sua immagine professionale che ritenne dimostrato in via presuntiva. Accertò che il comportamento datoriale doveva essere considerato mobbizzante a partire dal 2009 ed, infine, che il collocamento in cassa integrazione era illegittimo.

3. La Corte di appello di Trieste, investita del gravame da entrambe le parti, ha accolto in parte il ricorso di B.R. e, confermata nel resto la sentenza del Tribunale, ha condannato la società a pagare al B., a titolo risarcitorio ed in relazione al demansionamento sofferto la somma di Euro 187.862,50 oltre che la somma di Euro 36.280,00 a titolo di danno non patrimoniale, con rivalutazione monetaria ed interessi legali.

3.1. Il giudice di secondo grado, per quanto qui ancora interessa, ha ritenuto che il datore di lavoro avesse esercitato in maniera non corretta lo ius variandi, assegnando il lavoratore a mansioni dequalificanti rispetto a quelle rivestite nel 2003-2004 ed a quelle riportate nella lettera di assunzione, e perciò fosse incorso nella denunciata violazione dell’art. 2103 c.c.. Ha rilevato infatti che il B. era stato assunto il 1.7.2000 per svolgere le mansioni di Responsabile Controllo di Gestione e che tali mansioni non gli erano state mai attribuite.

3.2. Ha verificato poi che le mansioni affidate al lavoratore non erano affatto equivalenti a quelle concordate all’atto dell’assunzione. Tali non erano neppure quelle di redazione della reportistica gestionale, della quale venne incaricato nell’aprile 2003, trattandosi solo di una delle attività istituzionalmente assegnate sulla base del contratto collettivo al responsabile del controllo di gestione. Con riguardo all’incarico di responsabile amministrativo, rivestito nel periodo fino al giugno luglio 2003, il giudice di appello ha accertato che si trattava di incarico per il quale il B. non aveva alcuna competenza specifica e che gli fu affidato per un periodo breve, senza che gli fosse offerta alcuna formazione, così che non si poteva ritenere che nello svolgimento di tali mansioni avesse sviluppato una nuova professionalità. Quanto all’incarico di responsabile finanziario, rivestito dal 2004, poi, la Corte di merito ha rilevato, ancora una volta, una non congruenza con le competenze proprie del lavoratore e l’assenza di strumenti di formazione evidenziando che, peraltro, non era stato posto in condizione di svolgere a pieno il suo ruolo che era rimasto contenuto ad alcuni limitati compiti. In ultimo ha escluso che all’incarico affidatogli nel 2011, di responsabile dell’analisi dati e statistiche della struttura aziendale ingegneria e processo, fosse corrisposta una reale attività di analisi dei dati tecnici o economici. Ha accertato infatti che l’attività era limitata ad una mera raccolta di dati effettuata sulla base di una modulistica già esistente e sperimentata.

3.3. Nell’accogliere il ricorso proposto dal B., poi, la Corte ha ritenuto che anche l’attribuzione delle mansioni di responsabile amministrativo, non coerente con la professionalità del B., dovesse essere considerata dequalificante. Tuttavia ha ritenuto che non vi fosse prova di uno specifico danno sofferto nel breve periodo di destinazione a tali mansioni.

3.4. Quanto al danno complessivamente sofferto con riferimento all’intero periodo, e non frammentariamente alle singole fasi, la Corte ha ritenuto inadeguata la misura del 20% quantificata dal Tribunale ed ha ricalcolato la percentuale nel 50% da calcolare con riguardo alla media delle retribuzioni percepite (tra inizio e fine rapporto) e così ha proceduto al ricalcolo degli importi da riconoscere.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Acciaierie Bertoli Safau s.p.a. (ABS s.p.a.) affidato a tre motivi ed ulteriormente illustrato da memoria al quale ha resistito con controricorso B.R..

CONSIDERATO

CHE:

5. Preliminarmente, in relazione all’eccezione formulata dal controricorrente, va rilevato che il ricorso è procedibile. In atti è depositata la copia della sentenza impugnata recante la notifica alla società ricorrente.

6. Il primo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. per avere la Corte territoriale, e prima ancora il Tribunale erroneamente ritenuto che il datore di lavoro avesse applicato lo ius variandi in maniera non corretta, non può essere accolto.

6.1. La Corte territoriale nel ricostruire le mansioni svolte dal ricorrente nel corso del rapporto ha verificato, con accertamento di fatto aderente alle risultanze dell’istruttoria, che nel corso delle numerose modifiche delle mansioni assegnate al B., questi, assunto come quadro di settimo livello e con mansioni di responsabile di controllo di gestione, non aveva mai potuto mettere in pratica la sua specifica competenza e si era dovuto confrontare con compiti disparati estranei alla sua professionalità e rispetto ai quali non gli era stata mai offerta una specifica formazione.

6.2. In sostanza la Corte di appello, proprio tenendo conto della possibilità che il lavoratore si sia potuto giovare della pluralità di compiti assegnati conseguendone un arricchimento della sua professionalità, ha invece accertato che alle continue modifiche era conseguita invece una dispersione della sua professionalità specifica mai realmente messa a frutto. Un depauperamento delle sue competenze espressione del sostanziale demansionamento attuato in suo danno.

6.3. Tale valutazione, aderente alle risultanze processuali, tiene conto del complessivo sviluppo del rapporto sin dalla sua costituzione, si sintetizza nella conferma dell’allegata dequalificazione progressiva subita dal lavoratore attraverso un giudizio di fatto che non incorre nella violazione di legge denunciata e si realizza attraverso una plausibile, e perciò incensurabile in questa sede, ricostruzione dei fatti allegati e provati in giudizio. Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali (cfr. Cass. 19/10/2018 n. 26477 e 03/03/2016n. 4211).

7. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. per essere stato duplicato e sovrapposto il danno patrimoniale riconosciuto senza che ne fosse stata offerta una specifica prova e senza puntuali allegazioni, non può trovare accoglimento.

7.1. Dalla lettura della sentenza si evince che con la domanda introduttiva era stato chiesto sia il danno patrimoniale che il danno non patrimoniale quale conseguenza del demansionamento e del mobbing denunciato.

La Corte territoriale riconosce al ricorrente un danno alla professionalità che rientra nell’ambito della domanda formulata in giudizio e lo liquida, come ben può, utilizzando una valutazione equitativa.

7.2. Va rammentato allora che in tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se, come nella specie, adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno – avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore – e determinarne l’entità, anche in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr. Cass. 23/07/2019 n. 19923).

8. Il terzo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e degli artt. 1,2,3,4,35 e 41 Cost., è inammissibile.

8.1. La Corte territoriale qualificando i fatti quali sono emersi nel corso del giudizio ha ritenuto che il ricorrente avesse diritto a veder risarcito il danno conseguente all’accertato demansionamento. Non rileva che il consulente abbia qualificato il comportamento datoriale come mobbing e che tale qualificazione fosse o meno corretta atteso che la qualificazione giuridica della fattispecie appartiene al giudice che nell’avvalersi di un ausiliare gli demanda la sola risoluzione di questioni di fatto che presuppongano cognizioni di ordine tecnico e non giuridico (cfr. in motivazione Cass. 22/01/2016 n. 1186 e Cass. 04/02/1999 n. 996).

9. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese seguono la soccombenza e, distratte in favore dell’avvocato che se ne è dichiarato anticipatario, sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma art. 13, comma 1 bis citato D.P.R. n., se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 6.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Spese da distrarsi.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R. n., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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