LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8984-2015 proposto da:
ALSOR S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso Lo studio dell’avvocato BRUNO TAVERNITI, rappresentata e difesa dall’avvocato FIORENZO CIERI;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, GIUSEPPE MATANO, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, ESTER ADA VITA SCIPLINO, LELIO MARITATO;
– resistenti con mandato –
avverso la sentenza n. 177/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 26/02/2015 R.G.N. 127/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/10/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE.
RILEVATO
CHE:
la Corte di Appello di l’Aquila, con sentenza del 26 febbraio 2015, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da ALSOR s.r.l. volto ad impugnare il verbale di accertamento del 31 gennaio 2012 notificato dall’Inps, con il quale era stata contestata la natura fittizia, con ogni conseguenza sotto il profilo delle relative omissioni contributive, di sei rapporti lavorativi costituiti nelle forme dell’associazione in partecipazione ed aventi ad oggetto l’attività di pulizia e disinfestazione di edifici pubblici e privati, attività a sua volta oggetto di specifici contratti d’appalto;
la Corte d’appello ha condiviso l’assunto del Tribunale secondo il quale le lavoratrici di cui al verbale ispettivo redatto dai funzionari dell’INPS svolgevano, in favore della società, attività lavorativa subordinata quali addette alla pulizia presso i citati edifici, nonostante tra le parti fossero stati stipulati contratti di associazione in partecipazione;
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la società soccombente con quattro articolati motivi, cui non ha resistito l’INPS che si è limitata a depositare procura speciale.
CONSIDERATO
CHE:
il primo motivo di censura, dopo la denuncia di violazione e falsa applicazione degli artt. 2549 e 2094 c.c. in relazione all’art. 115 c.p.c. ed all’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3, si articola in altri otto specifiche denunce di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, che si ravvisano: nei contratti di associazione in partecipazione prodotti nel corso del primo grado per ogni singola lavoratrice, nei caratteri distintivi dei singoli contratti prodotti ed allegati nei medesimi fascicoli di parte, dei singoli contratti non standardizzati ma stipulati ad personam per ogni singolo affare (appalto) stipulato dalla ALSOR srl; nelle singole rendicontazioni di cui alle 17 certificazioni dei compensi assoggettati a ritenuta, prodotti in primo grado; nel fatto che nell’esecuzione dei contratti di appalto ciascuna delle lavoratrici aveva autonomia decisionale cui corrispondeva una percentuale diversa di partecipazione agli utili; del fatto che nell’esecuzione dei contratti a fronte dell’apporto lavorativo ciascuna delle lavoratrici aveva diritto ad una anticipazione sugli utili di importo percentuale differenziato che ne importava la partecipazione al rischio d’impresa; della nota della Direzione provinciale del lavoro di Chieti del 21 giugno 2006 che aveva ritenuto validi i medesimi contratti oggetto di causa, vicenda conosciuta anche dal Ministero della Giustizia; infine, si denuncia l’omessa, carente e o insufficiente prova della simulazione dei predetti contratti di associazione in partecipazione, con l’omissione dell’esame delle modalità di esecuzione di ogni singolo rapporto;
il motivo, così come articolato, va trattata congiuntamente nelle sue articolazioni in quanto strettamente connesse e non può trovare accoglimento;
infatti, intanto, si evoca la violazione dell’art. 2697 c.c., che è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece ove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), come nella specie, laddove parte ricorrente critica l’apprezzamento operato concordemente dai giudici del merito circa la natura fittizia dei contratti di associazione in partecipazione che mascheravano l’attuazione del rapporto nelle forme tipiche della subordinazione, opponendo una diversa valutazione che non può essere svolta in questa sede di legittimità;
inoltre, come noto, le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno espresso in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella versione di testo applicabile al caso che ci occupa, introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modificazioni in L. n. 134 del 2012, i seguenti principi di diritto (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici): a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.p., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.p., comma 2, n. 4), il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso;
il motivo in esame risulta irrispettoso di tali enunciati, pretendendo una diversa valutazione delle risultanze processuali e non enucleando singoli fatti storici decisivi, traducendosi piuttosto in un diverso convincimento della parte soccombente rispetto a quello concordemente espresso in entrambi i gradi di merito nella valutazione del materiale probatorio;
il secondo motivo, denuncia la violazione e o falsa applicazione della L. n. 88 del 1989, art. 49 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, quanto alla nota del 24 gennaio 2012 pervenuta il 7 marzo 2012 ed avente ad oggetto l’attribuzione del numero di matricola e della classificazione ai fini previdenziali ed assistenziali che, ad avviso della ricorrente, sarebbe seguita ad una domanda presentata dalla stessa società ma che in realtà non vi era mai stata;
il motivo è inammissibile in quanto il vizio di violazione di legge della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 16700 del 2020) e nel caso di specie si adduce solo, in forma peraltro dubitativa, la errata valutazione di un fatto storico; si tratta, dunque, di un motivo formulato in modo da mescolare il vizio di violazione di legge con quello di motivazione, modalità non ammessa nel giudizio di legittimità dove è inammissible la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. 26874 del 2018);
nella stessa inammissibilità incorre il terzo motivo di gravame, nella parte in cui ancora denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2549 e 2094 c.c. in relazione all’art. 167 c.p.c., comma 1 e art. 416 c.p.c., comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1 nn. 3 e 5, posto che si deduce, in via gradata e subordinata, che si sarebbero dovute tenere distinte le posizioni di ogni singolo associato anche in ordine alla determinazione del complessivo quantum debeatur, non essendo stata provata la simulazione di tutti i rapporti di cui ai contratti prodotti già dal primo grado;
la censura, oltre a non incentrarsi su un fatto storico realmente decisivo, nel senso che, ove non ne fosse stato omesso l’esame, avrebbe condotto con prognosi di certezza e non di mera probabilità ad una diversa soluzione della controversia, non tiene conto che, nell’ambito delle controversie qualificatorie in cui occorre stabilire se certe prestazioni lavorative siano rese in regime di subordinazione oppure al di fuori del parametro normativo di cui all’art. 2094 c.c., la valutazione delle risultanze processuali che inducono il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nello schema contrattuale del lavoro subordinato o meno costituisce accertamento di fatto censurabile in Cassazione, secondo un pluridecennale insegnamento di questa Corte (tra molte, nel corso del tempo, v. Cass. n. 1598 del 1971; Cass. n. 3011 del 1985; Cass. n. 6469 del 1993; Cass. n. 2622 del 2004; Cass. n. 23455 del 2009; Cass. n. 9808 del 2011), solo per la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre è insindacabile, se sorretta da motivazione che nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. può essere sindacata negli angusti limiti segnati dalle richiamate Sezioni unite, la scelta degli elementi di fatto cui attribuire, da soli o in varia combinazione tra loro, rilevanza qualificatoria (cfr., più di recente, Cass. n. 11646 del 2018; Cass. n. 13202 del 2019; Cass. n. 31007 del 2019); il decisum della Corte territoriale non si fonda esclusivamente su tale elemento, ma su un complessivo accertamento di vari elementi che ha indotto il giudice del merito a ravvisare la subordinazione, la sentenza impugnata è conforme all’orientamento di questa Corte in ordine al contratto di associazione in partecipazione;
si è così avuto modo di statuire (Cass. n. 1692 del 2015) che “la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale”; si è, altresì, precisato (Cass. n. 1817 del 2013) che “in tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione da parte dell’associato, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (successiva conf. Cass. n, 4219 del 2018);
anche il quarto motivo, con il quale ci si duole della condanna alle spese di lite e si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in quanto si sarebbe dovuto disporre la compensazione delle spese in ragione del parziale accoglimento dell’opposizione con riferimento all’esito della pronuncia di primo grado che aveva disatteso la modalità (minimale giornaliero) di calcolo dei contributi proposta dall’INPS;
il motivo è del tutto eccentrico rispetto al contenuto della sentenza impugnata la quale non ha accolto parzialmente l’appello ma lo ha del tutto rigettato, con consequenziale applicazione della regola della soccombenza;
conclusivamente il ricorso va respinto; nulla va disposto per le spese non avendo l’INPS svolto attività difensiva.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 21 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021
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