Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.475 del 14/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12186-2019 proposto da:

A.V., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE DANIELE;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 25085/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 10/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA MARCHESE.

RILEVATO

CHE:

A.V. ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 391bis c.p.c. avverso la sentenza n. 25085 del 2018, con la quale la Corte di cassazione ha respinto il ricorso ordinario per cassazione proposto dalla medesima ricorrente nei confronti di Poste Italiane Spa;

dinanzi alla Corte di legittimità era stata impugnata la decisione della Corte di appello di Roma del 15.10.2013 che, in accoglimento dell’appello proposto da Poste avverso la decisione di primo grado, aveva rigettato la domanda di A.V. di accertamento del diritto all’assunzione presso Poste in virtù di intercorsi accordi;

la Corte di cassazione, a fondamento del decisum, ha posto, per un verso, il difetto di specificità delle censure relative all’interpretazione delle fonti collettive, come operata dai giudici di merito, e, per altro verso, l’infondatezza della deduzione di violazioni dell’art. 27 Cost., comma 2, e della L. n. 300 del 1970, art. 8;

al giudizio di revocazione, articolato in due motivi, resiste, con controricorso, Poste Italiane S.p.A.;

la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;

parte ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

CHE:

con un primo motivo, parte ricorrente assume, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, l’errore di fatto risultante dagli atti di causa; nello specifico, imputa alla sentenza della Corte di aver erroneamente dichiarato inammissibili il primo ed il terzo motivo del ricorso ordinario sull’errato presupposto del mancato assolvimento degli oneri “previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso);

assume la ricorrente che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte, il ricorso conteneva la puntuale indicazione dei documenti nell’elenco degli atti depositati e che, inoltre, gli stessi (id est: i documenti) risultavano trascritti e riprodotti nel ricorso per cassazione; in particolare, alle pagg. 5 e 6 del ricorso, era riportato il testo dell’art. 19 CCNL Poste mentre alla pag. 8 del ricorso ordinario era riportato l'”estratto integrale” del verbale di accordo richiamato;

con un secondo motivo, deduce l’erronea percezione di circostanza di fatto esistente; il riferimento è all’omessa valutazione della dedotta circostanza di svolgimento, da parte della lavoratrice, di mansioni di “addetta al servizio recapito”;

le censure, da esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili;

occorre premettere che, come è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di revocazione per errore di fatto, l’erronea percezione degli atti di causa (nella quale si sostanzia l’errore in parola) postula la esistenza di un contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti rispettivamente l’una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali (sempre che la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non anche di valutazione o di giudizio). Più specificamente, per quanto attiene alla revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione, la configurabilità di tale contrasto presuppone che la decisione appaia fondata sull’affermazione di esistenza o di inesistenza di un fatto che per converso la realtà effettiva (quale documentata in atti) induce, rispettivamente, ad escludere od affermare;

coerentemente, l’errore di fatto non è mai ravvisabile nell’ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento degli atti processuali, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (tra le molte, Cass. n. 6405 del 2018; Cass. n. 22171 del 2010; in motiv., Cass., sez. un., n. 8984 del 2018 con specifico riferimento al giudizio di ammissibilità dei motivi di ricorso, reso in relazione agli oneri di specificazione desumibili dal combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 6, soccorre, in particolare, il principio di questa Corte secondo cui va esclusa la possibilità di configurare “errore revocatorio nel giudizio espresso dalla sentenza di legittimità (…) sulla violazione del “principio di autosufficienza” in ordine a uno dei motivi di ricorso” (Cass. n. 14608 del 2007; conf. Cass. n. 9835 del 2012; Cass. n. 20635 del 2017) poichè “eventuali errori o incompletezze della menzionata attività di disamina (…) attengono solo alla valutazione ed al giudizio in ordine al contenuto del ricorso che non possono formare oggetto del rimedio straordinario della revocazione concesso solo per errori di fatto propriamente detti” (in motivazione, Cass. n. 14608 cit);

tanto è reso in modo evidente nella sentenza impugnata dove si afferma, in relazione ai motivi primo e terzo, l’inidoneità degli atti trascritti alla piena comprensione delle censure e, dunque, si esprime un giudizio sulla compiutezza espositiva dei mezzi di impugnazione (v. pag. 3 sentenza n. 25085 del 2018: “nel caso in esame (..) si accompagna una mancata idonea riproduzione in ricorso della parte di (…) atti, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure”);

in conclusione, la ricorrente cerca di provocare un riesame del pregresso giudizio di legittimità denunciando non un errore nella percezione di fatti ma un errore di valutazione in ordine al contenuto dei motivi di ricorso, estraneo alla logica del rimedio azionato;

le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;

va dato, altresì, atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

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