Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.510 del 14/01/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27768-2018 proposto da:

COMUNE L’AQUILA, domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO DE NARDIS giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

STABILIMENTO LINOTIPOGRAFICO GRAN SASSO SNC IN LIQUIDAZIONE, R.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 107/2018 del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositata il 15/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Nel 2012, lo Stabilimento Linotipografico Gran Sasso s.n.c. notificava al Comune dell’Aquila il decreto ingiuntivo n. 1621/12, che si fondava sulle fatture nn. ***** e ***** del 2002, che, proprio perchè emesse nei confronti dell’Istituzione Perdonanza Celestiniana, erano state oggetto di un precedente decreto ingiuntivo, che a seguito dell’opposizione era stato revocato dal Giudice di Pace dell’Aquila, con la sentenza n. 255/05, con la quale dichiarava il difetto di legittimazione passiva del Comune, essendo un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio.

Lo Stabilimento ingiungeva per la seconda volta il pagamento al Comune, asserendo che però vi fosse stata una ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. proveniente dal Dott. R.M. (chiamato in causa), al tempo dirigente del Comune dell’Aquila, in virtù di una missiva del 22/03/2007 contenente una proposta transattiva di pagamento della somma di Euro 1.401,00 (a fronte del preteso credito dello Stabilimento di Euro 2.400,00).

Il Giudice di Pace dell’Aquila, con la sentenza n. 1796/2013, revocava il decreto, ma accoglieva parzialmente la domanda dello Stabilimento, ritenendo che la missiva inviata dal Dott. R. integrasse un accordo transattivo con valenza di riconoscimento di debito fuori bilancio del Comune nei confronti dello Stabilimento. Il Giudice fondava il proprio convincimento anche sulla Delib. della Giunta Comunale n. 571 del 2005. Pertanto, condannava il Comune al pagamento nei confronti dello Stabilimento della minore somma di Euro 1.401,00, così come riconosciuta dal R., oltre spese di lite.

Il Comune dell’Aquila proponeva appello avverso tale sentenza, lamentandone l’erroneità in quanto basata sul presunto accertamento del debito fuori bilancio effettuato dal R., senza considerare che la disciplina prevista dal D.Lgs. n. 276 del 2000 riserva al Consiglio Comunale la competenza a riconoscere debiti fuori bilancio dell’Ente Locale, di tal che un dirigente comunale non avrebbe avuto il potere di far sorgere obblighi vincolanti per l’ente.

La missiva del 22/03/2007, secondo l’appellante, nemmeno poteva essere imputata giuridicamente al Comune dell’Aquila, non risultando sottoscritta nè dal capo dell’amministrazione nè da altro soggetto idoneo e capace di assumere obbligazioni per l’ente, non contenendo alcuna menzione della fonte del potere negoziale.

Dal punto di vista del contenuto, con siffatta missiva il Dott. R. si limitava a richiedere la documentazione probante le ragioni di credito dello Stabilimento nei confronti dell’Istituzione Perdonanza a fronte dei ripetuti solleciti di pagamento, senza effettuare alcuna ricognizione di debito. E ciò sarebbe ulteriormente confermato dalla sentenza n. 255/05 del Giudice di Pace dell’Aquila, che aveva escluso, con efficacia di giudicato, la riferibilità delle forniture oggetto della controversia al Comune quale ente responsabile per le obbligazioni contratte dalla Perdonanza. Infatti, trattandosi di debito di un terzo, il Comune avrebbe potuto accollarsi il debito solo ponendo in essere una donazione, della quale però sarebbero mancati i requisiti di forma.

L’appellante negava che alla missiva potesse essere attribuito sia valore di confessione – inefficace se non proveniente da persona capace di disporre del diritto – sia valore di ricognizione di debito (posto che la giurisprudenza richiede ai fini dell’applicabilità dell’art. 1988 c.c. nei confronti di una PA l’osservanza dei requisiti formali e procedimentali per l’attività negoziale degli Enti Pubblici, tra i quali la forma scritta ad substantiam, da cui discende l’impossibilità di utilizzare la confessione o il riconoscimento a fini probatori); sia valore di transazione, in assenza dell’autorizzazione della Giunta Comunale, necessaria ex art. 32 dello Statuto Comunale, argomentando che la delib. n. 571 del 2005 richiamata dal Giudice di Pace fosse una generica autorizzazione a liquidare gli importi dovuti, all’esito dell’istruttoria e della verifica delle condizioni giuridiche per il riconoscimento del debito fuori bilancio.

Infine, il Comune asseriva che la missiva non avrebbe potuto integrare nemmeno un’autonoma fonte di obbligazione, attesa l’assenza del relativo impegno contabile, che configura una violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, con conseguente imputabilità del rapporto obbligatorio alla persona fisica responsabile del suo sorgere, e con esclusione di qualsiasi riferibilità alla PA.

Si costituiva lo Stabilimento Linotipografico Gran Sasso s.n.c. eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c.. Quindi, chiedeva la conferma della sentenza impugnata, sostenendo, in primo luogo, che il Comune fosse subentrato nelle obbligazioni che l’Istituzione Perdonanza aveva nei confronti di collaboratori e fornitori di beni e servizi; in secondo luogo, che la Giunta Comunale avesse conferito al Dott. R. mandato per proporre soluzioni transattive con i creditori.

Si costituiva anche il R., che eccepiva l’intervenuta prescrizione del credito azionato dallo Stabilimento nei suoi confronti, in assenza di atti interruttivi di messa in mora.

Il Tribunale dell’Aquila, con la sentenza n. 107/18 del 15 febbraio 2018, non notificata, pur ritenendo ammissibile l’appello ex art. 342 c.p.c., lo rigettava nel merito e condannava il Comune alla refusione delle spese di lite.

Confermava la decisione del Giudice di Pace dal momento che risultava incontestabile che il Comune avesse accertato, per mezzo del R., l’esistenza di un debito fuori bilancio nei confronti dello Stabilimento e offerto, in via transattiva, il pagamento di una minor somma.

Nell’accordo transattivo del 22/03/2007, infatti, veniva espressamente previsto che l’amministrazione comunale subentrasse nelle obbligazioni che l’Istituzione Perdonanza aveva contratto nei confronti di collaboratori e fornitori di beni e servizi, e lo Stabilimento era stato riconosciuto come uno dei creditori. Nello stesso documento si dava atto che la Giunta Comunale avesse assunto gli impegni dell’Istituzione Perdonanza dando mandato a due rappresentanti, tra cui il R., di proporre ai beneficiari delle soluzioni transattive (delib. n. 527 del 2006).

Il Comune dell’Aquila ricorre per la cassazione della suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

Gli intimati non hanno svolto difese nel presente giudizio.

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, degli artt. 1350 e 1367 c.c. e del R.D. n. 2440 del 1923, art. 16, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’accollo da parte del Comune di un debito gravante su un terzo avrebbe richiesto, ai sensi dell’art. 1273 c.c., la sottoscrizione di un apposito contratto redatto in forma scritta ad substantiam, ex art. 1350 c.c. e R.D. n. 2440 del 1923, art. 16. Un tale contratto nel caso di specie sarebbe mancante, integrando la missiva su cui si fonda la decisione del giudice di merito, al più una proposta contrattuale che non è fonte di obbligazione. Ciò sarebbe confermato dall’assenza di qualunque impegno di spesa destinato a fronteggiare l’onere delle prestazioni che deriverebbero dall’accordo negoziale, carenza che in ogni caso comporta la nullità ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 191. In assenza degli adempimenti contabili previsti dalla norma, il rapporto obbligatorio vede quindi come parte il funzionario/dipendente amministrativo che ha dato luogo al nascere del vincolo, e non l’ente pubblico.

In secondo luogo, è erronea la sentenza nella parte in cui si fonda su un riconoscimento di debito, nonostante che la missiva non contenesse alcuna promessa di pagamento nè ricognizione di debito preesistente, ma si limitasse a prendere in carico una richiesta di pagamento, sulla quale compiere accertamenti, senza attribuire rilievo al mancato rispetto dei requisiti formali e procedimentali prescritti per l’attività negoziale degli enti pubblici, e all’assenza di poteri di rappresentanza in capo al R., così come della disponibilità del diritto.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricognizione di debiti fuori bilancio compete ex lege al Consiglio Comunale ed esula dalla sfera di competenza della Giunta Comunale, del sindaco o di qualsiasi dirigente. In ogni caso, il riconoscimento mediante apposita deliberazione consiliare non può mai costituire fonte di obbligazione per l’ente Locale, trattandosi di un atto meramente interno, avente al più il connotato dell’autorizzazione, rivolta agli organi gestori dell’ente, a svolgere gli atti ulteriori dai quali potrebbe insorgere l’obbligazione.

I due motivi, che per la loro connessione possono essere trattati congiuntamente, sono entrambi fondati.

La delibera comunale con la quale in sede di riconoscimento di debito fuori bilancio il comune destina una somma al pagamento del corrispettivo dell’opera eseguita, in assenza di un valido contratto fonte di obbligazione, non può configurarsi come ricognizione di debito, ma può eventualmente costituire riconoscimento implicito dell’utilità dell’opera ai fini dell’azione di indebito arricchimento (cfr. Cass. sez. 1, sentenza n. 26826 del 14/12/2006; Cass., sez. 3, sentenza n. 10199 del 03/08/2000; Cass., sez. U, sentenza n. 101 del 13/01/1989).

La disciplina dettata dall’art. 1988 c.c. (secondo cui la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, la quale si presume fino a prova contraria) è applicabile anche agli atti della pubblica amministrazione, nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l’efficacia (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 8643 del 29/05/2003; Cass., sez. 2, sentenza n. 1188 del 25/02/1982). La ricognizione di debito, tuttavia, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto l’effetto confermativo di un preesistente rapporto obbligatorio, comportando una relevatio ab onere probandi che dispensa colui a cui favore è fatta dall’onere di fornire la prova del rapporto fondamentale che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della ricognizione di debito, ove venga giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto o è invalido e si è estinto (cfr. Cass., sez. 1, sentenza n. 11021 del 25/05/2005).

La delibera comunale è quindi un mero atto interno, avente come destinatario il diverso organo dell’ente legittimato a esprimerne la volontà all’esterno e carattere meramente autorizzatorio; quand’anche venga indirizzata, quale proposta, a un terzo professionista che la accetti, espressamente o tacitamente, comunque non sarebbe idonea a far sorgere un valido rapporto contrattuale, dal momento che, non solo la volontà dell’ente non risulterebbe validamente manifestata, non provenendo dall’organo attributario del relativo potere, ma l’incontro del comune consenso non risulterebbe formalizzato nei modi prescritti dalla legge.

Il riconoscimento di debito fuori bilancio presuppone poi il reperimento dei fondi necessari per il pagamento di un’obbligazione giuridicamente perfezionata, ma per la quale non esista un impegno di spesa. Deve escludersi che possa costituire fattispecie idonea a produrre i medesimi effetti negoziali riconducibili alla fattispecie costituita dalla delibera di conferimento dell’incarico, dalla stipulazione del contratto di incarico professionale in forma scritta con il privato e dal relativo impegno contabile – adempimenti necessari perchè l’ente locale sia giuridicamente vincolato al pagamento del compenso del professionista per l’opera professionale da lui prestata (cfr. Cass., sez. 1, sentenza n. 7966 del 27/03/2008; Cass., sez. 1, sentenza n. 6675 del 08/07/1998).

In altri termini, il riconoscimento di debiti fuori bilancio non innova la disciplina che regolamenta la conclusione di contratti da parte della PA, nè introduce una sanatoria per i contratti eventualmente nulli o comunque invalidi, come quelli conclusi senza la forma scritta prescritta ad substantiam (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 9412 del 27/04/2011).

Una volta esclusa la rilevanza di ricognizione di debito della delibera comunale in assenza di un valido contratto a monte che instaurasse un vincolo giuridico nella sfera giuridica dell’ente locale, è necessario valutare se è rinvenibile nella missiva inviata dal Dr. R. un atto idoneo in tal senso.

Nel caso di specie ciò non è ravvisabile, dovendo escludersi che il Comune abbia validamente assunto l’obbligo di pagamento nei confronti dello Stabilimento.

In tal senso va ricordato che, come accertato anche dal Giudice di Pace dell’Aquila, con la sentenza n. 255/05, le fatture erano state emesse nei confronti di un soggetto diverso, l’Istituzione Perdonanza Celestiniana.

Trattandosi di un rapporto rispetto al quale il Comune era estraneo, era necessario un atto con il quale quest’ultimo si assumesse il vincolo giuridico, modificando la titolarità soggettiva del rapporto, con la necessaria accettazione del creditore, trattandosi di modificazione dal lato passivo dell’obbligazione.

In questa ipotesi, vale il principio per cui la forma scritta ad substantiam richiesta per la stipula del contratto con gli enti pubblici deve essere adottata anche con riferimento alle eventuali, successive modificazioni che le parti intendano apportare al contratto stipulato in precedenza. Nel caso di specie è maggiormente sentita questa esigenza pubblicistica, dal momento che la PA si assumerebbe un obbligo di un terzo, cosicchè in assenza di un contratto che rivesta la forma dei contratti degli enti pubblici, nessun affidamento potrebbe trarre il terzo creditore da trattative o scambi di corrispondenza, che rimangono a livello di atti preparatori interni, cui egli è estraneo; nè una volontà in tal senso si potrebbe desumere per fatti concludenti (cfr. Cass., sez. 1, sentenza n. 6807 del 21/03/2007; Cass., sez. 3, sentenza n. 8621 del 12/04/2006). Questo significa che, affinchè il Comune dell’Aquila potesse essere considerato obbligato al pagamento, era necessario individuare un contratto, munito di forma scritta a pena di nullità, con il l’ente locale si assumeva l’obbligo del pagamento dei debiti dell’Istituzione Perdonanza Celestiniana.

Nella sentenza dei giudici di merito si vorrebbe individuare una siffatta volontà delibera comunale e nella missiva del Dott. R., ma senza che però a tale dichiarazione di intenti sia stata fatta seguire da un atto effettivamente idoneo a produrre effetti giuridicamente vincolanti. E, infatti, oltre a doversi richiamare l’efficacia meramente interna della delibera, quanto al valore della missiva, si ritiene che questa, atteso il suo univoco tenore letterale, presenti il carattere di una mera proposta contrattuale che richiedeva l’accettazione formale del professionista, ed in vista della conclusione, nelle forme prescritte dalla legge e con l’impegno da parte di chi effettivamente era in grado di impegnare all’esterno l’ente locale, di una futura transazione.

Costante è la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, ai fini della conclusione di un contratto d’opera professionale che, quando ne sia parte la P.A., anche se questa agisca iure privatorum, richiede la forma scritta ad substantiam – è irrilevante l’esistenza di una deliberazione dell’organo collegiale di un ente pubblico (nella specie, Comune) che abbia autorizzato il conferimento dell’incarico al professionista, ove tale deliberazione non risulti essersi tradotta in atto contrattuale, sottoscritto dal rappresentante esterno dell’ente stesso e dal professionista. Detta deliberazione, infatti, non costituisce una proposta contrattuale nei confronti del professionista, ma un atto con efficacia interna all’ente pubblico, avente per destinatario il diverso organo dell’ente legittimato ad esprimere la volontà all’esterno e carattere meramente autorizzatorio (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 4635 del 02/03/2006; Cass., sez. 2, sentenza n. 15488 del 06/12/2001).

Il contratto in questione deve rivestire la forma scritta ad substantiam e deve tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un apposito documento, recante la sottoscrizione del professionista e del titolare dell’organo attributario del potere di rappresentare l’ente interessato nei confronti dei terzi, nonchè l’indicazione dell’oggetto della prestazione e l’entità del compenso, essendone preclusa, altresì, la conclusione tramite corrispondenza, giacchè la pattuizione deve essere versata in un atto contestuale, pur se non sottoscritto contemporaneamente. Il contratto mancante della forma scritta non è suscettibile di sanatoria poichè gli atti negoziali della P.A. constano di manifestazioni formali di volontà, non surrogabili con comportamenti concludenti, nè, a tal fine, è sufficiente che il professionista accetti, espressamente o tacitamente, la delibera a contrarre, atteso che questa, benchè sottoscritta dall’organo rappresentativo medesimo, resta un atto interno che l’ente può revocare ad nutum (cfr. Cass., sez. 2, ordinanza n. 27910 del 31/10/2018).

Inoltre, il contratto di prestazione d’opera professionale, stipulato da un ente locale col professionista, è nullo sia quando la delibera di conferimento dell’incarico non è accompagnata dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria, sia quando è priva della forma scritta. Di tali due ipotesi di nullità, solo la prima può essere sanata attraverso la ricognizione postuma di debito da parte dell’ente locale, ai sensi del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, art. 24 (convertito, con modificazioni, nella L. 24 aprile 1989, n. 144), poi seguito dal D.Lgs. n. 267 del 2000 (artt. 191 e 194). La suddetta dichiarazione, per contro, non rileva e non può avere alcuna efficacia sanante ove il contratto stipulato dalla P.A. sia privo della forma scritta (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 27406 del 18/11/2008). Nel caso di specie, non solo è dubbia la sussistenza di un contratto redatto in forma scritta, ma in assenza di un impegno di spesa si ritiene applicabile il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, a norma del quale, qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell’ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal comma 3 di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell’ente, bensì dell’amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti dell’ente.

In questa ipotesi, è fatta salva la facoltà dell’ente di riconoscere anche a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso; fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale non è imputabile all’Amministrazione e intercorre direttamente tra il privato fornitore e l’amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell’esperibilità dell’azione d’ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall’art. 2042 c.c., il quale presuppone che nessun’altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell’arricchito, ma anche nei confronti di terzi (cfr. Cass., sez. 1, ordinanza n. 30109 del 21/11/2018; Cass., sez. 1, sentenza n. 24860 del 09/12/2015; Cass., sez. 1, sentenza n. 6292 del 16/03/2007).

In assenza quindi di un valido contratto, redatto in forma scritta e accompagnato dalla previsione di spesa, idoneo a far sorgere un rapporto obbligatorio in capo al comune è erronea la conclusione dei giudici di merito, essendo esclusa anche la diversa conclusione circa l’esistenza di una valida ricognizione del debito.

Con il terzo motivo, il Comune lamenta un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il Tribunale dapprima fa riferimento alla proposta transattiva (atto unilaterale formulato dal Dott. R.), poi fa riferimento alla stessa in termini di vero e proprio accordo transattivo e ciò si tradurrebbe in due proposizioni contraddittorie e inconciliabili della motivazione. L’accoglimento dei primi due motivi di doglianza assorbe l’esame del terzo motivo.

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio al Tribunale di L’Aquila in persona di diverso magistrato che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie i primi due motivi di ricorso, e assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di L’Aquila, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472