LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2968/2019 R.G. proposto da:
P.A., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Rosario Campione e Massimo Ingarao;
– ricorrente –
contro
C.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Giovanni Garretto, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Alessandro Vivenza, n. 41;
– ricorrente incidentale –
e nei confronti di:
L.M., R.L., R.D. e R.G., rappresentati e difesi dall’Avv. Andrea Cosimo Fassari;
– controricorrenti –
nonchè di:
D.S.F.;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania, n. 118/2016, depositata il 17 novembre 2018;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 novembre 2020 dal Consigliere Emilio Iannello.
RILEVATO IN FATTO
1.Con sentenza del 28/1/2015 il Tribunale di Catania condannò P.A., D.S.F. e C.L. al pagamento, in favore degli odierni contro ricorrenti, della somma di Euro 300.000 ciascuno a titolo di risarcimento del danno subito in conseguenza del decesso di R.S., rispettivamente coniuge e padre, a causa di infortunio sul lavoro.
Rilevò infatti che:
– con sentenza n. 1377/2005, passata in giudicato, la Corte d’appello di Catania, sezione penale, aveva riconosciuto i predetti colpevoli del reato di omicidio colposo per la mancata osservanza delle norme antinfortunistiche sul lavoro, condannandoli a risarcire la parte civile e concedendo una provvisionale di Euro 75.000;
– per il vincolo di giudicato derivante dalla sentenza, nel processo civile di danno, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., nessun ulteriore accertamento si richiedeva in ordine alla sussistenza del fatto, dovendosi provvedere esclusivamente alla quantificazione del risarcimento;
– nessuna preclusione istruttoria poteva derivare dalla tardiva produzione in giudizio della citata sentenza penale.
2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catania ha confermato tale decisione, respingendo, per quanto ancora interessa in questa sede:
a) il motivo di gravame con il quale tutti e tre i soccombenti avevano eccepito che il giudicato esterno non poteva essere rilevato poichè riferito a sentenza penale non prodotta nei termini di rito;
b) il primo motivo dell’appello incidentale del C., con il quale questi aveva reiterato la preliminare eccezione d’inammissibilità dell’azione proposta nei suoi confronti, per essere stato anteriormente dichiarato fallito.
Ha infatti rilevato:
– quanto al primo, che “il rilievo dell’esistenza di un giudicato esterno non è subordinato ad una tempestiva allegazione dei fatti costitutivi dello stesso, i quali non subiscono i limiti di utilizzabilità rappresentati dalle (eventualmente) intervenute decadenze istruttorie e la stessa loro allegazione può essere effettuata in ogni stato e fase del giudizio di merito”;
– quanto al secondo, che correttamente il primo giudice aveva ritenuto ammissibile l’azione proposta nei confronti del fallito, avendo gli attori dichiarato di avvalersi di un’eventuale condanna solo in esito al suo ritorno in bonis.
3. Avverso tale sentenza P.A. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resistono L.M., R.L., D. e G., depositando controricorso.
C.L. propone a sua volta ricorso incidentale sulla base di tre motivi.
L’altro intimato, D.S.F., non svolge difese nella presente sede.
4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
Il ricorrente incidentale, C.L., e i controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo di ricorso P.A. deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 651 c.p.p., dell’art. 2909 c.c., dell’art. 324 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., dell’art. 184 c.p.c. (nel testo ante riforma L. n. 80 del 2005), dell’art. 153 c.p.c., dell’art. 372 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.
Afferma che “ha errato la Corte di appello a non rilevare l’inammissibilità del giudicato esterno penale… poichè prodotto dagli odierni resistenti nel corso del giudizio di primo grado, quando erano già maturate le decadenze e preclusioni istruttorie”. Ciò in quanto – sostiene – nella fattispecie in esame non sussisteva alcun ipotetico contrasto di giudicati tale da legittimare l’acquisizione ex officio della sentenza penale, vertendo questa su fattispecie che, sebbene correlata, aveva natura e oggetto sostanzialmente diversi. Per tale ragione – afferma – al potere dispositivo previsto dall’art. 2697 c.c. non poteva sovrapporsi il potere d’ufficio del giudice.
Rileva che, come affermato da Cass. 26/09/2017, n. 22376, “il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della regula iuris alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, mentre la sua astratta rilevanza può ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità”.
Sostiene che lo stesso principio deve valere nella fattispecie in esame, nella quale il giudicato esterno è invocato, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., in relazione alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità e alla responsabilità del condannato.
Conclude quindi che, non essendo utilizzabile la sentenza della Corte di appello penale di Catania, non sussisteva in attì alcuna prova in ordine alla presunta responsabilità civile, per cui la sua affermazione da parte del giudice a quo deve ritenersi resa in violazione dell’art. 2697 c.c..
2. Con il secondo motivo (dichiaratamente connesso al primo) il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 184 c.p.c. (ante riforma L. n. 80 del 2005) e art. 153 c.p.c. e dell’art. 175 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4; violazione e falsa applicazione del principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per avere la Corte d’appello ritenuto irrilevante che la sentenza penale, richiamata a fondamento della decisione, fosse stata prodotta dagli attori quando erano ormai maturate le decadenze istruttorie.
3. Con il primo motivo del ricorso incidentale C.L. deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 24,52 e 93 L. Fall. per avere la Corte d’appello ritenuto ammissibile la domanda proposta, benchè già dichiarato fallito.
Sostiene, in sintesi, che, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, l’intenzione dichiarata dagli attori di volersi avvalere dell’eventuale condanna solo in caso di ritorno in bonis del fallito, se può valere a consentire la prosecuzione del giudizio proposto anteriormente alla dichiarazione di fallimento, altrettanto non può fare nel caso, quale quello di specie, in cui il fallimento sia dichiarato anteriormente alla instaurazione del giudizio, in tal caso risultando palese altrimenti la violazione del principio di obbligatorietà del rito dell’accertamento del passivo oltre che del diritto alla difesa e al contraddittorio, non avendo il fallito alcuna legittimazione passiva.
4. Con il secondo motivo il ricorrente incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, “violazione e falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c.; nullità della sentenza o del procedimento per lesione del diritto di difesa” per avere la Corte d’appello ritenuto procedibile l’azione proposta nei confronti del fallito, privo di legittimazione passiva, assimilando fattispecie diverse quali, da un lato, la “perseguibilità di un giudizio ove il soggetto è stato regolarmente citato” e, dall’altro, la “improcedibilità dell’azione ove il soggetto non sia stato regolarmente citato”.
5. Con il terzo motivo la ricorrente incidentale denuncia infine “violazione e falsa applicazione dell’art. 651 c.p.p., dell’art. 2697 c.c., dell’art. 184 cod. proc. civ. (ante riforma)” per avere la Corte d’appello ritenuto utilizzabile, ai fini dell’accertamento della responsabilità della condanna di esso ricorrente, la sentenza penale resa in separato giudizio benchè prodotta oltre i termini di cui all’art. 184 c.p.c.: ciò sul presupposto che i fatti costitutivi del giudicato esterno non subiscono i limiti dati dalle decadenze istruttorie.
Sostiene che l’acquisizione di tale sentenza avrebbe potuto giustificarsi solo se tra le cause in questione ci fosse identità di parti, di petitum e di causa petendi: presupposto secondo la ricorrente non sussistente avendo una causa per oggetto il risarcimento del danno, l’altra l’accertamento della responsabilità penale a seguito di incidente mortale sul lavoro.
6. I due motivi del ricorso principale e il terzo motivo di quello incidentale, congiuntamente esaminabili poichè sostanzialmente sovrapponibili, sono infondati.
La Corte d’appello ha infatti deciso, sul punto, conformemente al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’eccezione di giudicato, in relazione al suo rilievo pubblicistico, come tale non limitato all’interesse delle parti e sottratto pertanto al loro potere dispositivo, non solo “non è soggetta a preclusioni per quanto riguarda la sua allegazione in sede di merito” (Cass. 04/11/2015, n. 22506; 17/12/2015, n. 25401; 19/10/2016, n. 21170), ma prescinde da qualsiasi volontà della parte di avvalersene” (Cass. Sez. U n. 206 del 2001, cit., in motivazione, pag. 16, p. 6.2; in senso conforme v. Cass. n. 9050 del 2001; n. 10977 del 2001; n. 5689 del 2003; n. 1416 del 2004).
Il rilievo secondo cui tale principio non può trovare applicazione nel caso in cui il giudicato esterno venga invocato unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti (poichè in tal caso il giudicato non riguarda la regula iuris alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, ma solo l’accertamento del fatto materiale) non è pertinente nel caso di specie.
Tale limite, infatti, è affermato dal richiamato arresto di Cass. n. 22376 del 2017 con riferimento alla deducibilità, per la prima volta in cassazione, di quel tipo di giudicato (relativo all’accertamento dei fatti, non alla enunciazione della regola di giudizio) e ciò per la natura di quel giudizio, per sua natura sottratto a valutazioni di stretto merito; per converso, però, non ha ragione di essere invocato anche rispetto ai tempi e modi di rilevabilità del giudicato nel giudizio di merito, che all’accertamento del fatto è, invece, funzionalmente deputato.
Non può, pertanto, da quel limite, ricavarsi anche la preclusione alla rilevabilità officiosa del giudicato, ancorchè relativo a meri segmenti della fattispecie che si tratta di valutare e qualificare sul piano giuridico nel giudizio civile di danno, ove tale rilevazione officiosa sia operata sulla base di allegazioni o documenti non tempestivamente prodotti nel rispetto delle previste scansioni processuali.
Anche per tal genere di giudicato, invero, resta pur sempre il rilievo pubblicistico (“non limitato all’interesse delle parti e sottratto pertanto al loro potere dispositivo”) che giustifica la necessità di darne spazio, anche ex officio, nel separato giudizio, indipendentemente dal rispetto dei termini di allegazione e prova e addirittura anche a prescindere dall’eventuale inerzia delle parti, purchè sempre risultante ex actis e sempre che si tratti di giudizio nel quale la questione coperta da giudicato possa essere dedotta (se, dunque, questione di fatto, sempre che si tratti di giudizio di merito).
Ciò in relazione al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame della stessa questione, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (tra le altre, Cass. Sez. U. 16/06/2006, n. 13916; Cass. 12/04/2010, n. 8650; 09/12/2016, n. 25269).
7. Il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale sono parimenti infondati.
Anche sul punto la Corte d’appello ha deciso in conformità a costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità secondo la quale la competenza del tribunale fallimentare sulle domande dirette all’accertamento di crediti nei confronti del fallito può trovare deroga quando sia stata chiaramente ed inequivocabilmente espressa l’intenzione del creditore di perseguire il fallito solo al suo rientro in bonis e, quindi, di non avanzare richiesta di sorta nei confronti del fallimento (Cass. 05/08/2011, n. 17035; 05/03/1990, n. 1729; 26/05/1987, n. 4709; 30/05/1967, n. 1210).
Non trova fondamento nelle testuali esplicazioni di tale principio, nè ha comunque giustificazione logica e giuridica, la tesi secondo cui tale deroga potrebbe affermarsi solo in ipotesi di fallimento dichiarato in pendenza di domanda già ritualmente introdotta nei confronti del debitore in bonis.
Il principio, dettato dall’art. 52 citato, della obbligatorietà ed esclusività del procedimento di verifica del passivo è teso a garantire e realizzare le regole del concorso della massa dei creditori nel soddisfacimento dei loro diritti sui beni del fallito e presuppone, pertanto, una domanda diretta a partecipare a tale concorso ovvero a far valere tali pretese verso il fallimento; per converso, tale principio non viene in rilievo – e se ne giustifica pertanto la deroga – nei casi in cui la domanda è dichiaratamente intesa a far valere il credito non già nei confronti del fallimento ma solo nei confronti del fallito una volta tornato in bonis.
Se tale è la ragione di detta deroga appare evidente che la stessa non è in alcun modo influenzata dal fatto che il fallimento sia intervenuto anteriormente alla proposizione della domanda o in pendenza del relativo giudizio, in entrambi i casi quella precisazione escludendo che la domanda possa in alcun modo coinvolgere gli interessi dei creditori concorsuali.
Non si traggono indicazioni difformi dal precedente, evocato in memoria dal ricorrente incidentale, di Cass. n. 24156 del 2018, ivi vertendosi in un’ipotesi in cui la domanda diretta all’accertamento del credito era stata rivolta nei confronti del fallito senza alcuna manifestazione della volontà di perseguire quest’ultimo solo al suo rientro in bonis; il discrimine cronologico (tra fallimento dichiarato prima della proposizione della domanda e fallimento dichiarato dopo) rileva, nel dictum della S.C., solo ai fini del diverso contenuto della pronuncia su quella domanda: inammissibilità nel primo caso; improcedibilità nel secondo.
6. Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, alla rifusione, in favore dei controricorrenti delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
PQM
rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 12 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2021