LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24575-2018 proposto da:
D.P.M., domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTO CORSELLO giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
e contro
D.P.A., M.A., M.P., M.C., D.P.S.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 730/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 30/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE La ricorrente conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Termini Imerese il padre D.P.G. ed i fratelli D.P.A., R. e D.P.S., lamentando che con testamento olografo del ***** la madre, D.B.A., deceduta in data ***** aveva disposto della maggior parte dei suoi beni ma che tale atto era affetto da difetto di autografia o comunque annullabile in quanto redatto dalla madre allorchè era incapace di intendere e di volere.
In subordine, lamentava che per effetto delle ultime volontà della madre era stata lesa la sua quota di legittima, della quale chiedeva la reintegra, avuto riguardo all’effettiva consistenza dell’asse relitto, composto altresì di cospicui e non quantificabili depositi bancari e di gioielli di rilevante valore, nonchè di alcuni beni immobili che sebbene non riportati in testamento, erano stati indicati nella denuncia di successione.
Mentre le sorelle resistevano alla domanda attorea, il fratello D.P.S. dichiarava successivamente di aderire alla richiesta di reintegra della legittima (dalla sentenza impugnata si ricava che D.P.S. aveva a sua volta proposto autonoma domanda dinanzi allo stesso Tribunale lamentando la lesione della quota di legittima, giudizio riunito a quello introdotto dalla ricorrente).
Con sentenza non definitiva del 23/2/2009 era rigettata la domanda di impugnativa del testamento, mentre, con la successiva sentenza definitiva del 18/3/2013 n. 139, il Tribunale rigettava anche la domanda di lesione della legittima, dichiarando altresì improponibile la domanda di scioglimento della comunione.
A seguito di appello promosso avverso entrambe le sentenze, la Corte d’Appello di Palermo con la sentenza n. 730 del 30 marzo 2018 ha rigettato l’appello principale di D.P.M. ed in parziale accoglimento dell’appello incidentale di D.P.A., M.A., M.C. e M.P., quali eredi di D.P.R., condannava l’attrice al rimborso delle spese del doppio grado di giudizio.
Per quanto ancora rileva in questa sede, dopo avere rilevato che la contestazione circa l’autenticità del testamento onerava la parte che lo impugnava del fornire la prova del difetto di olografia (Cass. S.U. n. 12307/2015) che però non era stata offerta, escludeva altresì che la scheda testamentaria rivelasse l’incapacità della testatrice, nemmeno essendo stata adeguatamente prospettata una patologia della quale era affetta la de cuius all’epoca del testamento, tale da menomarne la capacità psichica.
Quanto al rigetto della domanda di riduzione, la sentenza d’appello rilevava che andava condiviso il giudizio del Tribunale circa il fatto che non fosse stata offerta prova dell’esistenza dei depositi bancari e dei gioielli ancora in capo alla de cuius al momento della morte, nonchè che non fossero stati prodotti i titoli di acquisto dei beni immobili.
Infatti, poichè la domanda di riduzione coinvolge in potenza anche i titolari dei beni che si dicono oggetto di attribuzione patrimoniale, è necessario il formale accertamento dell’ultima vicenda traslativa dei beni stessi precedente l’apertura della successione, onde verificare che non siano coinvolti soggetti diversi da quelli indicati dal legittimario.
Nè appariva rilevante la mancata contestazione da parte dei convenuti, la quale investe solo i fatti storici e non gli effetti che discendono da tali fatti.
Nè, infine, appariva risolutiva la tesi dell’appellante secondo cui la carenza di prova circa l’esistenza di altri beni avrebbe potuto riverberarsi sulla valutazione di fondatezza della domanda, atteso che nella fattispecie era destinata a trovare applicazione la norma di cui all’art. 553 c.c., che, anche in caso di concorso di eredi legittimi nonchè legittimari (Cass. n. 1521/1980) impone di rimodulare la partecipazione degli eredi ai beni caduti in successione legittima, ancorchè solo in parte.
Ne scaturiva quindi che la mancata dimostrazione ed indicazione dei beni destinati ad incrementare il relictum impediva di poter ritenere soddisfatto l’onere posto a carico del legittimario di documentare in che misura ed in che modo risultasse lesa la quota di riserva di sua spettanza.
Per la cassazione di tale sentenza D.P.M. propone ricorso articolato in due motivi.
Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.
Con il primo motivo di ricorso si denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si rileva che la prova dell’esistenza della lesione emergeva dalle indagini esperite dal CTU nominato in primo grado, che aveva riscontrato l’entità della differenza di valore tra i beni attribuiti alla ricorrente e quelli che invece le spettavano ex lege.
Il motivo è inammissibile attesa l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 348 ter c.p.c., u.c..
La sentenza d’appello risulta infatti essere stata adottata all’esito di un giudizio di appello introdotto in data successiva all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, sicchè alla luce della disciplina intertemporale di cui alla medesima L., art. 54, comma 1, lett. a), il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel caso in cui sia dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avverso sentenza d’appello che abbia confermato la decisione di primo grado, peraltro fondando le proprie ragioni sulle medesime questioni di fatto che già avevano indotto il Tribunale al rigetto della domanda de qua.
Con il secondo motivo si denunzia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: la nullità della sentenza impugnata e del procedimento di appello (error in procedendo) per la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., e art. 111 Cost..
Si sostiene che la sentenza impugnata non conterrebbe un nucleo motivazionale minimo che consenta di verificare la correttezza logico giuridica della decisione, dovendosi quindi reputare che ricorra una vera e propria ipotesi di carenza di motivazione.
Anche tale motivo deve essere disatteso in quanto inammissibile.
Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dalla L. n. 134 del 2012, il vizio denunciabile è limitato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti, essendo stata così sostituita la precedente formulazione (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio). La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. S.U. 8053/2014). Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi dell’art. 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c.).
Nella fattispecie deve escludersi che ricorra un’anomalia nel ragionamento della Corte distrettuale tale da condurre ad una valutazione di abnormità e quindi di sostanziale assenza della motivazione.
I giudici, con adeguata e sufficiente motivazione, hanno concluso nel senso che l’attrice non avesse fornito adeguata prova dell’esistenza e della titolarità in capo alla de cuius di beni ulteriori rispetto a quelli pacificamente ritenuti appartenere all’asse relitto, osservando le ragioni per le quali tale prova era necessaria, ed insuscettibile di esser superata per effetto della non contestazione da parte dei convenuti.
Infine, è stato rilevato come, in ragione dell’operare del meccanismo di rideterminazione delle quote ab intestato di cui all’art. 553 c.c., la mancata individuazione di altri beni relitti assumeva in ogni caso carattere decisivo anche al fine della divisione ereditaria di quanto caduto in successione ab intestato, non avendo quindi parte ricorrente soddisfatto gli oneri di allegazione e prova incombenti su chi agisce in riduzione.
La logicità e completezza del ragionamento, immune da perplessità ed intrinseca inconciliabilità nè tacciabile di poter essere reputato incomprensibile, denota quindi l’inammissibilità del vizio denunciato in motivo.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Nulla a disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Dichiara il ricorso inammissibile;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021